L'Uefa ha costretto la Danimarca a giocare contro la Finlandia.
Dal Sudamerica a Copenaghen, dalla Conmebol all’UEFA, cambiano i continenti ma non cambia la sostanza: il calcio non è in grado di fermarsi. Neanche quando in ballo c’è la vita – letteralmente. In Brasile si contano duemila morti al giorno e gli ospedali sono vicini al 95% della capienza. Nel resto del continente la situazione è tutt’altro che rosea, tanto da aver costretto Colombia e Argentina a rinunciare al ruolo di paesi ospitanti per la Copa America, iniziata ieri sera con la sfida tra Brasile e Venezuela.
Quest’ultima, per inciso, è arrivata con 12 positivi tra gruppo squadra e staff alla partita d’esordio contro i campioni in carica. Per ovviare al problema, la Conmebol ha deciso che le squadre partecipanti potranno usufruire di sostituzioni illimitate. Una regola aggiunta all’ultimo, sintomo di un’incoerenza congenita al mondo del calcio – non solo quello sudamericano. Le condizioni per giocare non ci sono, ma si gioca ugualmente. Peggio ancora: prima si annuncia e minaccia (è il caso del Brasile, ad esempio) l’esclusione dal torneo, poi si scende in campo in ogni caso. E i social, orrido teatro dell’assurdo tempo in cui viviamo, non possono che uscirne vincitori: #VibraElContinente, twitta l’account ufficiale della Conmebol. Fino a poche ore prima, i capitani delle squadre avevano boicottato – sia chiaro, sempre a colpi di tweet – la partecipazione al torneo.
La situazione è meno grave in Europa, dove calano i casi, arriva la bella stagione e i primi grandi caldi, e torna il pubblico allo stadio. A capienza ridotta, certo, per pochi eletti ça va sans dire, ma sempre di pubblico si tratta. E via con Italia 3-0 Turchia e i trionfalismi tipici della nostra patria. E ancora, con il coro unanime che viene da Wembley: it’s coming home (dal ’66), dopo la vittoria contro la Croazia all’esordio. Tutte cose meravigliose, ma. Danimarca-Finlandia, 12 giugno 2021. Al 42’ del primo tempo Christian Eriksen accusa un malore sul quale s’è detto e scritto di tutto. Dall’eroico Simon Kjaer, capitano ideale e reale dei danesi, all’abbracciodi quest’ultimo e Schmeichel Jr. nei confronti della moglie del centrocampista nerazzurro. Immagini semplicemente drammatiche, vomitate dai media con filtri pornografici inquietanti solo agli occhi dei pochi sani ancora rimasti su questa terra.
Da quel momento in poi, tutti hanno smesso di concentrarsi sulla sfida di Copenaghen, per capire come stesse il ragazzo. Tutti tranne la Uefa. «Christian Eriksen era già alle porte dell’aldilà, la fibrillazione ventricolare è l’anticamera della morte. E invece il miracolo questa volta è avvenuto, gli hanno salvato la vita, la sua è stata una morte improvvisa abortita. È stato un grande successo», ha dichiarato Gaetano Thiene, professore di anatomia patologica intervistato da Fabrizio Caccia sul Corriere della sera. Eppure, l’Uefa ha ordinato ai giocatori di riprendere la partita.
«Siamo stati messi in una posizione in cui non avrebbero dovuto metterci», ha dichiarato il portiere Kasper Schmeichel. «Avevamo solo due opzioni (continuare la partita o riprenderla il giorno dopo a mezzogiorno, ndr), ma la squadra non voleva giocare», ha aggiunto Braithwaite.
L’Uefa ha replicato: «Agito con rispetto, non c’erano altre opzioni». È divertente per quanto è assurdo. Non c’erano altre opzioni, dice la Uefa. Come se la morte di un ragazzo, scampata grazie ai medici e ad un mezzo miracolo, non fosse una motivazione sufficiente per sospendere la partita. Le opzioni non c’erano, è vero. Perché l’opzione, al singolare, era una soltanto: mandare a casa i giocatori e il pubblico. Come ricorda Angelo Carotenuto, comunque, questo è uno sport «che ha giocato all’Heysel di Bruxelles come se niente fosse successo, all’Olimpico di Roma con un tifoso ucciso da un razzo e trent’anni dopo con un altro in fin di vita per un colpo di pistola». E gli esempi potrebbero continuare. Il punto è che dopo i bei discorsi sulla Superlega, l’etica e paperino, l’Uefa ha nuovamente smentito sé stessa.
The show must go on. Collegato al discorso è il pensiero di Asmir Begovic, portiere del Bournemouth, che apre il dibattito su un altro fronte, già battuto ma mai sufficientemente approfondito: «La salute e il benessere dei giocatori sono stati a lungo ignorati. Comprimere sempre più partite in periodi più condensati porterà solo a maggiori problemi di salute per i giocatori. Speriamo che prima o poi le persone al potere se ne accorgano». Gigi Garanzini su La Stampa aggiunge che «la Svizzera ha giocato ieri in Azerbaigian, mercoledì sarà a Roma con l’Italia, domenica verso sera di nuovo a Baku: fanno una ventina di ore di volo, e due più due quattro di jet-lag. Anche senza arrivare direttamente a Eriksen, in campo continuano comunque ad andarci loro. Non i maghi dei diritti tv e del marketing». Infine, Maurizio Crosetti su Repubblica ha scritto che i sindacati «non sono riusciti a impedire che i forzati del football diventassero per un anno e mezzo carne da cannone, anche se, ovviamente, non esiste alcuna relazione certa tra il calendario impazzito e la crisi cardiaca di Christian Eriksen. Fino a che punto il corpo di un atleta, anche se giovane e professionista, può essere sollecitato? Chi può stabilire il punto di non ritorno? Si gioca ogni giorno della settimana e si giocherà sempre di più. Per cosa, e contro chi?». La domanda è retorica e la risposta è un ghigno del diavolo.