Tra Sinner e Djokovic ci passa una carriera.
«Non si batte Djokovic due volte nello stesso torneo». Così Goran Ivanisevic, coach di Nole, ha riassunto l’esito delle Finals. Parole con un sottotesto chiaro anche, quello di aver ristabilito le gerarchie – “abbiamo rimesso la Chiesa al centro del villaggio” avrebbe detto un altro allenatore passato per l’Italia, ma questa volta di calcio. Perché Sinner ha disputato una settimana e ancor prima un finale di stagione strepitoso, che lo proietta di diritto e di dovere tra i migliori, anzi tra i primi 3-4 giocatori del mondo, come testimonia la sua classifica. Eppure qualche volta si tende, complici l’entusiasmo e i risultati del momento, a fare un po’ di confusione.
È vero che Sinner veniva da dieci vittorie consecutive, che per la prima volta aveva sconfitto – con continuità – i più forti giocatori del mondo; così come è vero che aveva chiuso il girone delle Finals a punteggio pieno, battendo in modo convincente lo stesso Djokovic. Ma è vero anche che Sinner è Sinner, un fenomenale ventiduenne e tuttavia ancora in fase di crescita, e Djokovic è Djokovic: numeri alla mano, il più forte giocatore nella storia di questo sport. Uno che questa stagione ancora, a 36 anni, ha vinto tre delle quattro prove del Grande Slam, oltre alle Finals.
Per questo dobbiamo, come italiani ma ancor prima come commentatori, avere pazienza nelle analisi e pure nei giudizi.
Questa frenesia del tutto e subito, che troppo spesso monta sui social come panna montata, è infatti fuorviante, l’espressione di un periodo storico che non è più abituato alla pazienza, alle gerarchie, che si dimentica in fretta di tutto per il fatto del momento. Che rischia di portare dalle stelle alle stalle, come accaduto per Berrettini ad esempio, che in finale ci arrivò addirittura a Wimbledon (persa sempre contro lo stesso Djokovic) e che ha risentito di una narrazione isterica e bipolare che lo ha trasformato da campione (cosa che purtroppo, come avevamo scritto, non è mai stato) a brocco (cosa che non è).
Nulla a che vedere con Sinner, parliamoci chiaro: molto più completo, talentuoso e naturalmente destinato alle prime posizioni del tennis mondiale di quanto fosse Matteo. Ma l’ansia che abbiamo è sempre quella, che poi inquina anche il racconto nel quale tutto si mischia e si confonde, crescono le aspettative e con esse la frustrazione quando, magari, le cose iniziano a non andare come ci eravamo prefissati. Un’ansia che cresce nei giudizi avventati dei social, regno dell’istantaneo per eccellenza, nei quali una storia dura 24 ore e un periodo buono già fa dimenticare una carriera. Ma un’ansia che troppo spesso, in buona fede, alimentano anche i giornali.
«Il numero uno del mondo è oggi un obiettivo concreto, la prima vittoria in un torneo del Grande Slam deve arrivare l’anno prossimo», scrive ad esempio Gianni Valenti oggi su Gazzetta.
Posto l’augurio sincero, l’esortazione fiduciosa, se possiamo permetterci Sinner non deve nulla. O meglio, deve arrivare lontano nelle prove del Grande Slam, essere lì con i 3-4 migliori per contendere il titolo, ma tra questo e il trionfo in un torneo del Grande Slam (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open) spesso passano dei dettagli. Uno di questi si chiama Novak Djokovic, tanto per dire, lo stesso Djokovic che ieri ha mostrato quanta differenza ci sia ancora – ed è naturale che sia così – tra un campione in crescita come Sinner e uno che invece ha segnato (come nessun altro) gli annali del tennis, e che ha accumulato nella carriera un bagaglio di esperienze e certezze letteralmente inimmaginabile.
Insomma, oggi giustamente c’è molta fiducia intorno a Sinner, che ha chiuso una stagione con la certezza di essere arrivato al livello dei migliori. Ma il tennis è lo sport del diavolo, per citare Panatta. Mentalmente innanzitutto, e noi davvero non ci rendiamo conto che sportivi siano stati Nadal e Djokovic (tra i più grandi non solo nella storia del tennis, ma dello sport in generale), per non citare Federer che è stato il tennis sceso in terra (e in erba soprattutto, e in cemento). Uno sport in cui l’eccezione sono stati gli ultimi quindici anni, e nel quale invece è sempre stata fisiologica una certa altalena di rendimento durante l’anno.
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Sport estenuante a livello mentale ma anche – per giocarlo a certe intensità, quelle che tengono Sinner e Alcaraz – a livello atletico. Anche qui, c’è da valutare come il fisico dell’altoatesino, abituato a un gioco così potente e muscolarmente dispendioso, reggerà alla trasformazione in macchina perfetta che impone lo sport contemporaneo, pure perché a differenza ad esempio di un Alcaraz Jannik parte da una struttura ossea e muscolare differente. Per questo, accumuliamo tutto il buono visto nell’ultimo periodo ma senza imporre obiettivi troppo ambiziosi – conditi da frustrazioni se poi non si concretizzano.
Guardiamo al presente, e al recentissimo passato, più che al futuro. Per ora Sinner, nelle ultime settimane, ha dimostrato di poter battere con continuità tutti, da Medvedev in giù, e di dare più di qualche pensiero a Djokovic – con Alcaraz la storia è diversa, e lo spagnolo soffre tecnicamente e psicologicamente Jannik più di qualsiasi altro giocatore. Un risultato straordinario, che però è stato accolto quasi fosse naturale. In realtà, un autentico punto di svolta di una carriera. Come ha detto lui stesso:
«Oggi sono diventato un altro giocatore rispetto a inizio stagione».
Credete forse che sia poco? Per questo, dopo che l’Equipe lo aveva definito ‘la delusione dell’anno (2022), si può essere a dir poco soddisfatti per l’annata 2023. Si tratta della migliore iniezione di fiducia possibile per la nuova stagione, di certezze che devono diventare fondamenta solidissime. O per citare Sinner stesso: “Direi che, per un ragazzo di 22 anni, è stata una buona stagione”.