Intervista a Stefano Meloccaro, una vita sui campi (in)seguendo le palline gialle.
Passione autentica e mestiere vissuto con entusiasmo: Stefano Meloccaro ci ha aperto le porte del suo mondo; accompagnandoci dolcemente, con una semplice signorilità, come sempre ha fatto con telespettatori e radioascoltatori. Voce inconfondibile di Sky Sport, Meloccaro è un commentatore che con competenza sa come rivolgersi a diverse generazioni di spettatori. Dai primi colpi di racchetta ai grandi tornei internazionali, tra emozioni e ricordi indelebili, ci ha restituito attraverso le sue parole l’impegno di chi ha legato al tennis non solo la propria carriera, ma un’intera vita.
Stefano, quando ti sei innamorato del tennis?
Io appartengo alla generazione degli italiani nati negli anni 60. Ci siamo innamorati del gioco seguendo le vicende della squadra di Coppa Davis capitanata da Nicola Pietrangeli. Se il tennis nel nostro Paese è diventato uno sport popolare è merito di quei campioni. Li guardavamo giocare con occhi sognanti e, una volta finiti i match in televisione, correvamo in strada a emulare i loro colpi battendo le palline contro i muri. Eravamo come i ragazzi della via Pál. Noi, per la precisione, eravamo i ragazzi di via Amatrice. Prendevamo i mattoni e alla buona tracciavamo sull’asfalto le linee del campo mettendo un filo, di quelli che si usano per stendere i panni, da una parte all’altra a mo’ di rete. Era una via chiusa al traffico perché in fondo passava la ferrovia. L’amore per il tennis è nato in modo romanzesco.
Chi era il mito, o i miti, della tua giovinezza?
I miei miti assoluti sono stati Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli e Nicola Pietrangeli. La finale di Coppa Davis in Cile è il mio primo ricordo tennistico. L’idea di essere finito a lavorare assieme ad Adriano dopo averlo venerato in giovinezza mi fa sempre emozionare. Lui e Nicola sono i miei due numi tutelari. Il capitano lo difendo sempre. Per me rimane il più saggio di tutti. Nonostante gli rompano le palle per le esternazioni su Sinner, io rimarrò sempre dalla sua parte. Degli stranieri, invece, sono stato affascinato da Borg, McEnroe e Connors. Impossibile non rimanerne stregati in quegli anni.
Cosa ne pensi del racconto realizzato nella docu-serie in sei episodi di Domenico Procacci?
Tutto il bene del mondo. Ho dato anche un piccolo contributo con alcune idee. È stato fatto un grande lavoro di valorizzazione di un capitolo importante della storia dello sport italiano ingiustamente trascurato per troppo tempo. I grandi tennisti che vantiamo oggi sono tutti nipotini dei membri di quella squadra.
C’è un giocatore che ti ha segnato, pur senza mai vincere uno Slam?
A me piacciono quelli che nel bene o nel male giocano un po’ all’antica. Dopo essermeli passati velocemente in rassegna come al jukebox, ti dico Tim Henman. Un vero perdente di successo. È sempre arrivato fino in fondo senza mai riuscire a vincere Wimbledon. Ha sbattuto contro l’ultimo Sampras e il primo Federer. E di mezzo c’è stato anche il muro Ivanišević. Un paperino. In molti lo considerano uno sfigato ma a tennis sapeva giocare eccome: è uno degli ultimi classici. E oggi, lavorandoci spesso in televisione, mi sta molto simpatico.
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