Crocevia di culture e religioni, il Libano è oggi un Paese sconvolto e senza futuro (anche nel calcio).
La relazione tra il Libano e il calcio si struttura attraverso tre macro-periodi: il primo riguarda la nascita di club cristiani durante il mandato francese sul Libano e sulla Siria negli anni ’20 e ’30 del Novecento; il secondo è caratterizzato dai club sunniti e drusi dei decenni ’30 e ’40; il terzo ed ultimo, infine, vede la nascita dei club sciiti, negli anni ’60. Già da questo primo schizzo è facile notare come l’intricata situazione religiosa della «Repubblica del cedro» si accompagni al calcio, lo sport più popolare del Paese.
Il fattore che più di ogni altro caratterizza il Libano è, infatti, la frammentazione religiosa. Nonostante la sua modesta dimensione e una popolazione di appena 5.416.225 abitanti (stima del 2017), sono addirittura 18 le sette religiose ufficialmente riconosciute. Tale divisione di Credo si riflette inevitabilmente sul sistema politico – contraddistinto dal confessionalismo – oltre che sulla struttura sociale e la conseguente ripartizione geografica del territorio.
Come afferma Rahif Alameh, ex segretario generale della Lebanese Football Association,
«in Libano politica e religione non sono mai state sconnesse», e ciò vale senza dubbio anche per il calcio.
La nostra ricerca inizia dalla capitale, Beirut. Qui, come nel resto del Paese, sono presenti una miriade di squadre con una marcata identità religiosa e una forte connessione con il quartiere natio. Il suolo d’origine, la religione e il calcio. Tre elementi originariamente comunicanti.
Il Nejmeh e l’Al-Ansar. Tra divergenza confessionale e rivalità calcistica
Quali squadre popolano il suolo libanese? Tra le più antiche troviamo il Racing Beirut e il Sagesse, fondate rispettivamente nel 1935 e nel 1943 nel quartiere di Achrafieh, tradizionalmente popolato da cristiani; è poi il turno del Safa SC (1939), indissolubilmente legato alla comunità drusa residente nel quartiere di Watah Al Msaytbeh. L’Al Ahed (1964) è invece storicamente supportato dai musulmani sciiti e oggi associato al partito-milizia Hezbollah.
Sciiti sono anche i tre club fondati negli anni ’60 nei distretti a Nord dell’aeroporto: Shabab Al-Sahel (1966), Shabab El-Bourj (1967) – “shabab” è il termine che in arabo indica la gioventù – e Bourj FC (1967); infine Al-Ansar e Nejmeh, i due club più illustri e vincenti del paese, la cui rivalità ancestrale dà vita a uno dei derby più appassionanti e sottostimati del calcio mondiale. L’elenco non finisce qui, ma partiremo proprio da queste ultime due squadre per addentrarci nell’aggrovigliata storia del calcio libanese.
Il Nejmeh Sporting Club, il cui nome arabo significa letteralmente «stella», vide la luce nel 1945 per volontà di alcuni giovani libanesi, sia drusi che sunniti, nel distretto altolocato di Manara a Ras Beirut – storicamente misto a livello religioso. Il club venne riconosciuto dal Ministero dello Sport solo il 28 aprile 1947.
In questi anni, durante i quali militò nei campionati amatoriali, il Nejmeh ha affrontato varie squadre locali provenienti dai quartieri limitrofi, tra cui l’Al-Taawon, che risulterà essenziale per la crescita del club. Prima di una partita tra le due compagini, infatti, verrà ratificata una clausola secondo cui, al termine dell’incontro, i giocatori della squadra sconfitta sarebbero poi passati al club avversario. Il Nejmeh vinse quella sfida, e anche grazie ai nuovi innesti verrà promossa nella Lebanese First Division nel 1951.
I successi aumentano esponenzialmente la fama internazionale del Nejmeh, al punto che nell’aprile del 1975 un certo Edson Arantes do Nascimento, più noto come Pelé, giocherà una partita amichevole vestendo la maglia del Nejmeh.
L’altra “grande” libanese è poi l’Al-Ansar. I suoi fondatori avrebbero voluto chiamarla Al-Intisar, cioè «vittoria», ma il nome era già stato prenotato. Ecco, allora, che Mustafa Al-Shami, l’allora presidente, optò per Ansar, cioè il nome che Maometto diede ai membri delle tribù medinesi che si presero cura di lui. Poco dopo la sua fondazione, il neonato club di Beirut fu costretto a trasferirsi nei dintorni della capitale, più precisamente nel confinante comune di Al-Ghobeiry. La causa? Il limite imposto dalle autorità locali: non più di una società sportiva ogni 10.000 abitanti. L’Al-Ansar aspetterà dunque il 1965 prima di potersi trasferire nel luogo d’origine e altri due anni prima di raggiungere la massima divisione calcistica. Si dovrà attendere l’8 dicembre 1968, infine, per assistere al primo incontro tra Ansar e Nejmeh. Finirà 2-1 per il Nejmeh.
Gli anni Settanta sono quelli della prima «golden era» del Nejmeh: il primo trofeo arriva nel 1971 con la vittoria in coppa nazionale contro il Safa per 3 reti a 1. L’anno successivo, il «Castle of Burgundy», così chiamato per il colore purpureo della divisa, si aggiudica il primo scudetto e due anni più tardi replica l’impresa. Questi successi aumentano esponenzialmente la fama internazionale del club libanese, al punto che nell’aprile del 1975 un certo Edson Arantes do Nascimento, più noto come Pelé, giocherà una partita amichevole vestendo la maglia del Nejmeh.
L’arrivo del fuoriclasse carioca fa letteralmente impazzire la popolazione, che invade le strade della città e per un attimo si dimentica del pesante clima politico, preludio della guerra civile. Nell’incontro, disputato contro una rappresentativa di “campioni” del calcio locale, Pelé segna una doppietta e ammalia lo stadio gremito, estasiato dalle giocate di O Rei.
La guerra civile ferma tutto, anche il calcio
Lo spettacolo non basta a fermare lo scoppio della guerra civile – il cui inizio è datato 13 aprile 1975. Il sangue riversato per le strade della città arresterà bruscamente la crescita che stava caratterizzando il Paese dal punto di vista commerciale, sociale e sportivo. Le drammatiche vicende belliche porteranno così ad un’inevitabile sospensione delle competizioni sportive, tra cui ovviamente il campionato di calcio. Verranno riprese solo 12 anni più tardi, nel 1987.
Una delle prime conseguenze della guerra civile sarà la «green line», la linea di demarcazione territoriale che divide Beirut in due blocchi contrapposti: a Est la comunità cristiana e a Ovest quella musulmana. Col passare degli anni questa frattura si acuirà; come ovvio, aumenteranno i dissidi tra sunniti e sciiti. In questo contesto di discordia, le comunità religiose verranno tagliate fuori dai club associati.
Anche per questa ragione, dopo il lungo conflitto, la situazione economica dei singoli club, oltre che del Paese in generale, sarà tutt’altro che rosea. La necessità delle società di un sostegno finanziario agevolerà d’altra parte l’avvicinamento di ricchi e politici al mondo del calcio. Il caso più eloquente, non troppo lontano dall’opera di Berlusconi in Italia e Macri in Argentina, sarà quello di Rafiq Hariri.
Rafiq Hariri. I soldi fanno la felicità
Il tycoon libanese inizia la propria carriera imprenditoriale nel settore edilizio per poi allargarsi a quelli bancario, petrolifero, industriale e delle telecomunicazioni. E’ indubbiamente l’uomo più ricco e influente del Paese, lo stesso che porrà le basi per gli «Accordi di Taif» – sulla fine della Guerra – nel 1989. Nel 1992, Hariri diviene Primo Ministro con l’incarico di guidare la rinascita del Libano.
Prima di ricoprire la carica istituzionale, si inserisce nel mondo del calcio per accrescere il proprio consenso popolare. Ed è soprattutto grazie a lui e al suo entourage sunnita – il facoltoso amico Salim Diab è presidente del club e Raheef Alame diventa Segretario generale prima del club e poi anche della Federazione -, è dunque con l’aiuto suo e dei suoi collaboratori che l’Ansar si trasforma in una squadra vincente, o meglio la più vincente e rinomata nel Paese.
Il club riuscirà a conquistare ben 11 campionati di fila dalla stagione ’87/’88 fino a quella ’98/’99, 8 Lebanese FA Cup e 4 supercoppe. Per interrompere la lunga striscia positiva è necessario l’intervento di un trinidadiano, Errol McFarlane: le due squadre principali si trovano appaiate ai vertici della classifica e lo scontro diretto sarà deciso proprio dal giocatore di Port of Spain, che con un’incornata di testa manderà al tappeto il «Green Boss», soprannome con cui è conosciuto l’Ansar, spianando la strada al Nejmeh verso la conquista del titolo a lungo atteso.
La passione dei tifosi dell’Al-Ansar nel derby del settembre 2018
L’incubo che si avvera. Due squadre, stesso presidente
Questa vittoria dà impulso alla seconda «golden era» del club, in coincidenza con l’avvento del terzo millennio. Il Nejmeh ritorna ad essere la squadra dominante, in grado di imporsi non solo in tutte le competizioni nazionali, ma anche a livello internazionale – nel 2005 raggiungerà la finale di AFC Cup, poi persa contro i giordani dell Al-Faisaly con un risultato complessivo di 4 a 2 tra andata e ritorno.
Il secondo periodo d’oro del club coincide con un cambiamento epocale ai vertici dello stesso: è il 2003 e Omar Ghandour, lo storico presidente del Nejmeh in carica dal 1969, lascia le redini della società. Il vuoto è colmato dalla famiglia Haririche decide, dopo l’Ansar, di finanziare e dirigere anche gli acerrimi rivali. La tifoseria Burgundy, a netta maggioranza sciita, non prende la cosa con gioia, per usare un eufemismo.
Il Nejmeh diventerà una delle pochissime squadre libanesi con tifosi provenienti da ogni parte del Paese e ideologicamente promiscui: alla comunità sciita si aggiungono, dunque, le simpatie di quella sunnita, drusa e cristiana. Le differenze e gli attriti tra le diverse comunità risultano evidenti ogni qual volta il Nejmeh affronta squadre religiosamente “schierate”. Un esempio sono le partite con l’Al-Ahed, sciita in tutto e per tutto. Avete mai sentito cori d’insulto tra gruppi interni a una stessa tifoseria? Probabilmente no, ma è esattamente ciò che accade in questo caso. Guerra civile, sì, ma all’interno di uno Stadio.
Dato il ruolo di primo piano ricoperto in Libano dalle vicende politiche, in quegli anni gli eventi sportivi diventeranno strumento di violenza, anziché occasione per trascendere momentaneamente le problematiche quotidiane.
A livello generale, la politicizzazione dei club avrà un duplice risvolto: da una parte i tifosi inizieranno a sostenere i politici che finanziano la propria squadra del cuore; dall’altro i sostenitori dei vari politici cominceranno a seguire assiduamente le squadre finanziate dai loro partiti di riferimento, col risultato di creare attorno alle rivalità calcistiche un pesante clima di ostilità politica. La conseguenza? Scontri fisici e verbali sulle tribune degli stadi libanesi. Di continuo.
L’apice della tensione arriva in seguito alla morte di Rafiq Hariri, ucciso con un’autobomba il 14 febbraio 2005. L’assassinio segna l’inizio di un altro periodo di tumulto e caos in tutto il Paese, che avrà ripercussioni anche sul calcio. Dato il ruolo di primo piano ricoperto in Libano dalle vicende politiche, in quegli anni gli eventi sportivi diventeranno strumento di violenza, anziché occasione per trascendere momentaneamente le problematiche quotidiane.
E’ a causa di questo clima, rovente e incontrollabile, che il governo si vede costretto a vietare l’accesso allo stadio ai tifosi. Tutte le partite saranno giocate a porte chiuse fino al 2011. L’atmosfera allo stadio è surreale, e anche l’umore dei giocatori ne risente pesantemente. Nassereddine, attaccante del Nejmeh, dichiarerà nel 2007 che
«Solitamente fare gol mi riempie di gioia, ma senza i tifosi segno e mi sento come se fossi morto».
Immagini purtroppo recentissime, datate 20 gennaio 2020
Dallo scandalo scommesse alla prima libanese sul tetto d’Asia: l’Al-Ahed
Partite a porte chiuse, stadi sporchi e decadenti, lotte settarie, blackout elettrici, campi di gioco improponibili e morte. Sono questi gli ingredienti che il calcio libanese propone in questo periodo della sua storia. Come se non bastasse, a seguito di un’indagine internazionale avviata dalla FIFA nel febbraio 2013, viene a galla un giro di calcio scommesse che coinvolge numerosi protagonisti del campionato. Si concluderà con un bilancio di 24 giocatori squalificati, di cui due – Ramez Dayoub e Mahmoud El Ali – a vita.
Nonostante una storia travagliata e un pessimo clima generale, il calcio in Libano si risolleva per l’ennesima volta. Emergono due nuove protagoniste, il Safa e soprattutto l’Al-Ahed. Quest’ultima può infatti vantare un ricco bottino negli ultimi quindici anni: 7 campionati, 6 coppe nazionali, 4 supercoppe e, cosa più importante, la conquista dell’AFC (Asian) Cup a seguito della vittoria per 1 a 0 sui nordcoreani dell’April 25 lo scorso novembre. L’ascesa del club, molto vicino ad Hezbollah, è il frutto di una buona programmazione generale, un importante investimento nel settore giovanile e una stabilità finanziaria non proprio diffusa in Libano.
2016. La protesta è storica perché vede la partecipazione di tifoserie rivali, unite per uno scopo comune a prescindere dalle divisioni ideologico-religiose che hanno dilaniato il calcio libanese: riprendersi il sacro diritto di tifare la propria squadra.
Un’oasi di speranza in un deserto di desolazione. Il 13 marzo 2016 la Federazione decide di agire con un ulteriore “soffocamento”, vietando ai tifosi di poter assistere alle partite della propria squadra del cuore. Il provvedimento scatena la reazione delle tifoserie che, guidate dai sostenitori del Nejmeh, si riuniscono nelle strade di Beirut per riappropriarsi del loro principale diritto: andare allo stadio a incitare la propria squadra. La protesta è storica perché vede la partecipazione di tifoserie rivali, unite per uno scopo comune a prescindere dalle divisioni ideologico-religiose che hanno dilaniato il calcio libanese. Il movimento raggiunge i propri scopi e poco dopo le tribune si riempiranno nuovamente, dando un senso alle partite di pallone.
“Risolto” il problema gradoni, rimangono altre questioni da dirimere. Il sistema calcio nazionale, infatti, rimane comunque molto lontano dall’essere risolto. Basti solo pensare alla questione degli stipendi. Gran parte dei giocatori, infatti, non ha un contratto professionistico e viene pagata a prestazione. Ecco perché, in Libano, i calciatori professionisti hanno spesso un altro lavoro.
2017/2018. La stagione delle riforme inesistenti. Il Paese in rivolta e la morte del pallone
Stagione 2017/2018: i rappresentanti di Nejmeh, Ansar, Ahed, Nabi Chit e Racing si riuniscono per proporre delle modifiche al campionato. In primis, offrire contratti professionistici ai giocatori; in secondo luogo, migliorare le strutture e la gestione dei settori giovanili; abolire la norma che impedisce ai giocatori locali di trasferirsi in altri club a metà stagione; consentire ai club l’acquisto di 4 stranieri, di cui 3 di qualsiasi nazionalità e 1 asiatico; migliorare i servizi per incrementare l’affluenza di pubblico allo stadio; cercare nuove sponsorizzazioni e investimenti che facciano progredire la lega.
La ventata di freschezza, annunciata in grande stile, è però breve e passeggera. La possibile rinascita definitiva del calcio libanese si interrompe bruscamente nell’ottobre 2019, quando le proteste scoppiate nel Paese ricacciano i buoni propositi nel baratro. Le manifestazioni, scaturite dal tentativo di introduzione di nuove tasse – tra cui la nota tassa sulle telefonate via Whatsapp – raggiungono dimensioni mai viste nella storia del Paese.
Oltre alla pretesa delle dimissioni di Saad Hariri – secondogenito di Rafiq – ottenute a dicembre, il protrarsi delle proteste riguarda un malcontento diffuso su vari punti: la decennale crisi energetica incapace di fornire h24 l’energia a tutto il Paese; la pessima gestione dei rifiuti; la difficile gestione dell’afflusso di oltre un milione di rifugiati siriani; le politiche di austerità; la diffusa corruzione amministrativa e soprattutto l’esplicito rifiuto del sistema settario che ha retto e ordinato la vita politica libanese sin dalla fine della guerra civile.
Il campionato è stato dunque sospeso fino a data da destinarsi, ma nessuno sembra essere in grado di intravedere la luce in fondo al tunnel. Le prospettive per un ritorno alla normalità sono difficilmente pronosticabili, di certo non immediate. Il calcio è ancora una volta vittima delle complesse e losche dinamiche politiche. La bellezza e la convivialità di questo gioco sono soffocate dagli intrighi delle classi dirigenti e chi ci rimette, come sempre, sono i tifosi, la cui unica felicità consiste nel vivere gioie e dolori della propria squadra del cuore.
Il calcio in Libano è la grigia fotografia del Paese. Più che fenomeno sportivo, pretesto e occasione di contrapposizione e scontro politico-religioso. Eppure, lo spirito altrettanto indomabile del tifo fa sì che le partite di pallone restino uno dei cardini sociali libanesi. L’augurio è che il calcio libanese possa risollevarsi il prima possibile. Per tornare a cantare sulle note dell’inno di Rashid Nakhle:
كلنـا للوطـن للعـلى للعـلم “Tutti noi, per il nostro Paese, per la nostra gloria e bandiera”.
Per la realizzazione di questo articolo l’autore vorrebbe ringraziare Elias, George e Hasan, amici del Libano e tifosi come noi.