Se il calcio è composto anche di numeri, la mente del tifoso è certamente fatta anche di date. Nella testa di un romanista, il 30 maggio rappresenta la data di lutto per eccellenza, e non solo per una partita. Poteva bastare la prima e unica finale di Coppa dei Campioni persa a turbare i risvegli di un normale giorno di primavera, il 30 maggio 1984. Dieci anni più tardi, però, ci si è messa anche un’altra sconfitta. Quella sì, irrimediabile.
Cosa sia successo esattamente quella mattina del 30 maggio 1994, non lo sa nessuno. Ognuno si è dato la propria risposta, cercando di porre fine ai tormenti dell’anima più che alle razionali domande del cervello. Altri hanno solo voluto dimenticare gli ultimi passaggi di una storia che non avrebbe mai dovuto meritare un sipario simile. Perché quella mattina, a Castellabate, è bastato un attimo per portarsi via Agostino Di Bartolomei, il capitano che più di tutti aveva reso grande una tifoseria.
Ago era i silenzi rumorosi dell’anima romanista, l’umiltà e la schiena dritta, la fierezza di chi la squadra se l’era scelta per il peso del cuore, e non per quello della bacheca.
1968, Agostino è ancora un tredicenne che col destro si diverte a lacerare la rete del campo OMI, a Tor Marancia, dove è nato e cresciuto. Lo vuole il Milan, e solo un pazzo direbbe di no ai campioni d’Italia. Ago non è pazzo, ma rifiuta; con garbo, ma declina l’offerta. Per lui doveva esserci solamente la Roma, che sarebbe arrivata poco dopo quel rifiuto. Così Di Bartolomei inizia a vestire la maglia giallorossa nel settore giovanile, alla corte di un signore che ai ragazzi aveva scelto di mettere a disposizione esperienza e carriera: Antonio Trebiciani.
Nel ’72 i due si incontrano, in Primavera, e per quest’ultimo è come una folgorazione. Ne ha tanti di giovani interessanti, soprattutto Francesco Rocca, un terzino destro che quando accende la gamba brucia la fascia. D’accordo, ma Ago è un’altra cosa. Ha ancora diciassette anni e pensa già come un uomo. E non è un caso se l’esordio tra i grandi arriva poco dopo.
22 aprile 1973, Inter-Roma. Il presidente Gaetano Anzalone da appena due settimane ha sostituito Helenio Herrera proprio con Trebiciani, e per il neo tecnico è l’occasione giusta di svezzare Agostino. Quest’ultimo assaggia la Serie A sul prato di San Siro, costretto a non far sentire il peso delle assenze di Ciccio Cordova e Sergio Santarini – degli assenti, effettivamente, non se ne accorge nessuno. Finirà 0-0, con un punto d’oro per la Roma addirittura in chiave salvezza. Ai tre fischi del signor Gonella, Ago abbraccia Ginulfi e Scaratti come fosse un veterano.
È l’inizio di tutto, non a caso appena un giorno dopo il Natale di Roma: è nato qualcosa destinato a guadagnarsi quel privilegio dell’immortalità concesso solo a pochi. Chi ancora fatica a capirlo inizia a ricredersi la stagione successiva, quando ormai in panchina è arrivato Manlio Scopigno. Per il filosofo che ha portato lo scudetto a Cagliari, Agostino Di Bartolomei è già pezzo pregiato di cui non privarsi.
E infatti lo lancia titolare il 7 ottobre, alla prima di campionato, con la 10 sulle spalle.
Ago non solo gioca bene, ma nel finale trova anche la sua prima gioia personale. Cross di Domenghini, taglio puntuale e destro a incrociare sul secondo palo. Non è solo il gol numero uno in Serie A, ma anche la rete decisiva per battere il Bologna e incamerare i primi due punti stagionali. Peccato la storia non abbia deciso di seguire il suo regolare corso. La Roma inizia a balbettare e Scopigno dura poco: il derby del 9 dicembre gli è fatale, e in panchina viene chiamato Nils Liedholm.
Con il tecnico con cui avrebbe poi scritto la storia, per Ago non è subito amore. Per il resto della stagione gioca poco – lo fa molto di più l’anno successivo – e quando arriva giugno la decisione è di andare a fare esperienza altrove. Agostino va in B, a Vicenza, dove intanto è arrivato Scopigno, che di quel ragazzo non si è mai dimenticato. E infatti gli regala 33 presenze, che Di Bartolomei ripaga con ottime prestazioni e 4 gol. È un esilio necessario e salutare, perché nel ’76 viene richiamato a Roma, dove finalmente il destino può compiersi: Ago diventa titolare nell’ultimo anno della prima era Liedholm, e da quel campo non metterà più piede fuori.
È lento, ma pensa più veloce di tutti. E tira più forte di tutti, perché quel destro ci mette poco a essere ribattezzato il tritolo di Tormarancia, che esplode anche in un giorno – pure qui – non casuale. 9 gennaio ’77, Roma-Sampdoria, la nascita del Commando. L’espressione più passionale di quei tifosi che Di Bartolomei differenzierà per sempre da tutti gli altri. Perché «esistono i tifosi, e poi esistono i tifosi della Roma». Perché la foto di quei tifosi Ago se la porterà per sempre nel portafogli, stretta a quella dell’altro amore della sua vita, Marisa, con la quale si era conosciuto una sera e che avrebbe sposato lontano dai riflettori, a Londra, senza dire niente a nessuno; ma non per supponenza, solo per discrezione. La presunzione non rientra nei requisiti, la riservatezza sì.
Romano atipico? No, “perché non è vero che il romano sia un allegrone: è soprattutto triste perché è consapevole della sua decadenza dai tempi in cui dominava il mondo ad oggi”.
Lo sa bene Agostino, che divora anche i libri der Belli e der Trilussa. E soprattutto quando parla lo sa fare. Con stile, ma colpisce dritto chi lo sta ad ascoltare. Altrimenti basta lo sguardo, e chi deve capire lo fa senza bisogno di parole. Essenziale Ago, il ragazzo semplice che vive di cose semplici. Quello che non vuole lo si ringrazi: «sono io che mi sento grato a voi. A fine partita lasciate che sia io a battervi le mani».
Però gli applausi si iniziano a sprecare, soprattuttoquando Dino Viola diventa presidente e riporta in panchina Liedholm. Con Agostino diventa in poco tempo una pagana trinità, nel nome di chi ha deciso di ridare successi alla Roma. A maggio del 1980 arriva il primo trofeo, la Coppa Italia. Per conquistarla ci vogliono i rigori e Ago il suo lo sbaglia pure. Dal dischetto fallisce anche l’anno successivo, sempre contro il Toro, ma questa volta al Comunale. E pensare che era stato proprio lui a portare la Roma agli undici metri, col gol che nei tempi regolamentari aveva pareggiato il momentaneo 1-0 di Cuttone.
Anche qui la Coppa Agostino finisce per alzarla, per la prima volta da capitano, perché a decidere dagli undici metri è quel Falcao su cui sarebbe per sempre pesato un rifiuto di due anni più tardi; ma lì, quel 17 giugno così particolare del 1981, come finirà la (grande) storia ancora non lo sa nessuno. Neanche Agostino, che diventa definitivamente capitano per l’addio di Sergio Santarini e la Roma continua a guidarla in campo e fuori. Il sogno è lo scudetto, raggiungerlo un’evasione da quella che Dino Viola definisce “la prigionia”. Le catene le spezza anche Ago, l’8 maggio ’83. È suo il cross perfetto per la testa di Roberto Pruzzo. Come suo era stato il gol decisivo a Pisa, all’indomani di una sconfitta con la Juventus che aveva fatto ricadere Roma nella paura.
E la botta su punizione contro l’Avellino, una settimana prima di Marassi: il solito destro da fuori, poi in ginocchio sul prato dell’Olimpico. I pugni al cielo e Carlo Ancelotti a stringerlo in un abbraccio che ormai voleva dire vessillo.
Sarebbe potuto esserlo anche la stagione seguente, ma la testa romanista era troppo proiettata a quella Coppa dei Campioni da poter giocare in casa. Come se arrivarci fosse una passeggiata. Lo è almeno fino alla semifinale, quando la Roma si ritrova a dover rimontare due gol al Dundee. Qui il destino concede ad Ago l’onore di sancire il definitivo sorpasso, al ritorno, e poi di guidare all’assalto del Liverpool una squadra che – già sapeva – avrebbe dovuto lasciare. Sarebbe stato l’addio ideale, soprattutto per quel rigore, il primo. Lo sta per battere Ciccio Graziani, ma ad Agostino basta incrociare lo sguardo del Barone: si riprende il pallone, corre più veloce del vento. E il portiere lo fa passare.
La storia si chiude un mese più tardi, il 26 giugno. Finale di Coppa Italia, ritorno all’Olimpico. Autogol di Ferroni, mentre in Sud si consuma l’ultimo atto d’amore. Perché ad Ago avevano tolto la Roma, non la sua Curva e neanche la sua gente, verso la quale alzerà l’ultima coppa, prima di partire in direzione Milano. Questa volta ai rossoneri non si può dire di no.
Al Milan tre stagioni, poi Cesena e la scelta di terminare la carriera a Salerno, dove ormai prepara il dopo carriera. Ci passa due anni in granata, finendo con la promozione dalla C1 alla B: lo imponeva il senso del dovere. Cosa sia successo dopo è mistero. Forse lo sa solo Agostino. Da Trigoria non lo chiamano, il mondo del calcio si volta dall’altra parte. E Di Bartolomei è uomo vero, macchia bianca in un mare di mezzucci e mezze persone.
Il 30 maggio 1994 se lo porta via un colpo di pistola. Nessun perché lenirà mai le ferite.
Se a un tifoso della Roma chiedi quando è nato il figlio forse devi aspettare un po’ per avere risposta. Se gli chiedi dove fosse il 30 maggio, ti racconterà due storie: entrambe tristi ma infarcite di orgoglio. Come gli occhi di Ago, apparentemente velati. Come quel capitano silenzioso e coraggioso, che non si era mai nascosto davanti a niente. «I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile», scriverà anni dopo Gianni Mura. Forse Agostino aveva solo scelto di diventare Leggenda.