“Il fumo è l’incenso che brucia sugli altari dell’industria”. Rosen è sicuro: più in alto si allunga la ciminiera, più prestigio restituisce. Contrappasso perfetto per le anime lavoratrici: sostanzialmente più basse di ogni altra cosa, corporee prima che simboliche.
Terni è intrisa di storia. Un tempio a cielo aperto, background perfetto di un qualsiasi fantasy steampunk: ceneri di un teatro industriale tra i più importanti del Novecento che ha lasciato il posto a una voragine riempita dallo spirito reazionario del suo popolo. Il calcio, che è un prodotto sociale, non fa eccezione: si fa presto a riempirsi la bocca di fùtbol e rigurgiti retorici. La Ternana è anzitutto concretezza prestata al pallone: poi un insieme di molte altre cose.
CUORE D’ACCIAIO
Di fronte alla «porta maestra detta Attimo» se ne stanno, più o meno comodi dopo la salita, Zarathustra e il nano, a disquisire sull’eterno ritorno: davanti a loro due vie. Il passato e il futuro si guardano vicendevolmente, poi si danno le spalle: siamo davvero portati a vivere di nuovo tutto questo? Esiste un punto nella storia in cui tutto si ferma, contemplandosi? Terni è rimasta dinanzi alla porta, in maniera immutabile, dopo i bombardamenti della Seconda Guerra. Forse è proprio questo che ha temprato il carattere dei ternani: l’essere sempre gli stessi, al limite tra l’ultimo uomo e il super uomo.
In verità, la storia del popolo ternano, come detto, è più concreta. Città devota all’acciaio e ai rumori delle fabbriche, volti a scandire le ore e le abitudini: cittadinanza temprata dalla stessa lega. Per molti, amanti dei titoli ad effetto, la “Manchester d’Italia”.
Ma Terni è unica nel suo genere. Dalla ricostruzione post-bellica in poi è stato tutto un rafforzare le giunture del cuore d’acciaio dei suoi figli, calcio compreso: turno in fabbrica, poi si va al campo a guardare la Ternana. O, almeno, prima che ci si spostasse al Liberati e che trasformassero il vecchio stadio, il Viale Brin, che (per rafforzare la struttura identitaria della cosa) si trovava nel complesso delle Acciaierie Terni, in un anonimo parcheggio per gli operai. Il sol fatto di sentirsi un tutt’uno con la squadra accelerò – forse in virtù delle sontuose curve paraboliche sopraelevate del velodromo (della “Pista”, come la chiamavano) – la costruzione di un legame: sul tetto della mensa si stava comodi, in fondo. Visti i tempi, poi: il calcio era un’altra cosa.
Ortega y Gasset scriveva che «i privilegi della nobiltà non sono originariamente concessioni o favori, ma conquiste». E ancora «nobiltà, per me, è sinonimo di vita coraggiosa, tesa sempre a superare se stessa, a trascendersi, a raggiungere quel che si propone come dovere ed esigenza». Ecco, nell’operaio che rivendica il suo posto nel mondo ben oltre il diritto passivo e che terminato il turno correva a guardare la propria squadra giocare sulla terra battuta del Viale Brin, o che oggi si affretta a prendere posto al Liberati, c’è tutto questo: massa e nobiltà, in un corpo. Dignità, soprattutto: appena usciti dalla stazione ferroviaria la prima immagine di Terni, travolgente, è una pressa da dodicimila tonnellate, reale quanto simbolica. Ovviamente, non a caso.
ALLA SINISTRA DEL PADRE
Al Liberati c’è un pezzo di storia tangibile come pochi, ma per contestualizzarlo occorrerà fare un passo indietro di quasi cinquant’anni. «Le mie parole non contengono amarezza, ma delusione e saranno queste parole il castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento che hanno fatto»: tremano, voce e microfono, in collegamento da La Moneda mentre gli aerei bombardano il Palàcio, l’11 settembre 1973. Salvador Allende sa di avere le ore contate: è consapevole che il suo sogno democratico sta per svanire sotto i colpi del golpe guidato da Augusto Pinochet.
«Sicuramente Radio Magallanes è stata ridotta al silenzio e la mia voce non vi giunge più. Non importa, continuerete ad ascoltarmi perché io starò sempre con voi, per lo meno il ricordo di me sarà quello di un uomo degno che è stato leale con la Patria. Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi annientare, ma non si deve nemmeno umiliare. Lavoratori della mia Patria: ho fede nel Cile e nel suo destino»: e le bombe cadevano. Devastavano.
«Viva il Cile! Viva il popolo, viva i lavoratori!»: inutile dire che la dittatura spazzò via tutto, identità di popolo compresa.
A sostenere Allende, qualche anno prima, anche un gruppo di ragazzi che, con Pinochet al potere, furono costretti ovviamente a lasciare il Paese: di loro, della Brigada Pablo Neruda, raccontano persino i muri. Anzi: soprattutto i muri. Il Cile, la dittatura, il sogno della democrazia, della libertà: a San Giuliano Milanese, a Foggia. A Terni: al Liberati. «Cile hoy carcel del pueblo. Mañana tumba del facismo» (Cile oggi carcere del popolo. Domani tomba del fascismo).
Un colpo al cuore, ogni volta: chi si presenta allo stadio della Ternana sa già che avrà a che fare con la storia, oltre che con un popolo fortemente identitario. Iconico, uno tra i murales: pugno duro contro una svastica. Eterno. Nel 2019, durante il restauro organizzato dalla società rossoverde alcuni collaboratori hanno ripristinato colori e simboli originali, “dimenticando” una parte essenziale di un’immagine chiave, quella citata prima: «Cile oggi carcere del popolo. Domani tomba». Mancava la più importante, «del fascismo»: ma forse era terminata la vernice.
Tra i murales, simbolo della lotta del pueblo e dei lavoratori cileni, e l’antistadio ci sono solo pochi metri: sul campo d’allenamento nel luglio del 2017 svolazza l’intaso, spostato dalle eliche in moto dell’elicottero presidenziale. Un’entrata alla Silvio Berlusconi, giacca e sorrisi, gag inclusa (la stretta di mano a Stefano Ranucci, in stampelle, con tanto di lancio della stessa): Stefano Bandecchi è anche questo. Quando rileva la Ternana il club è in Serie B e reduce da tredici anni di gestione della famiglia Longarini: Bandecchi non è solo il proprietario dell’Università degli Studi “Niccolò Cusano”, né soltanto un imprenditore di successo nel campo dell’editoria, ma il presupposto per proclami trionfalistici, tutti volti a un futuro migliore. Magari in Serie A.
È anche un ex MSI, candidato alle regionali nel Lazio con Forza Italia nel 2005, a sostegno di Francesco Storace: qualche anno prima, nel 2014, provò ad acquistare il Livorno da Spinelli, ma la tifoseria non reagì benissimo: «Bandecchi attento… a Livorno fischia ancora il vento!!!». L’affare non si fece.
Pensate di atterrare (materialmente e non metaforicamente) su una piazza dalla forte identità di sinistra, tradizionalmente legata alla working class e al sangue e al sudore dei lavoratori industriali, e per prima cosa di cambiare il nome della squadra della città, anteponendo quello della propria Università: nella trasformazione da “Ternana” a “Unicusano Ternana” c’è quel misto di umiliazione e sofferenza culminato nella retrocessione in Serie C al primo anno di proprietà. «Vogliamo sempre andare in Serie A senza rischiare di andare in C», diceva.
Altro che Serie A. Ma la storia è fatta per essere cambiata: oggi Stefano Bandecchi è uno degli uomini più apprezzati di Terni e non solo perché ha riportato le Fere in cadetteria, ma anche e soprattutto perché ha capito che ai ternani le entrate ad effetto, in elicottero o meno, importano poco. È la sostanza, il modus, l’umanità che conta. A Bandecchi va riconosciuto il grande merito di essersi fermato un attimo di fronte allo specchio e, con lucidità, di aver ripensato al da farsi, senza puntare i piedi.
Durante i primi mesi di Covid il club rossoverde si è attivato per offrire assistenza al popolo, mentre note sono le proteste al fianco dei lavoratori di Treofan (azienda del polo chimico legata alla produzione di film in polipropilene, destinata alla chiusura per volere strategico di Jindal Films, multinazionale indiana che prima ha acquisito Treofan Terni, poi l’ha fatta chiudere, eliminando di fatto una concorrente), con il giro di campo dei dipendenti nel pre-gara di Ternana-Casertana. Ad inizio stagione, poi, l’idea che cambia le regole del gioco: acquista i diritti di trasmissione in chiaro di ogni singola partita della squadra (con un esborso di 230mila euro circa) per far sì che tutti i tifosi, in un momento così, guardando Unicusano TV rimediassero in modo totalmente gratuito alle oggettive difficoltà di diffusione di Eleven Sports.
Un altro merito indiscutibile è senz’altro quello di aver scelto l’uomo giusto per realizzare la visione calcistica che in tanti anni, e con tanti milioni spesi, non era mai riuscito a concretizzare. Sarà perché tra livornesi ci si intende, sarà perché “non è solo un comunista”, ma Cristiano Lucarelli è quanto serviva al patron della Ternana per comprendere che sì, chiaro, i suoi soldi non ce li ha quasi nessuno, ma che nel calcio serve tanto altro, in particolare in piazze in cui il legame tra tifo, squadra e popolo non è indissolubile, di più. E ce l’ha fatta: ce l’hanno fatta. Entrambi, tutti: se le Fere sono tornate in Serie B, dominando in C, è perché in fin dei conti è proprio vero, il compromesso storico funziona.
Durante la festa promozione dello scorso 3 aprile, dopo aver battuto anche l’Avellino per 4-1, Bandecchi gli si avvicina interrompendo l’intervista a Unicusano TV e gli rifila una scoppola, sorridendo sotto la mascherina.
«Abbiamo delle ideologie opposte. Ringrazio che per la prima volta ho trovato una persona che non si è lasciata condizionare da questo aspetto».
Per un uomo costantemente cresciuto, calcisticamente, con l’etichetta attaccata al collo, trovare un proprietario come Bandecchi è stato provvidenziale. Sono entrati entrambi nel “carro armato” (come definito), elmetto in testa, e hanno asfaltato tutti, creando un gruppo capace di riscrivere la storia della Serie C. È passato dai “kamikaze” in un Catania quasi fallito a una formazione che non solo sa quello che vuole, ma anche in che modo lo vuole: siede “alla sinistra del padre”. Ex parà e missino, sì, ma da un po’ di tempo eroe ternano (con buona pace di buona parte, non tutta, almeno quella scesa a patti con il calcio capitalistico, della working class).
In realtà, non ci sono parole ben precise per definire la Ternana di quest’anno: dal punto di vista calcistico, forse, “ingiocabile” per qualsiasi altra squadra. Dal punto di vista spirituale, “d’acciaio inossidabile”, come i ternani. Le tre sconfitte totali (una contro il Catanzaro alla ventisettesima, una all’ultima giornata contro la Juve Stabia, un’altra in Coppa Italia contro l’AbinoLeffe) su trentanove partite totali (le Fere sono state a lungo l’unica squadra imbattuta nei principali campionati professionistici europei) rendono chiaro il concetto.
Qualora non dovesse bastare, ci sono altri dati a supporto della tesi che vede nella Ternana, in questa Ternana, la migliore squadra mai passata dai campi di Serie C (miglior attacco con novantacinque gol fatti in regular season, due gol e mezzo a partita, e cento siglati in tutte le competizioni; seconda miglior difesa del girone, con trentadue gol subiti, alle spalle dei ventinove del Catanzaro).
Lucarelli e i suoi hanno stracciato quasi tutti i record della Serie C.
Hanno eguagliato quello di vittorie complessive in un campionato, ventotto, che apparteneva all’Avellino 1972/73; hanno raggiunto quota novanta punti in classifica, soglia mai raggiunta da alcun club (il Foggia nella stagione 2016/17 ne aveva conquistato ottantacinque, in un campionato da venti squadre e non da diciannove come il passato Girone C); hanno battuto anche il record del Venezia di Pippo Inzaghi, che aveva messo a segno tredici vittorie e quarantadue punti in trasferta. La Ternana ne ha vinte quattordici, con quarantacinque punti. Ha fatto registrare il maggior distacco sulla seconda (ventidue punti sul Catanzaro): “Carro armato”, in effetti, è la definizione giusta.
Nel gioco delle Fere c’è di tutto: destra-sinistra con incredibile velocità; capacità unica di adattarsi all’avversario in zona offensiva (si passa da Vantaggiato a Raicevic, attaccanti troppo diversi tra loro, con una facilità disarmante, con gli stessi risultati). Il 4-2-3-1 di Lucarelli è una versione più matura di quello visto a tratti nelle sue precedenti esperienze, con una rosa sicuramente più forte e più ricca, nonostante i limiti imposti dalla lista. Ha trovato in Partipilo, Falletti e Furlan armi tecniche fondamentali sulla trequarti, palesate nel bel gioco. Sì: “bello”, e consistente. Le altre? Hanno fatto un campionato a parte: la Ternana ha giocato per sé stessa e per l’onore della sua gente.
L’ultimo atto di questa stagione è l’eterno ritorno, ma del diverso. La festa promozione è il contrappasso perfetto all’arrivo di Bandecchi in elicottero: i giocatori fanno il giro del Liberati sul retro di un’apecar. C’è il senso della pressa da dodici tonnellate, le aspettative della piazza crollata poco dopo l’arrivo di Bandecchi e riportata in alto dallo stesso presidente, sintesi di un modus anarchicamente regolato alla perfezione: «Una partita del genere non c’ha nemmeno bisogno di presentazioni. Questo è quello che è Terni (indicando i tifosi alle sue spalle). Questo è quello che avete fatto rivive’ a Terni. L’entusiasmo che avete portato in tutto l’anno. E ve ne siamo grati. Siamo stati felicissimi. L’unica cosa, nota stonata, è non averlo potuto vive’ lì dentro.
Da oggi in poi, fino a sabato alle cinque, la testa deve sta’ solo lì. Tutta Terni crede in questo. Manca un piccolo tassello. Abbiamo fatto tanto, avete fatto tanto. Il piccolo tassello in più, pe’ fa’ rinasce’ ‘sta città. Manca solo quello».
Giovedì 20 maggio la tifoseria, già in festa qualche settimana prima per le vie della città, si riunisce fuori dai cancelli del Liberati, parlando alla squadra di Lucarelli. Non è ancora finita. La Ternana ha battuto cinque giorni prima il Como, vincitore del Girone A, all’esordio in Supercoppa di Serie C: la prossima è contro la promossa nel Girone B, che neanche a dirlo, come nelle migliori storie, è il Perugia di Fabio Caserta. Al momento della retrocessione del Grifo in C, nella scorsa estate, per qualche strano motivo le due squadre furono divise in Gironi differenti, nonostante gli ottantuno chilometri di distanza. Questa volta, però, non si scappa.
«La gioia è contenuta perché oggi durante il cerchio mi sono commosso, ho detto ai ragazzi che la cosa che più mi dispiace è che oggi è stata l’ultima partita di questo gruppo, che è un gruppo di uomini straordinari che non si sono mai accontentati, hanno cercato di vincere ogni partita»: felice, Lucarelli, con la medaglia al collo, dopo aver alzato il trofeo e dopo aver battuto il Perugia grazie alla rete di Aniello Salzano. Le Fere ce l’hanno fatta. Bandecchi, i tifosi: tutti.
«Non è l’ultima partita certamente per Cristiano Lucarelli alla guida della Ternana», chiosa un giornalista. «Penso di no, penso di no», risponde l’allenatore livornese.
Perché nessuno sa se dietro la porta detta “Attimo” ci sarà lo stesso percorso, per il passato e per il futuro. Zarathustra, parlando al nano, se lo starà chiedendo con la necessaria curiosità, concordando su un punto chiave del discorso. Questa squadra, questa Ternana, rimane sospesa nel tempo: eterna, calcisticamente, come la sua città. Come il suo popolo.
Il libro del filosofo francese Jean-Claude Michéa ripercorre le fasi del calcio: da sport delle élite a sport popolare, per diventare infine uno strumento nelle mani del capitalismo finanziario e globale.
Dopo lo scaricabarile seguito all'eliminazione mondiale, eccoci da punto e a capo: intrecci malsani tra sport e politica, giornalisti compiacenti e leggi ad personam.