La fuga, da intendersi come spazio multiforme e non come semplice atto, è una delle unità di misura che potremmo osservare per analizzare in che modo il ciclismo si è evoluto nell’ultimo secolo. Ai tempi di Bottecchia non esisteva nemmeno: era la durezza della corsa e del percorso a frantumare e disperdere il gruppo, piuttosto che di coraggio per provarci era necessario avere forza per resistere. Poi, mano a mano che i valori in campo si livellavano, la fuga ha trovato sempre più spazio e consensi: per guadagnare qualcosa ai traguardi volanti o montani, per impossessarsi di una delle maglie in palio, per salutare i parenti o, molto semplicemente, perché si era gregari. Accanto a questi anarchici, anche i capitani cercavano spesso il numero da lontano: Coppi e Bartali per sfida e vendetta, Merckx per manifesta superiorità, Pantani per una spiccata predisposizione all’impresa. Nel ciclismo attuale, ingessato perché le differenze sono ormai minime, la fuga è entrata in una nuova fase della sua esistenza. E’ un universo a parte, spesso scollegato dalla corsa per la vittoria finale. E’ un’occasione irripetibile, il momento di instabilità che a volte caratterizza i governi e che fa da preludio al golpe. Durand e Voeckler sono stati tra i primi dell’era moderna a capirlo, specialmente il secondo ci ha costruito sopra una carriera degna di nota. Thomas De Gendt si è guardato intorno, ha studiato passato e presente e ha raccolto il testimone ideale dei grandi attaccanti che lo hanno preceduto. Fortuna, capacità, furbizia e tempismo: è l’artigiano italiano che mette su bottega negli anni del boom economico.
Ha sempre corso all’attacco, De Gendt, dai tempi in cui ancora bambino venne a sapere che il regolamento belga vietava le corse ai minori di dodici anni. Sint-Niklaas, casa sua, è Fiandre orientali e quindi Belgio, ma fortunatamente per lui il confine con l’Olanda è vicino. Dall’altra parte si può correre già a dieci anni e il belga ne approfitta. Sta facendo le prove generali per il suo futuro: non fugge, per ora si avvantaggia soltanto. E’ il volto moderno e attuale dell’arte ciclistica più antica. Il suo progetto per fare classifica nelle corse a tappe naufragò fragorosamente nell’inverno del 2012, quando andò in luna di miele: tornò con dieci chili in più, mai smaltiti del tutto. Non è mai più riuscito a scendere sotto i sessantanove. Al Giro d’Italia di quell’anno arrivò a pesarne sessantacinque, ecco spiegato uno dei motivi dell’incredibile cavalcata tra Mortirolo e Stelvio che lo vide protagonista. De Gendt va in fuga perché non ama stare in gruppo, lottare per mantenere la posizione, senza considerare le tattiche di squadra, che in un’intervista rilasciata a Road Cycling UK definì “talvolta stupide”. Il belga, però, si getta spesso in avanti perché sa che è l’unica strada da percorrere per arrivare alla vittoria: non può permettersi di rimanere in gruppo. È il compromesso tra un contrappasso dantesco e un’autoimposizione. De Gendt unisce l’utile (la fuga) al dilettevole (il piacere di propiziarla), è l’uomo di Darwin e Megginson: “non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”.
I suoi consigli per centrare e sfruttare la fuga sono semplice ed essenziali: cerchia in rosso le tappe mosse e nervose, ascolta i segnali che ti manda il tuo corpo, armati di coraggio e pazienza perché non sempre il primo attacco è quello giusto. Collabora con i tuoi colleghi ma allo stesso tempo studiali, e se alla partenza vedi corridori come Chavanel e Cummings che si posizionano in prima fila, preparati: la tempesta è spesso preannunciata da segnali inequivocabili. De Gendt, da giovanissimo, ammirava Jens Voigt: era il suo idolo e lo venerava, finché nel finale della prima tappa della Parigi-Nizza 2011 non si sono ritrovati insieme all’attacco. Ha dovuto batterlo, centrando così il primo successo di prestigio in carriera. Quando non è in fuga, il belga lo si può trovare facilmente in testa al gruppo nel tentativo di soffocarla: l’obiettivo è allora la vittoria di tappa con Greipel. Il velocista tedesco lo stima tantissimo. Lo reputa instancabile, così come Van Avermaet che individua in De Gendt un corridore più unico che raro: “La maggior parte dei corridori si preoccupa di rimanere in gruppo, al coperto, salvando gamba ed energia; lui invece non fa altro che spendere, spendere e spendere”, ebbe modo di dire il campione olimpico a Cycling Weekly. Nessuno, però, è stato più bravo di Roman Feillu, compagno di De Gendt alla Vacansoleil, nel centrare il punto focale della questione:
“Thomas sa come farsi del male”.
Una selezione delle migliori vittorie di Thomas De Gendt.
L’esperienza e i successi hanno portato il belga ad affinare la tecnica. E’ un nome rispettato e pericoloso, sono lontani i tempi in cui il gruppo lo lasciava andar via facilmente. De Gendt si affida alla matematica. Un minuto di vantaggio ogni decina di chilometri che lo distanzia dall’arrivo: se ne mancano venti e ha due minuti sul plotone, se ne mancano trenta e ha tre minuti sul plotone, e così via, allora la fuga ha buone chance di giocarsi il successo di tappa. Questa indole temeraria lo porta spesso a lottare per la maglia dei gran premi della montagna, ché sicuramente non è lo scalatore più forte del gruppo ma le salite sanno ancora riconoscere e premiare chi ha coraggio e fantasia. E’ un corridore di gran classe: ha motore e ritmo, un metronomo che non si inceppa mai, nemmeno controvento. Va forte in pianura e in salita, è la pedina che ogni squadra vorrebbe per risolvere le partite più complicate. E dire che nell’autunno 2013, il suo abbandono sembrava ormai cosa fatta. La Vacansoleil aveva appena chiuso e nessuno si dimostrava interessato nei confronti del belga. Poi arrivò la Quick-Step, che lo tesserò in extremis con lo stipendio notevolmente ridimensionato e per una sola stagione. Fu la più anonima e difficile della sua carriera. Per rilanciarlo ci voleva un’altra squadra composta da ingegnosi mestieranti per niente spaventati dalla fatica e con la lotteria nazionale belga come sponsor principale. De Gendt, per la Lotto, fu una scommessa.
La carriera del belga è una serie di piccoli trionfi, uno spartito brillante che prevede esecuzioni diverse: assoli, estenuanti sprint in salita e furibonde volate pianeggianti. Due tappe alla Parigi-Nizza e alla Catalunya, una al Delfinato e al Giro di Svizzera, la firma nel club dei corridori che hanno vinto almeno una frazione in ognuno dei tre grandi giri. Quella dello Stelvio è una delle giornate più spettacolari nella storia recente del Giro d’Italia, il ricordo a cui De Gendt stesso confessa di essere più legato. Al Tour de France, invece, il bottino avrebbe potuto essere più cospicuo. L’Équipe ha calcolato che, soltanto nell’ultima edizione, il belga è stato in fuga per oltre milleduecento chilometri, praticamente un terzo di Boucle, incassando complessivamente circa diecimila euro tra gran premi della montagna e traguardi volanti. Una fatica ben remunerata, perlomeno. La maglia a pois l’ha prima tentato e poi respinto, Barguil alla fine si è rivelato superiore. Poco male, deve aver pensato De Gendt andando di persona a congratularsi col francese prima che l’Izoard lo dilaniasse: almeno il premio finale come corridore più combattivo della corsa me lo daranno. Macché: cinque dei sei membri della giuria francesi, anche questo riconoscimento va a Barguil. “Ha fatto un gran Tour, non ce l’ho con lui. Io sono in pace con me stesso: avrei voluto vincere una tappa, ma il fatto che il pubblico abbia scelto me come il più combattivo mi rincuora”, scrisse il belga su Twitter. L’ultima vittoria alla Grande Boucle risale all’edizione 2016, quando spezzò la resistenza di Pauwels e Navarro sul Ventoux dimezzato. Il vento, quel giorno, spazzò via i desideri del Tour e di Froome, che si ritrovò a fuggire di corsa dai suoi aguzzini. “Non dite però che ho vinto sul Mont Ventoux perché non è vero, sono io il primo a riconoscerlo. Ho trionfato allo Chalet Reynard, non è proprio la stessa cosa”, ha puntualizzato De Gendt a Velon. Sicuramente, il cuoco della squadra quella sera gli avrà preparato del costolato, il belga ne è ghiotto fin da bambino. Senza dimenticare gli M&M’s: al Tour de France non possono mancare, un po’ come il coraggio.
O come le fughe, nelle quali finisce puntualmente anche quando non vorrebbe. È successo nella sesta tappa dell’ultima Parigi-Nizza, quando dopo una quindicina di chilometri il grosso del gruppo ha mancato una svolta a sinistra. Il belga, insieme tra gli altri a Kristoff, Démare e Teuns, si è trovato davanti perché era rimasto indietro. La zingarata non ha avuto un degno seguito, De Gendt però a fine giornata si è accorto di essere secondo nella classifica degli scalatori. Lottare anche per quella non era nei suoi piani, ma alla fine si è arreso alla sua indole e ha conquistato la maglia a pois. E continuerà ancora, nonostante la fatica e le poche soddisfazioni, nonostante il numero delle vittorie sia nettamente inferiore alle volte in cui deve lottare contro il tempo massimo perché la fuga è andata male e il gruppo andava di fretta. De Gendt ci ricorda che il ciclismo è calcolo e fantasia, che può concedere senza regalare nulla a nessuno, ci ricorda il corridore che avremmo sempre voluto essere se avessimo avuto più gambe e coraggio. Lo troveremo ancora lì, davanti al gruppo o in fondo ad esso, a pilotare la fuga o ad aspettare, in coda, il momento giusto per la stoccata decisiva; quando sarà già morto di sofferenza o quando la giornata sarà andata bene, e allora non ci sarà più tempo per morire.