Bum-Bum è stato il prodigio del tennis mondiale, ora è sull'orlo della bancarotta.
Esistono i grandi giocatori ed esistono le icone: Boris Becker appartiene alla seconda categoria. Parliamo di un uomo che ha cominciato a riempire le prime pagine dei giornali ancora minorenne e che non ha mai smesso, neppure adesso, a più di vent’anni dal suo ritiro. Intrattenitore nato, una vita rigorosamente al centro dell’attenzione, e non sempre suo malgrado. È stato un grande campione, ovviamente, ma non più grande di altri suoi colleghi, sia pure ben meno acclamati. Aveva un gioco spettacolare, è vero, ma non è certo stato il solo. È stato il numero uno del mondo, ma di solito questo non basta per venire invitato alle università di Oxford e Cambridge a parlare della propria vita. O per sfidare in diretta sulla CNN Garri Kasparov, il campione del mondo di scacchi, resistendo fino alla 18ª mossa prima di subire lo scacco matto.
Dal canto suo, Becker potrebbe obiettare che non tutti hanno vinto Wimbledon a 17 anni e mezzo. Anzi, a dir la verità proprio nessuno. Quel giorno del 1985, la sua vita cambia per sempre: diventa il primo tedesco vincitore di un torneo del Grande Slam, oltre che il più giovane in assoluto. Un record che, almeno a Wimbledon – due anni dopo a Parigi Michael Chang sarà ancor più precoce, trionfando a 17 anni e 3 mesi – è tuttora imbattuto, e destinato a rimanere tale. Cosa altro puoi chiedere alla tua vita quando non hai ancora l’età per ottenere la patente ma hai già vinto il più importante tra i tornei di tennis? Sei costretto a scegliere tra dominare il mondo o tornare a scuola, continuare a inanellare Slam oppure impazzire.
L’apparizione di Boris Becker è datata 1985, ma la sua ascesa, benché rapidissima, è il frutto di un lungo lavoro.
A 16 anni, di fatto, è già un professionista. Lo allenano due romeni: Günther Bosch, che Becker chiama “Güntzi”, chiare origini tedesche ma nato e cresciuto in Transilvania; e soprattutto Ion Ţiriac, l’istrionico ex socio di Năstase, in quel momento uno dei migliori coach del pianeta, visti i successi a cui ha saputo portare Guillermo Vilas. In teoria, Boris sarebbe ancora uno studente. Frequenta un prestigioso liceo a Heidelberg, sud della Germania. Il suo talento nel tennis è già evidente a tutti, meno che al preside della scuola. Occorre una lunga conversazione tra il preside e i coniugi Becker, con la decisiva intercessione di nientemeno che il Ministro dell’Istruzione, per concedere al ragazzo un permesso speciale: due anni senza l’obbligo di andare a scuola, e vediamo se sei davvero così bravo come dicono.
L’anno è il 1984. Fino a questo momento, nella storia del tennis, siamo sempre stati abituati al dominio di uno solo o a una lotta tra due Grandi. Quello è l’anno di una dittatura particolarmente illuminata: John McEnroe vince 82 partite e ne perde solo 3, realizzando una stagione pressoché irripetibile. Ma raggiunto l’apice, il Re inizia a abdicare. Si apre un vuoto di potere, e a riempirlo ci pensano ben 4 giocatori. Ivan Lendl – carnefice di McEnroenella più dolorosa di quelle 3 sconfitte stagionali, la finale del Roland Garros – è ai vertici del tennis mondiale già da anni. Visti i dolori del giovane Mac, si è forse convinto di essersi sbarazzato anche dell’unico rivale all’altezza. La sola insidia sembrerebbe essere Mats Wilander, l’ultimo frutto della scuola svedese, già vincitore di tre Slam.
Ma all’orizzonte si affacciano due ragazzini terribili: un altro svedese, Stefan Edberg e, ovviamente, Boris Becker.
I due sono quasi coetanei e accomunati dalla determinazione con cui tentano di allungare la vita al glorioso serve and volley, stile di gioco messo sempre più in crisi dalle modifiche apportate a materiali e superfici. Nel 1985, come a certificare l’inizio di una nuova Era, i quattro fenomeni si spartiscono uno Slam a testa. A fine anno, Edberg trionfa agli Australian Open sull’erba di Kooyong. Wilander si prende Parigi in finale su Lendl mentre a New York è finalmente la volta di Lendl, che rovina l’ultima finale Slam di McEnroe e conquista il suo primo US Open. Rimane solo Wimbledon, teatro quell’anno del primo atto di un’appassionante love story: quella tra Boris Becker e il suo “giardino di casa”.
E chi l’aveva mai visto un tedesco forte nel tennis? Prima degli anni Ottanta, per trovare un talento venuto dalla Germania bisognava risalire al barone von Cramm, anni ’30, due Slam in bacheca oltre a tanta sfortuna: quella di aver scelto lo stesso sport di Fred Perry e Don Budge, dominatori assoluti dell’epoca, e quella di essere omosessuale nella Germania del Terzo Reich, un “crimine” che gli costò un anno di prigione e l’ostracismo di svariati organizzatori dei tornei. Cinquant’anni dopo, Becker riuscirà dove il barone si era più volte arreso in finale. La definizione di “giardino di casa”, più che per Wimbledon, Becker l’aveva pensata per il suo campo centrale. Una dichiarazione d’amore talmente sincera da essere trasformata anni dopo in realtà, se è vero che oggi Boris vive praticamente lì, a un centinaio di metri dall’All England Club.
Già alla sua prima apparizione, Becker aveva fatto una signora figura. Parte dalle qualificazioni e si spinge fino al terzo turno, risultato impensabile per uno della sua età. A privarlo di un posto negli ottavi di finale, ancor più del suo avversario Bill Scanlon, è un infortunio alla caviglia che sembra piuttosto serio e che lo costringe al ritiro. Si ferma per sei mesi, ma fa in tempo a tornare per gli Australian Open, che all’epoca si disputano a novembre. Non ha ancora compiuto 17 anni, ma riesce a spingersi fino ai quarti di finale, dopo aver battuto lo specialista Tim Mayotte e la promessa francese Forget. Chiude l’anno al numero 66 della classifica mondiale. Sembra un risultato straordinario, e in effetti lo è: ma tutto passa in secondo piano, di fronte al glorioso 1985.
Circa dieci anni dopo Borg, un altro ragazzino con in testa un casco di capelli biondi sconvolge il tennis mondiale. In quella stagione, la grandezza di Becker si rivela in ogni suo aspetto. Innanzitutto nel gioco a rete, semplicemente perfetto. Fattore che lo rende, oltre a un eccezionale doppista, un giocatore formidabile sull’erba e sulle moquette rapide. Ciò che destò più meraviglia, però, fu la potenza con cui colpiva. 190 centimetri per 85 chili: Becker tirava fortissimo. Eppure, alla velocità dei suoi colpi sapeva unire delle finezze che nemmeno Rod Laver. È stato forse l’ultimo custode dell’eleganza del tennis classico, ma anche il primo esponente del potente tennis moderno; sicuramente, l’unico a saper unire così bene le due epoche. Non fu però la tecnica a renderlo un vincente, quanto la sua personalità. Tronfio, orgoglioso, dirompente. Quando entrava in campo, si sentiva che era entrato in campo Boris Becker. L’atmosfera dello stadio cambiava, in qualsiasi parte del globo ci trovassimo.
La “violenza” del suo tennis gli valse un soprannome che non gradiva: un giornalista prese a chiamarlo Bum-Bum, come il pugile Ray Mancini, e quel nomignolo gli rimarrà addosso per la vita. Bum-Bumera il rumore che facevano le palline dopo essere state colpite dal servizio di Boris Becker, il suo colpo più devastante. Da quella racchetta partivano delle cannonate mai viste prima, frutto di un processo particolarmente lungo: un primo palleggio, sguardo all’avversario, piccolo accenno del movimento, un secondo palleggio, nuovo sguardo all’avversario e infine l’impatto. Un iter parecchio laborioso, che un giorno fece perdere le staffe a John McEnroe. In un match giocato a Bercy, dopo una palla contestata, Mac manifesta il suo disappunto all’arbitro con apprezzabile sarcasmo:
«Che splendida chiamata! Complimenti!»
Poi si prepara a ricevere il servizio di Becker, ma lo fa rimanendo dritto immobile, la racchetta lungo il fianco sinistro. Boris lo vede e sceglie di copiare la sua posizione. I due si scrutano per qualche secondo come in un western di Sergio Leone, fino a che non interviene il giudice di sedia rifilando un warning al signor… John McEnroe! Il quale, se è capace di esplodere di rabbia quando ha torto, figuriamoci nelle situazioni in cui può vantare qualche ragione. «Io ero pronto, semmai lui non era pronto a servire!». Dopodiché impone l’intervento del supervisor e parte per la tangente. Ma Becker non è meno attore di lui. Mentre l’altro schiuma di rabbia, Boris palleggia con un raccattapalle, si siede vicino al pubblico, invita McEnroe a calmarsi e risolvere la questione in altro modo, sapendo benissimo di provocarlo. Il teatrino va avanti per una decina di minuti, una cosa oggi impensabile. Non solo per le modifiche al regolamento, ma anche perché personaggi così non ne nascono più, eppure mancano tantissimo.
L’altro lato della medaglia di quel tennis d’assalto saranno le difficoltà incontrate da Becker sulla terra battuta. In tutta la carriera, zero tornei vinti sul rosso. Eppure il primo grande risultato di quel magico 1985 lo ottiene a Roma, sui campi del Foro Italico. Arriva sino in semifinale ed è – fino a quel momento – il miglior risultato della sua giovane carriera. Due settimane dopo va fuori al secondo turno dal Roland Garros, ma poi inizia finalmente la stagione sull’erba. Il tradizionale prologo di Wimbledon è il torneo del Queen’s, dove Becker scalda i motori infilando un successo dietro l’altro. Nei quarti regola un assoluto specialista come Pat Cash con un doppio 6-4 e due giorni dopo, contro il sudafricano Kriek, entra in modalità wunder kid: 6-2 6-3 e primo titolo ATP in bacheca.
Non c’è tempo per festeggiare, perché una settimana dopo scocca l’ora di Wimbledon. Becker inizia come aveva finito al Queen’s, cioè passeggiando sui primi due avversari. Ma al terzo turno l’asticella si alza: davanti c’è lo svedese Joakim Nyström, numero 7 del tabellone. Ne viene fuori un match bellissimo: Nyström serve due volte per il match nel quinto set, ma Becker si salva e la spunta per 9-7. Nel turno dopo, un’altra battaglia contro Tim Mayotte. Sotto due set a uno, Becker ha già preso due storte alla caviglia e valuta seriamente il ritiro. Ci pensano Bosch e Ţiriac a urlargli dalla tribuna di prendersi una pausa e chiamare il medico. Becker obbedisce, vince il quarto set al tie-break e poi il quinto 6-2. Si va ai quarti.
Nel portare a casa quello storico Wimbledon, una mano a Becker gliela dà anche il sorteggio. Il giovane tedesco – mina vagante del tabellone, non essendo testa di serie – finisce nel lato di Ivan Lendl, testa di serie numero 2 ma tutt’altro che il secondo miglior erbivoro al mondo. Tanto è vero che il ceco esce agli ottavi contro Leconte. Sono ancora anni in cui il vincitore del Roland Garros può andar fuori al primo turno a Wimbledon, perché giocare sulla terra o sull’erba sono davvero due sport diversi. È quel che succede, perché al lunedì Wilander – silurato dal serbo Živojinović – fa già le valigie per la Svezia.
I pezzi grossi sono tutti nella parte alta del tabellone. Il più atteso è John McEnroe, che a Church Road non perde un set da un anno e mezzo e ha stravinto le ultime due edizioni. Ma ci sono anche Jimmy Connors, Pat Cash e – se vogliamo – pure Stefan Edberg, che è però ancora troppo grezzo, e infatti esce agli ottavi contro Kevin Curren. Questo Curren, americano d’adozione dopo un’infanzia passata a Johannesburg, è un signor giocatore. E soprattutto sta vivendo le famigerate due settimane di grazia, al punto che nei quarti rifila un 6-2 6-2 6-4 a un inebetito John McEnroe. Il favorito del torneo diventa allora Connors, ma Curren passa su di lui con ancor più virulenza: 6-2 6-2 6-1 è il risultato finale. Nel frattempo, Becker ha battuto Leconte e il temibile Järryd, un altro svedese. La finale è quindi Curren-Becker, impronosticabile alla vigilia e altrettanto imprevedibile nell’esito.
Curren è uno abituato a venire a rete su ogni pallina che Dio manda in Terra e ha un servizio che fa spavento, se è vero che fino alla finale, in sei partite, ha subito un solo break. È Becker però a strappargli il servizio in avvio di match, ciò che gli consente di portare a casa il primo set per 6-3. Nel secondo parziale, Curren migliora le percentuali al servizio e, aiutato da un serve and volley incessante, vince il set al tie-break. Il sudafricano è avanti di un break anche nel terzo, ma lì arriva la reazione del campione, che pure è ancora minorenne.
Becker strappa a sua volta il servizio a Curren, vince il tie-break del terzo set e nel quarto va a servire per il titolo sul 5-4. In quell’ultimo game praticamente non si gioca. Becker esordisce con un doppio fallo, poi piazza tre ace e quindi commette di nuovo un doppio fallo. Sul secondo match point, Becker serve da sinistra e Curren a malapena stecca la risposta. Game, set, match and Championship per Boris Becker, che – semplicemente – alza le braccia al cielo e concede un largo sorriso ai suoi due coach. Pochi minuti dopo, con in mano il trofeo di cui l’ha omaggiato la Famiglia Reale, riceverà nel suo spogliatoio le congratulazioni di Helmut Kohl, Cancelliere della Germania Ovest. Boris ha 17 anni e 227 giorni.
Becker diventa il primo tedesco a vincere un torneo dello Slam, e in Germania diventa una star. In tv e sui giornali non si parla che di lui. Negli anni a venire, i suoi risultati oscureranno quelli della Nazionale di calcio e un suo infortunio alla caviglia – nel 1990 – farà passare in secondo piano persino lo scoppio della Guerra del Golfo. A qualche settimana dal trionfo a Wimbledon, Becker deve tornare a scuola: i due anni di permesso speciale sono scaduti. Il preside della scuola, che – ormai si è capito – non è questo grande appassionato di sport, riceve Boris e i suoi genitori per un colloquio straordinario. Vuole sapere com’è andata con questa storia del tennis, se intende continuare o preferisce tornare a scuola. «Le cose stanno andando abbastanza bene», gli risponde Becker.
«Ho vinto un piccolo torneo nel Nord dell’Inghilterra e credo di cavarmela in questo sport. Mi dà un altro anno di prova?»
Per fortuna di entrambi, Becker vincerà Wimbledon anche l’anno successivo. Alla fine di quell’estate, non arriverà nessuna telefonata da parte del preside: la notizia, stavolta, doveva essere arrivata anche a lui.
Quello tra Becker e la sua Germania – specie con la politica e la magistratura tedesche – sarà sempre un rapporto di amore e odio. I ricordi più felici rimarranno i primi, quelli dell’infanzia passata a Leimen, cittadina di 25 mila abitanti non distante da Karlsruhe. Boris comincia a giocare già a 5 anni, perché il papà Heinz, architetto, gli ha costruito un campetto nel giardino di casa. Quando diventa più grande, inizia a allenarsi alla Baden Tennis Association. È già bravo, ma anche molto intemperante. Spesso i maestri lo obbligano a un’ora di allenamento supplementare con la migliore delle bambine, Steffi Graf, che è nata nella stessa regione di Becker, ma due anni dopo. Nasce su quei campi un’amicizia che regalerà grandi gioie a tutta la Germania. Il 9 luglio del 1989 i due vincono Wimbledon a poche ore di distanza l’uno dall’altro, quattro mesi prima della caduta del Muro. Becker e Graf saranno le prime vere icone – in Germania – di uno sport che non fosse il calcio. E, almeno in parte, due simboli del cambiamento che stava vivendo il paese.
Come accennato, nel 1986 Boris Becker si conferma a Wimbledon. In finale trova Lendl – contro cui l’anno prima ha perso in finale al Masters – e lo batte in tre set. A fine stagione, Lendl e Becker si ritrovano di nuovo contro in finale al Masters ed è Lendl a spuntarla per il secondo anno di fila. Chissà che non sia stata quella sconfitta ad accentuare i primi malumori di un Becker che inizia pian piano a scoprirsi fallibile, terrestre, umano. Nel gennaio successivo, agli Australian Open, perde completamente la testa. Durante il match di ottavi di finale, Boris si trova per due volte avanti di un set contro Wally Masur, ma grazie a due tie-break l’australiano riesce a rimanere in partita e a prolungare la contesa al quinto.
Non bastasse la rabbia per un match che si sta complicando, l’arbitro accusa Becker di ricevere consigli da Günter Bosch, violando il regolamento che impone ai tennisti di avere sé stessi come sola e unica arma per superare l’avversario. Becker, per tutta risposta, comincia a sputare acqua e a scaraventare pallineverso il giudice di sedia. Infine, dopo l’ennesima chiamata dubbia, scuote il seggiolone dell’arbitro e chiude il match dopo aver distrutto tre racchette. Nel frattempo, la partita è scivolata nelle mani di Masur, che vince 6-2 al quinto.
Archiviata la parentesi australiana, Becker torna a macinare risultati. Vittorie a Indian Wells e a Milano, semifinale al Roland Garros e quindi un nuovo successo al Queen’s, in finale su Connors. Si presenta a Wimbledon da strafavorito, condizione in cui non si era mai trovato prima. E va fuori, clamorosamente, al secondo turno. Il carnefice è un australiano, tale Peter Doohan, da quel giorno mai più balzato agli onori della cronaca nella sua pur onesta carriera. A quella sconfitta, Becker, nelle innumerevoli interviste cui ancora si concede, ha ripetutamente dato un’interpretazione che va oltre il tennis. «Mi ha reso un uomo migliore», ha dichiarato una volta.
«Sono stato sull’orlo del suicidio, quella partita mi ha salvato la vita», ha precisato più recentemente. Di sicuro, l’ha fatto tornare – piuttosto bruscamente – sulla Terra. Anche Boris Becker può perdere a Wimbledon; una notizia di cui nemmeno Becker stesso era a conoscenza.
Se il match perso contro Doohan aiuta Boris a ridare il giusto peso alle cose della vita, lo US Open vinto nel 1989 è la vera catarsi. «Lì ho avuto coscienza di essere nell’élite mondiale del tennis», rivelerà Becker anni dopo.
«Solo vincendo quel torneo ho potuto liberarmi dell’ansia che mi attanagliava».
Ma prima del trionfo di Flushing Meadows, coglie l’opportunità di togliersi un altro sassolino dalla scarpa. Dopo due finali perse consecutivamente, Becker ritrova Lendl nell’ultimo atto del Masters 1988. Si gioca al Madison Square Garden, la cornice più suggestiva che il “torneo dei Maestri” abbia mai avuto. La partita viene trasmessa su Italia 1 con il commento di Rino Tommasi e Gianni Clerici, ed è memorabile. Dopo due set vinti a testa, tutto si decide al quinto. L’equilibrio regna sovrano anche nell’ultimo parziale: si va al tie-break e Becker ha il primo match-point sul 6-5. Ha inizio uno scambio epico, lungo 37 colpi, in cui Lendl – col suo dritto anomalo – inchioda Becker sullo slice di rovescio. I due vanno avanti così fino a quando un lungo linea di Boris colpisce il nastro, la pallina rimane sospesa quel tanto che basta a mozzare il fiato dei 18 mila del Madison, e infine sceglie di cadere nel campo di Lendl. Becker è così esausto che nemmeno riesce a festeggiare: è il suo primo vero grande successo ottenuto lontano da Wimbledon.
Nove mesi più tardi, arriverà quel famoso US Open, vinto anche qui grazie a un nastro favorevole. Nel match di secondo turno, Boris è in sofferenza contro un certo Derrick Rostagno. L’italo-americano è avanti di un set e ha due match-point consecutivi nel quarto parziale. Sul secondo, Derrick attacca il dritto di Becker, il cui diagonale colpisce un altro net: la pallina si impenna e costringe Rostagno a una volée semi-impossibile, che va fuori di chilometri. Boris farà suo quel tie-break e anche il quinto set, quindi andrà fino in fondo. In finale, l’avversario è ovviamente Ivan Lendl, che cede in quattro set. Sarà la migliore stagione della sua carriera: oltre allo US Open, si porta a casa la Coppa Davis vinta in finale contro la Svezia e – qualche mese prima – il suo terzo Wimbledon.
Già, Wimbledon. Terminata l’era di McEnroe, i nuovi rivali si chiamano Pat Cash – che ha vinto l’anno in cui Becker va fuori con Doohan – Stefan Edberg e il solito Ivan Lendl. Ma se il ceco non sarà mai davvero in grado di convertire il suo gioco all’erba, chiudendo la carriera con zero successi a Church Road, ben più fastidiosa sarà la concorrenza di Stefan Edberg. Alfiere del serve and volley esattamente come Becker, lo svedese e il tedesco sono però completamente diversi in tutto il resto. Edberg è un esteta, Becker un martello. Edberg gioca di tocco, Becker è il primo dei bombardieri. I due saranno “avversari” anche molti anni dopo, da allenatori di due campionissimi come loro: se Stefan Edberg non poteva essere scelto che da Sua Maestà Roger Federer, Boris Becker sarà colui che plasmerà l’ossessione per la vittoria di un già vincente Novak Djokovic.
Tornando al tennis giocato, Edberg e Becker daranno vita, sui campi di Wimbledon, a unatrilogia epica: tre finali di Wimbledon consecutive, tra il 1988 e il 1990. La prima è appannaggio di Edberg, la seconda è un monologo di Becker, la più bella di tutte è l’ultima. In semifinale, Becker ha tenuto a bada un giovane Goran Ivanišević. Edberg, invece, ha dato 3 set a 0 a Lendl e il copione non sembra cambiare in finale: dopo poco più di un’ora di gioco, siamo 6-2 6-2 per lo svedese. Becker ruggisce e torna in carreggiata. Con un doppio 6-3 porta la partita al quinto, e adesso sembra il favorito. Una comoda volée alta stampata su un nastro – stavolta – meno benevolo sposta di nuovo l’inerzia del match. Alla fine la spunta Edberg 6-4 al quinto, in una delle più entusiasmanti finali della storia di Wimbledon.
La più bella vittoria della carriera di Edberg è anche una delle sconfitte più dolorose per Boris Becker. Non andrà meglio agli US Open, dove qualche mese dopo deve difendere il titolo. Lo elimina in semifinale un ventenne André Agassi, un altro dei grandi nemici della sua carriera. Boris vede malvolentieri questo ragazzotto con gli orecchini e le mèches, inizia forse a sentirsi scippato del ruolo di principale star del tennis mondiale. Agassi ha raccontato che, in un altro incontro tra i due agli US Open, Becker lanciava insistentemente occhiate al box dove sedeva Brook Shields, futura sposa di Agassi, al solo scopo di far innervosire l’americano.
Sempre provato gusto per la provocazione, il buon vecchio Boris, così come per le donne. Tra le tante, la sua storia più famosa sarà quella con Barbara Feltus, modella afro-americana su cui la stampa tedesca si divertirà ben oltre il lecito: per i giornali più moderati era “cioccolatino”, quelli più enfatici usavano ben altri appellativi, che oggi – fortunatamente – reputiamo irricevibili. È uno dei fattori – non l’unico – che contribuisce al progressivo allontanamento di Becker dalla Germania.
«Non sono fiero di essere tedesco, la mia patria è il mondo», tuona un giorno. Comincia pian piano a dar segni di nervi. Lui semplicemente dirà che si sente più un uomo che un tennista, chissà se per autodifesa o per una sana ricerca del senso delle proporzioni. Di sicuro, qualcosa cambia.
Vince un nuovo Slam in Australia (in finale su Lendl) e per la prima volta diventa numero 1 del Mondo. Da quella posizione si può solo cadere e la discesa di Becker è lenta ma graduale. Anche perché mentre Becker scivola, sale Stich, l’altro tedesco, per certi aspetti il «vero» tedesco: disciplinato, di poche parole, quasi freddo. È Stich a impedire il quarto atto tra Edberg e Becker a Wimbledon: vince una battaglia con lo svedese in semifinale e due giorni dopo porta a scuola Becker, a cui non lascia neanche un set. Insieme i due vinceranno un Oro in doppio, alle Olimpiadi di Barcellona, ma il rapporto non decollerà mai. Sarà Stich, appesa la racchetta al chiodo, a rivelare quel che tutti già sapevano:
«Per Boris gli altri giocatori tedeschi erano solo accessori. Venivano tutti dopo di lui, gente che non era al suo livello. La maggior parte dei giocatori tedeschi, me compreso, non ha mai avuto il rispetto che meritava»
Boris sceglie allora di fermarsi un attimo. C’è un matrimonio in arrivo e una magistratura che inizia a pressarlo, a causa di alcune dichiarazioni fiscali non esattamente cristalline. Ai giornalisti che gli chiedono spiegazioni dopo un match perso contro Ferreira a Monaco risponde come il Grande Saggio: «Ferreira, le volée, i servizi sbagliati: sono solo chiacchiere. Il miglior colpo della mia vita l’ho tirato quest’anno e vedrà la luce tra cinque settimane». Si riferisce al bambino che sta per dare alla luce Barbara, primo dei 4 eredi di Boris Becker – fatti con 3 donne diverse, però. In tutto il 1993 vince solo a Doha e a Milano. A Wimbledon perde in semifinale contro Sampras, poi si prende una pausa da lì a fine stagione. Chiude l’anno da numero 11 del Mondo, per la prima volta fuori dalla top-10 dal 1984.
Tornerà, ovviamente. E il finale di carriera sarà tutt’altro che deprecabile. L’anno dopo vince il torneo di Stoccolma. Non sarebbe questa gran notizia, se non fosse che lo fa battendo uno dietro l’altro i primi 3 giocatori del Mondo: Stich nei quarti, Sampras in semi e Goran Ivaniševic in finale. L’anno dopo, gioca una delle sue migliori stagioni. Spreca 3 match-point contro Muster in finale a Montecarlo, la volta che andò più vicino a vincere un torneo sulla terra rossa. Torna in finale per l’ultima volta a Wimbledon, ma quello non è più il suo giardino di casa: vince Sampras, che infligge a Becker la quarta sconfitta della carriera in una finale Slam – tutte a Wimbledon. Fa in tempo a vincere un sesto Major, in Australia contro Chang. Ma sarà proprio Sampras l’ultimo vero avversario della carriera; non un rivale, stavolta, più un possibile erede, che apprezza e ricambia la stima che Boris ha per lui.
Chiude l’anno (il 1996) con due splendide finali giocate contro Pete. A Stoccarda la spunta Becker, 6-4 al quinto. In conferenza stampa, Sampras definisce Becker il miglior giocatore sui campi indoor contro cui abbia mai giocato. Poi prosegue:
«È per la Germania quello che Michael Jordan è per gli Stati Uniti. C’è un solo Re in Germania, e si chiama Boris»
I due si ritrovano contro poche settimane dopo, nella finale del Masters. Becker è di nuovo padrone di casa, perché si gioca a Hannover, e insieme a Sampras dà vita a un match che passerà alla storia. 6-3 Becker il primo set, prima di una serie di 3 tie-break consecutivi. Se consideriamo che nel round robin Becker ha piegato Sampras 7-6 7-6, fanno 5 tiebreak nell’arco di una settimana. Sampras vince i primi due, ma Becker fa suo il quarto per 13-11, dopo aver annullato 2 match point, Alla fine vincerà Pete 6-4 al quinto, ma nella standing ovation finale gli applausi più sentiti sono quelli per Becker.
Sarà l’ultimo anno ad alti livelli di Boris. Partecipa a sempre meno tornei e crolla in classifica. L’ultimo match lo gioca a Wimbledon, quasi a omaggiare il posto che 15 anni prima l’aveva reso grande. Perde contro Rafter e dice basta. Il tennis ha iniziato pian piano a occupare un posto sempre più periferico nella sua vita. Lui no, resterà sempre e comunque al centro dell’attenzione. L’unico posto in cui Boris Becker si sente davvero a suo agio.
Aridatece Gianni Clerici e Rino Tommasi, i due commentatori più amati del tennis italiano, e soprattutto le loro sublimi divagazioni. «... Comunque, 15-0».
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