Era il 9 luglio 2014 quando Vincenzo Nibali dipinse uno dei capolavori più belli nella storia recente del Tour de France.
Chi ha seguito il Tour de France 2013, non può che aspettare con trepidazione la Grande Boucle 2014. Chris Froome e Alberto Contador tornano a sfidarsi sulle strade di Francia. Il britannico è il volto nuovo: dopo l’esplosione nel biennio 2011-2012, è arrivata la consacrazione con la vittoria del primo (di una lunga serie) Tour de France. Allo spagnolo, invece, nelle ultime stagioni è successo di tutto: ha dominato dal 2007 al 2011, è stato fermo per sei mesi nel 2012 in virtù di una squalifica che ancora oggi grida vendetta, salvo poi tornare alle corse sul finire della stagione conquistando la Vuelta con un’imboscata degna del più astuto e coraggioso contrabbandiere. Un anno prima, nell’estate 2013, Froome e Contador si sono giocati il Tour de France. Lo spagnolo ne è uscito con le ossa rotte: quarto, a sei minuti e mezzo dal rivale in maglia gialla. Nairo Quintana, un altro pesce grosso delle grandi corse a tappe, ha da poco conquistato il Giro d’Italia: l’altro obiettivo della stagione è la Vuelta, quindi niente Grande Boucle. Ci sarebbe invece Joaquim Rodríguez, il corridore più continuo del gruppo: dal 2010, è salito almeno una volta sul podio di ogni grande giro, sfiorando la corsa rosa nel 2012, senza snaturare la sua vocazione per le classiche che gli ha fatto conquistare una Freccia Vallone e due edizioni consecutive del Lombardia. Il condizionale, però, è d’obbligo: nemmeno due mesi prima, si è rotto una costola e fratturato un pollice al Giro d’Italia. Il terzo incomodo tra Froome e Contador, dunque, non è né spagnolo né colombiano: è italiano, si chiama Vincenzo Nibali ed è il corridore più frainteso del gruppo.
Nibali è un predestinato. Fin dal suo arrivo nel professionismo, ha dovuto convivere con aspettative e pressioni ma le squadre nelle quali ha militato lo hanno sempre lasciato crescere con calma. Il suo percorso è ciò che di più normale si può immaginare nel mondo dello sport: passano gli anni, crescono i muscoli, si accumula l’esperienza, gli obiettivi aumentano di prestigio. E’ un ragazzo sicuramente buono ma apparentemente duro e introverso. Saggio e bilanciato, secondo molti non vale i migliori dei grandi giri. Nibali, alla vigilia del Tour de France 2014, può già contare su un palmarès di tutto rispetto: una Vuelta, un Giro d’Italia, due edizioni consecutive della Tirreno-Adriatico, e tanti altri podi pesanti tra grandi corse a tappe e classiche monumento. In Francia lo conoscono bene: due anni prima, nel 2012, fu l’unico in grado di contenere il distacco dal capitano del Team Sky, Brad Wiggins, e il suo vice (a tratti anche qualcosa di più), Chris Froome. Concluse al terzo posto. Nonostante i risultati, intorno al siciliano c’è ancora scetticismo: ha quasi trent’anni, in più occasioni ha vinto distanziando rivali modesti, e i precedenti con Contador e il colosso britannico non giocano a suo favore.
La prima parte di 2014 per Nibali è stata silenziosa e povera di risultati: quinto al Romandia, settimo al Delfinato, impalpabile nelle classiche. Il 28 febbraio è nata Emma, la sua primogenita, ma questo non è affare dell’Astana, il team kazako per il quale il siciliano corre. Alla fine di aprile, a Nibali viene spedita una lettera: la motivazione è “lo scarso rendimento”. Il Tour de France è l’obiettivo principe della stagione, hai sacrificato tante altre corse per arrivare preparato a questa: non puoi sbagliare. Il contenuto è più o meno questo. Il 28 giugno, arriva la prima vittoria stagionale: è la prova in linea del campionato italiano, conquistata con un lungo sprint che sfianca la rivelazione di giornata, Davide Formolo. Nibali urla, sbraccia, piange. Alla tappa inaugurale della Grande Boucle mancano soltanto sette giorni.
La prima metà di corsa si preannuncia altimetricamente facile, quindi nervosa. Tappe piatte e tappe mosse, che dovrebbero dividersi equamente velocisti e attaccanti dinamitardi. La prima vera frazione di montagna è la numero dieci: sette Gran Premi della Montagna e arrivo in quota a La Planche des Belles Filles. Non sarà, però, una lunga processione verso le prime salite da scalare. La quinta giornata, ad esempio, tiene banco sui giornali da diversi mesi. Da Ypres ad Arenberg, Porte du Hainaut: centocinquantacinque chilometri, quindici abbondanti di pavé. Stesso arrivo del 2010, vinse Thor Hushovd. Nibali conosce bene questa tappa. In aprile, alla vigilia del trittico delle Ardenne, è venuto a provare alcuni tratti del percorso insieme a Fuglsang, Westra, Kangert e Grivko. Nelle interviste che rilascia in quella mattinata, il siciliano è chiaro: dice che non ha mai partecipato alla Parigi-Roubaix, che ha provato soltanto il pavé dell’Eneco Tour e non è la stessa cosa. E’ realista: mette sul piatto la sua passione per la mountain bike e la grande abilità nella guida del mezzo, sa che alla sua squadra (e a lui, soprattutto) interessa la classifica generale, la vittoria di tappa non è importante. Pedala su quei ciottoli buttati lì a casaccio in una bella giornata di polvere e sole. Il 9 luglio, su quelle stradine cade una pioggia copiosa. Vengono tolti due settori, impraticabili, corsa più compressa e ancora più pericolosa. La preoccupazione aumenta ulteriormente quando perfino Fabian Cancellara, uno dei favoriti di giornata e grande conoscitore di pietre, si lascia sfuggire un pensiero indicativo: sarà un macello.
Vincenzo Nibali è facilmente riconoscibile: indossa la maglia gialla. L’ha ottenuta al termine della seconda tappa, quella che arrivava a Sheffield, quando era già Tour ma non ancora de France. Una sparata ai meno due dal traguardo, tatticamente perfetta e tecnicamente devastante. Tappa e maglia, anche se soltanto qualche ora prima a Scarponi aveva detto di rimanere tranquilli, ché non valeva la pena esporsi. Alla partenza da Ypres, il siciliano ha due secondi di vantaggio su un gruppetto niente male: sono presenti quasi tutti i nomi più importanti in ottica classifica generale, ai quali bisogna aggiungerne un paio pericolosi per quanto riguarda il discorso maglia gialla. Sagan, ad esempio, ma anche Van Avermaet e Kwiatkowski. Kristoff e Cancellara pagano invece una trentina di secondi di ritardo. Se dovesse perdere il simbolo del primato, poco male: l’importante è sopravvivere, fare la corsa su Froome e Contador, se possibile guadagnare qualcosa nei loro confronti. Intanto, nei primi chilometri si succedono diverse cadute: coinvolti Démare, Kittel, Greipel. La tappa, accorciata e quindi condensata, miete vittime illustri.
Chris Froome cade per la prima volta dopo ventinove chilometri. Si lecca le ferite, risale in bici e dopo un bell’inseguimento rientra in gruppo. Ci sono tanti segnali che fanno pensare che per il britannico non sia un’annata così fortunata: è caduto anche al Delfinato, e pure il giorno prima del famigerato pavé. Tre incidenti in un mese lasciano perplessi. Il quarto, che arriva alle porte del primo settore in pavé, suona come una sentenza. Sono attimi significativi. Froome scuote la testa, si rende conto che resistere al dolore gli costa altro dolore, forse troppo. Si arrende, entra in macchina, il suo Tour de France finisce col rumore di uno sportello che sbatte.
La fuga che si era formata nei primi chilometri di gara è ancora davanti. Sono in nove: Tony Martin, Gallopin, Burghardt, Taaramäe, Clarke, Hayman, Samuel Dumoulin, Acevedo. Il nono è Lieuwe Westra, passista olandese di tutto rispetto che sta attraversando la miglior stagione della sua carriera: ha vinto una tappa alla Volta a Catalunya e una al Delfinato. Nibali lo ha scelto come punto di riferimento per le ultime fasi di corsa. I due settori di pavé eliminati a causa del maltempo sono il numero tre, una parte di Mons-en-Pévèle, e il numero cinque, Orchies à Beuvry-la-Forêt. Anche il numero uno ha un nome evocativo e familiare: poco più di un chilometro, Carrefour de l’Arbre. Dalla partenza sono stati affrontati ottantasette chilometri: all’arrivo ne mancano una sessantina.
I primi due tratti lasciano subito il segno. Prima la Cannondale, poi Vanmarcke, imprimono accelerazioni letali: Valverde e soprattutto Contador sono già lontani dalle prime posizioni del gruppo, dove staziona deciso e in apparente controllo Vincenzo Nibali. Talansky e Van Den Broeck, due outsider per la classifica generale, cederanno poco più avanti. Quando mancano quaranta chilometri al traguardo, il ritardo di Contador dalla testa del gruppo e quindi dalla maglia gialla è di quarantacinque secondi. Nibali è sereno, tranquillo, vigile, ma la corsa lo mette a dura prova: Bak tira dritto ad una curva e scompare in una capriola, Iglinskij della Astana cade proprio davanti al suo capitano che rallenta ma non cade. La fuga viene riassorbita, meno di trenta chilometri all’arrivo, Westra si è risparmiato abbastanza per poter aiutare Nibali. Dieci chilometri più tardi, i riferimenti cronometrici informano che Contador continua a perdere: due minuti dalla testa della corsa. La Belkin è scatenata ma colpito dalla sfortuna che lo perseguita da sempre, Vanmarcke fora e lascia Boom da solo. Soltanto due settori di pavé al termine: il momento adatto per l’affondo finale.
Il confronto tra Nibali e Contador è impietoso. Lo spagnolo sembra pedalare sulle uova: rigido, in punta di sella, come se impattare più piano sul pavé aiutasse a sorpassarlo più in fretta. Nibali impugna il manubrio della sua bici come un toro per le corna: sono un tutt’uno, un gesto atletico armonioso nella sua durezza. Se Contador rimbalza, Nibali plana. Gli devono essere tornati in mente i bei giorni di ragazzo, quando il padre gli raccontava delle imprese di Moser nel freddo e ostile nord Europa. Nel gruppo della maglia gialla ci sono gli specialisti delle pietre: Trentin, Keukeleire, Sagan, Cancellara. Nibali, coadiuvato e pilotato alla perfezione da Westra e Fuglsang, li segue, li affianca, li sorpassa, li stacca. Alla presentazione delle squadre, una settimana prima, era stato semplice e sincero:
“Il mio pregio è quello di cercare di sorprendere. Attaccherò in salita, in discesa: dove c’è spazio”.
Di spazio sul pavé sembra essercene poco ma lui lo trova. Sul penultimo tratto, al traguardo mancano poco più di dieci chilometri, Westra e Fuglsang forzano l’andatura e si portano dietro Nibali. Qualche centinaio di metri più avanti, anche Boom rinviene e si unisce al terzetto. Gli altri, Sagan e Cancellara compresi, rimangono irrimediabilmente attardati. Oggi Cancellara viene da Messina, ha il volto modellato dall’asprezza siciliana e percorre in senso contrario i settori della Parigi-Roubaix. E’ un’eccellente rivisitazione: la critica, stupita, applaude.
Sull’ultimo pavé, Boom mette in atto il piano che ha sapientemente partorito e propiziato: andarsene proprio in quel punto, una volta per tutte, per centrare una vittoria che vale una carriera. Boom è un’onomatopea: l’olandese esplode in avanti come il suo cognome suggerisce, Nibali non si accontenta e prova a resistergli. Boom e Nibali sembrano in fuga da un’onda anomala che sta per raggiungerli, tutti gli altri ingoiati da una risacca incorruttibile. Il corridore della Belkin, però, va troppo forte perfino per il siciliano, che si è calato nei panni di classicomane come il più consumato e duttile degli attori. Boom mette a frutto le battaglie combattute, e alcune anche vinte, contro Štybar e Nys nel ciclocross: non possono fargli paura dei viscidi ciottoli. Dietro, il mare di sofferenza risputa un sopravvissuto: è Fuglsang, che rientra su Nibali. La tappa va all’olandese, la gloria al siciliano e all’Astana. Gli uomini delle classiche sono staccati di uno o due minuti, Contador arriva quasi tre minuti più tardi di Boom, quindi a oltre due e mezzo dalla maglia gialla. Dalla radiolina, gracchia una voce trionfante. La stessa che, un paio di mesi prima, aveva messo nero su bianco le parole che hanno ferito e stimolato Nibali. Ha una calata dell’est ma la terminologia è italiana: “Vincenzo, tu oggi vince Tour de France”.
Nibali vincerà altre tre volte: La Planche des Belles Filles, Chamrousse e Hautacam. Con la tappa di Sheffield, fanno quattro affermazioni personali più la classifica generale: meglio di Bartali nel 1938, meglio anche di Coppi nel 1949. Contador si ritirerà nel corso della decima tappa, quella che vincerà Nibali a La Planche des Belles Filles. Lo spagnolo aveva davvero una bella gamba: lo dimostrerà alla Vuelta, dove per l’unica volta in carriera bastonerà Froome. Nelle interviste conclusive, Nibali sottolinea quel che tutti avevano già constatato: che è sempre stato il più forte, che non ha mai perso tranquillità e controllo, che non ha mai attraversato nemmeno un momento di difficoltà. Dalla seconda settimana in poi, non c’è stato nemmeno un dubbio su chi potesse indossare la maglia gialla sul podio finale di Parigi. Un estenuante, ma paesaggisticamente splendido, conto alla rovescia, l’assenza di Froome e Contador che non ha guastato la grandezza e l’unicità dell’evento. Sedici anni dopo Pantani, un decennio dopo le speranze di Basso, Vincenzo Nibali conquista il Tour de France. Una bella ipoteca l’ha messa nella tappa del pavé, nella quale avrebbe dovuto cercare di sopravvivere difendendosi e che invece ha corso attaccando. Via via che le tappe passavano, fatica ed euforia aumentavano. La maglia gialla pesava sempre meno, e così Nibali sperimentò la verità ultima: la ricompensa è il cammino.