Abituiamoci a tifare tutti la stessa squadra: magari una All Star europea.
Malgrado le parole della primavera scorsa sull’inutilità del derby di Torino, torniamo a scriverne. Vorremmo che la scelta editoriale fosse dettata da un ravvedimento dell’autore, da un’epifania che ha instillato nuova fiducia riguardo quello che fu un derby glorioso, scontro di identità, attitudini e classi sociali oltre che mero incontro sportivo.
Dispiace deludere il lettore, ma il derby torna a trovare spazio su questa testata per nuovi imbarazzanti traguardi eguagliati: non tanto per ciò che è accaduto in campo, quanto invece per l’infelice uscita social del centrocampista granata Jacopo Segre, reo di aver postato una fotografia in cui sorridente sfoggia la maglia di Dybala scambiata a fine gara.
Inevitabili (e giustificate) le levate di scudi dei tifosi granata indignati, così come inevitabili sono prontamente seguite le raffazzonate scuse del calciatore. Uno scambio di affetto e stima reciproca, questa la parafrasata giustificazione del numero 6 granata. Per carità, parole anche comprensibili ma, nonostante ciò, fuori luogo considerate le circostanze straordinarie imposte dalla stracittadina.
Lungi da chi scrive è la facile tentazione di abbandonarsi alla sempre confortante panacea della retorica del si stava meglio quando si stava peggio. Lo si dica, ed anche fuori dai denti, che i calciatori erano amici fuori dal campo e scambiavano maglie anche in tempi in cui il calcio pareva essere, per l’appunto, uno sport più onorevole. George Best e Mike Summerbee, nonostante indossassero le casacche delle due sponde rivali di Manchester, erano soci in affari con trent’anni d’anticipo sulla premiata coppia Vieri-Maldini, anch’essi sportivamente rivali sotto la Madonnina ma intimi fuori dal cemento di San Siro.
A stupire, però, è il candore con cui i calciatori contemporanei sembrano cascare dalle nuvole, quasi stizziti dalle proteste dei tifosi, ogni qual volta commettono uno scivolone mediatico. Se c’era una certezza a cui il calcio progressivamente messo al guinzaglio dalla globalizzazione, privato della sua anarchia e spontaneità in seguito all’avvento della Premier League, ci aveva abituati era l’incremento dei PR e degli spin doctors nel mondo pallone, al fine di aiutare le squadre a comunicare sempre meglio come diligenti s.p.a.
A far notare la stupidità di un errore facilmente evitabile, e dunque ulteriormente grave, è Pasquale Bruno, ex di entrambe le sponde torinesi ma particolarmente legato ai granata, e di certo non un docente universitario di media e comunicazione. L’amarezza di ‘O Animale’ Bruno, a cui perdoniamo di scivolare un poco nella retorica di cui sopra, mette sotto accusa l’incapacità delle società calcistiche nell’educare i propri tesserati ai valori della squadra.
Il punto sollevato dall’ex difensore napoletano si presta ad una più ampia e doverosa riflessione: che interesse hanno le società a formare i propri calciatori quando le stesse seguono i calorosi inviti di UEFA e FIFA di creare un calcio che potremmo definire liquido, cioè sempre più privo di principi identitari? Se in Italia i leader indiscussi di questo nuovo approccio al calcio, in cui le rivalità sono accessorio che non impegna piuttosto che questione di campanilismo viscerale ai limiti della fede laica, sono i bianconeri, con il loro stadio-supermercato di stampo inglese ed americano, gli altri club di Serie A, diligenti, seguono a ruota, tra slogan, hashtag ed account social in inglese.
Senza più epica (quella delle sue radici elleniche, latine e celtiche) tanto meno etica, l’Italia sportiva e non, indolente, vaga nel più completo sbaraglio identitario. Le scuse, retoriche, di Segre sono quanto meglio rappresenta la superficialità di un calcio sempre più opulento ma mai così polarizzato dalle sue radici operaie e dai tifosi.
“Jacopo Segre è granata dentro. E sarà per sempre granata” queste le parole spese dall’argentino sui social, parole che nella loro superficiale freddezza racchiudono tutta l’insofferenza del calciatore contemporaneo nei confronti dei tifosi, così stupidamente ancorati alla visione del calcio come fattore identitario. Come dar torto a Segre, dopotutto, in questo Schengen globale che è diventato il calciomercato sarebbe naif stupirsi dinanzi a simile comportamento. Nessuno ha mai chiesto a Segre di essere granata a vita. Un minimo di etica e decoro è tutto ciò che basterebbe al disilluso e ferito tifoso del calcio liquido.
Il calcio liquido è infatti quel calcio della tardo-modernità in cui la rivalità appare quasi demodé e non necessaria, al pari della società liquida di Bauman in cui, tra i più giovani, cioè i coetanei dei calciatori, a dominare è il meme che fa simpatico ma non impegna, piuttosto che la difesa, identitaria, di un’opinione o di una bandiera. È il calcio delle tribune, baby, non più quello delle curve, prima messo in ginocchio e poi, grazie all’inaspettato aiuto del Covid, annichilito, peraltro in anticipo sulla tabella di marcia.
In questo calcio liquido la divisa della Juventus, indossata dal rapper statunitense Drake, diventa dunque un feticcio estetico svuotato della sua semiotica, come secondo il sociologo Ted Polhemus accade oggi con i tratti estetici delle sottoculture e dei movimenti giovanili. Agli occhi ingenui del 23enne Segre, come biasimarlo d’altronde, portare a casa la maglia della Juventus, per altro indossata dalla punta di diamante Dybala, è qualcosa di cui andare orgogliosi, oggetto di cui far sfoggio in quel bar sport del nuovo millennio che sono i social media.
Il dito, piuttosto, va puntato contro il presidente granata Urbano Cairo. Cairo che – baldanzoso e sciacallo durante il lockdown primaverile, mentre il suo Torino perdeva l’ennesimo derby, celebrava il virus per aver incrementato il fatturato della sua azienda a suon di vendite di spazi pubblicitari a case farmaceutiche – avrebbe piuttosto dovuto dedicarsi alla formazione dei suoi giocatori ed alla ricostruzione di quell’identità societaria da lui stesso sgretolata in 15 (d)annosi anni di presidenza.
Ciò che questo episodio lascia dietro di sé non è l’astio nei confronti di Segre, che di Torino in futuro si ricorderà giusto del Bicerin. Piuttosto emerge la necessità di ripensare alle radici come elemento cardine di ogni società, non come vezzo identitario ma soprattutto come veicolo per restituire dignità e rafforzare l’immagine di un club, tanto all’interno quanto all’esterno dei confini nazionali. Una squadra, più o meno storica o gloriosa che sia, non può e non deve ridursi ad essere una maglia dall’appeal esotico o un post sui social media.
Aldilà dei particolarismi sabaudi relativi a questo episodio, questo è un tema universale, forse ancora più stringente in campionati esteri, uno su tutti quello inglese, in cui il calcio liquido non è uno spettro, bensì la realtà dei fatti. Per fortuna ci sono ancora spiragli in cui si inserisce impavido il campanilismo, come a tenerci vivi, come nella scivolata di Jamie Vardy a spezzare, fisicamente, la bandierina arcobaleno dell’odiato Sheffield United e, simbolicamente, forse per caso, la mole di perbenismo asfissiante che sembra negare empatia a tutti, presunti oppressi e presunti oppressori. Una boccata d’aria di ancien régime nell’ipocrita delirio Robespierriano del calcio liquido portato in trionfo dalla FIFA.