Sul loro sito web si definiscono “un gruppo di preti amici che ogni tanto si ritrova per giocare insieme a pallone”, ma in realtà sono molto, molto di più. Fondata nel 2016, l’Asd Sacerdoti Italia Calcio è divenuta in breve tempo una vera e propria nazionale, partecipante ogni anno all’Europeo di calcio per preti. Le sue iniziative sono sportive e benefiche allo stesso tempo: l’ultima, una raccolta fondi a supporto della missione a Salvador De Bahia (Brasile) di Don Davide Ferretti, sacerdote cremonese membro della squadra che nel 2019 è partito per aiutare le giovani generazioni locali a crescere in ambienti sani e sportivi, costruendo così un’alternativa reale alla vita criminale.
Per questo abbiamo deciso di intervistare Don Pasquale Fracasso, numero 11 e vicepresidente della rappresentativa oltre che parroco di Cerfignano e Santa Cesarea Terme (in provincia di Lecce). L’occasione è stata ghiotta sia per conoscere un mondo, quello del calcio sacerdotale, senza dubbio affascinante, sia per confrontarci finalmente con un “addetto ai lavori” di quel calcio oratoriale che da sempre Contrasti supporta.
Buongiorno Don Pasquale, come nasce l’idea di una nazionale composta da sacerdoti?
Questa esperienza è partita in Europa dalla sensibilità di alcuni preti attenti allo sport e soprattutto al calcio. Hanno ideato insieme un campionato europeo che possiamo considerare come l’iniziativa che catalizza tutto il nostro impegno annualmente. Abbiamo raggiunto la quattordicesima edizione, ci raduniamo da ben 18 nazioni e coinvolgiamo in genere 250/260 preti.
Cosa significa per voi giocare a calcio?
La nostra squadra è composta da preti che vengono da più parti d’Italia: Lombardia, Piemonte, Marche, Lazio, Puglia, Calabria… Giocarci è soprattutto un’esperienza di fraternità, di amicizia sacerdotale. Condividiamo la passione del calcio e ne facciamo uno strumento per poter dire a tutti quanto è bello poter vivere l’esperienza dei valori dello sport oltre il semplice agonismo e oltre il mondo professionistico. Noi crediamo in uno sport che educhi, che trasmetta messaggi e per questo ci mettiamo in gioco.
La Nazionale Italiana al Campionato Europeo di calcio per sacerdoti del 2020, svoltosi in Repubblica Ceca.
Noi siamo da sempre sostenitori della causa degli oratori italiani, fino a poco tempo fa inscindibilmente legati al calcio nazionale per il loro carattere gratuito e accessibile a tutti. Oggi invece le scuole calcio hanno sottratto molto a questa esperienza e forse anche al calcio stesso: i ragazzi che possono accedere allo sport sono diventati i più abbienti. Lei ha vissuto questo stacco?
Sì. Intanto voglio ricordare che in Italia abbiamo un tessuto di ben 8.000 oratori. Ovviamente non tutti hanno le stesse strutture, però conosco realtà di grandi potenzialità: un oratorio in Emilia Romagna ha ben dodici campi da calcio e la squadra del Sassuolo ci conduce delle sessioni di allenamento. Questo fa capire le dimensioni che a volte un oratorio ha rispetto al tessuto sociale di una città, di un paese o di un quartiere. Le scuole calcio che sono proliferate ovunque non sempre sono veicolo di uno sport veramente capace di assicurare il benessere integrale dei ragazzi. Molte volte in questi luoghi sono educati più al raggiungimento di un obiettivo competitivo che a vivere un’esperienza relazionale autentica. Non parlo di tutte le scuole calcio ovviamente, non mi permetterei mai.
Volti sorridenti e tanta emozione prima dell’incontro con Papa Francesco in Vaticano.
Anche il calcio professionistico italiano deve tanto alla religione cattolica e agli oratori: basterebbe citare Trapattoni, credente e con una sorella suora, partito appunto dai campetti della chiesa per poi fare la storia del calcio italiano ed europeo. Ma pensiamo anche a Roberto Mancini. Lei nota ancora un legame tra le star del calcio e la religione?
Devo dire che la mia esperienza è di un mondo dello sport ancora capace di essere attento a questi valori. Conosco diversi campioni la cui dimensione religiosa – e non quella anonima ma proprio quella spirituale anche legata all’esperienza del Vangelo – è veramente presente. Non è poco. Un esempio è Demetrio Albertini. A livello italiano abbiamo realizzato un progetto che si chiama Sport4Joy, promosso dall’Ufficio Nazionale di Sport, Turismo e Tempo libero dei vescovi italiani. È un’esperienza interessante che la chiesa italiana ha provato a fare proprio per affiancare i campioni ai ragazzi degli oratori. L’obiettivo è mostrargli che essere campioni non significa solamente segnare una punizione o un rigore, ma saper portare i propri valori nella vita e in campo.
I fratelli Albertini tra calcio e religione: Demetrio (ex centrocampista della Nazionale italiana e del Milan campione d’Italia, d’Europa e del mondo) è oggi presidente del Settore tecnico della Figc, Don Alessio è responsabile della Commissione diocesana dello sport e Assistente ecclesiastico nazionale del Csi, Gabriele è presidente della Pro Sesto. (Foto Angela Bartolo via unicatt.it)
Però come coincide tutto questo con una narrazione attuale dello sport così votata alla performance e ai numeri? Molte analisi giornalistiche parlano dei calciatori prendendo come base addirittura le loro percentuali di riuscita dei passaggi…
C’è uno sport “giornalistico” che veramente calca troppo la mano su questi aspetti. Però devo anche dire che ci sono in Serie A allenatori come Gattuso e Ballardini che ragionano diversamente. Gattuso è un uomo che tratta i suoi calciatori come uomini. Ho ascoltato anche un’intervista di Allegri, dopo una sconfitta solenne della Juventus, che ha veramente riportato alla luce alcuni valori preziosissimi in fase di allenamento e di allestimento della squadra. Io credo che l’umanità del calcio oggi vada rilanciata e gli strumenti ci sono, perché ad esempio un’esperienza come Contrasti, che ho scoperto da poco, è da valorizzare.
È chiaro che un calciatore non valga solo per i suoi numeri, altrimenti ci si dimentica che anche il campione è un uomo, e che a volte è anche fragile. Capita qui in oratorio di vedere le partite insieme e anche a me viene da dire: “ma come mai in Serie A sbagliano quel passaggio? Si allenano tutta la settimana! Come mai non riescono a battere un calcio d’angolo come si deve?” Il motivo è che i calciatori non sono degli automi, molte volte oggi il rischio è pensare che i calciatori siano delle macchine che eseguono e basta.
Cos’è lo sport per gli oratori?
Come dice Papa Francesco lo sport è un diritto di tutti i ragazzi. Se ci facciamo ispirare da teorici come Huizinga, che ha parlato di “homo ludens”, possiamo affermare che proprio il gioco sia un diritto. Lui non si è fermato all’homo sapiens o all’homo religiosus, che ha dentro di sé briciole dell’infinito, ha parlato anche di un uomo che tutto quello che fa lo può fare solo se si mette in gioco, perché è un essere fondamentalmente relazionale e il gioco è una delle sue esperienze primordiali.
Però mi rendo conto che in alcuni ambienti non è ancora maturata questa convinzione, ovvero che qualunque ragazzo possa dare il meglio di sé solo se viene messo nella condizione di poter essere homo ludens. Anche noi per molto tempo abbiamo alternato in maniera ridicola la preghiera e lo sport: «se fai il bravo ti faccio giocare», «se vieni in chiesa ti faccio giocare». Questa non è la nostra mentalità attuale, noi vogliamo dare sempre il meglio ai ragazzi lasciando che tutto ciò che seminiamo possa poi maturare col tempo.
La rete degli oratori arriva ovunque in Italia. Anche a Possagno (un comune di 2000 abitanti in provincia di Treviso) questo meraviglioso campetto permette alle giovani generazioni di praticare e amare il calcio. (Giacomo Cunial)
Questa rigida separazione dall’esperienza del gioco è radicata ovunque. Noi ad esempio siamo sostenitori del calcio di strada, inteso sia come possibilità di divertimento sia come messaggio alla società intera: le strade non sono solo il luogo deputato al passaggio delle auto. Eppure questa modalità di vivere il calcio sembra oggi dimenticata, non trova?
Un tempo non era così. La strada è uno dei luoghi che come mondo degli oratori vogliamo valorizzare. L’animazione di strada e lo sport di strada sono esperienze che cerchiamo di recuperare. Proprio per mandare il messaggio che la strada non sia uno spazio da proibire ma uno spazio da favorire, in quanto spazio dell’incontro. Oggi dobbiamo offrire luoghi di relazionalità e di informalità, perché i ragazzi sono ormai costretti alla formalità degli appuntamenti. Gli chiedi cosa faranno domani e rispondono: da quell’ora a quell’ora la palestra, l’ora successiva un altro impegno, quella dopo un altro ancora…
Non è giusto, dobbiamo favorire l’informalità. Noi scommettiamo sulla strada, anche per intercettare ciò che per tante ragioni non valica la soglia dell’oratorio. Giovanni Paolo II diceva proprio che l’oratorio deve essere un ponte tra la chiesa e la strada. Citava per prima la chiesa, perché deve essere la chiesa a gettare il ponte. Su di noi la strada ha una suggestione straordinaria per il semplice fatto che Gesù incontrava le persone lì, non le aspettava in Chiesa.
Del resto Papa Francesco ha parlato di una Chiesa “in uscita”…
Papa Francesco ci dice che dobbiamo andare fuori. Abbiamo fatto un happening degli oratori a Molfetta intitolato “Facciamo fuori l’oratorio!”, che è un titolo provocatorio e pericoloso, ma il nostro “fuori” è un “usciamo!”. Perché questa è la scommessa dell’oggi, dobbiamo uscire. L’oratorio non è fatto per inglobare e chiudere, proteggere in maniera spaventata da chissà cosa. Mi scontro a volte con genitori che ritengono che i loro figli debbano essere protetti… Gli dico che i loro figli devono saper stare invece nel mondo di oggi. Ciò comporta che a volte si scottino, si facciano del male. Siamo noi a non dovere mancare in quei momenti, dobbiamo trovare il modo di stargli accanto.
Progetti futuri? Cosa ha in mente per il suo oratorio?
Noi come oratorio affiliato al CSI abbiamo già avviato una stagione, quella un po’ interrotta dal Covid, e abbiamo rilanciato l’aspetto formativo. In particolare offriamo ai nostri soci, che sono soprattutto adolescenti di diciassette/diciotto anni, la possibilità di formarsi come allenatori e come dirigenti di società. Stiamo scommettendo fondamentalmente sulla formazione perché per noi questa è la strada maestra di questo tempo: meno conoscenze abbiamo e peggio faremo il nostro servizio.