La squadra più eccentrica di Milano, tra estetica e recupero della felicità.
Quando nel Secondo Dopoguerra venne commissionato un edificio iconico per rappresentare la rinascita milanese dopo gli stenti bellici, l’influenza culturale degli alleati determinò l’adozione, derivante dal mondo anglosassone, della corrente brutalista. L’orientamento, ispirato dal baton brut di Le Corbusier, imponeva una forte e rude impronta architettonica elevando il cemento a vista da elemento portante a criterio estetico predominante.
Da sempre la torre sorta in Piazza Velasca, da cui ha tratto il nome, ha diviso popolazione e critici. L’estetica non ammalia nessuno, ma chi la ama ne riconosce una forte valenza simbolica. Tra questi Beppe Severgnini, che ha splendidamente colto l’essenza dell’edificio sulle colonne del Corriere della Sera, scrivendo:
«Chi dice che è orrenda, non capisce niente di Milano. Probabilmente crede che il capoluogo lombardo voglia gareggiare con altre città d’Italia in bellezze rinascimentali. Invece è orgoglioso dei suoi angoli strambi, dei suoi portoni, dei suoi cortili irregolari, dei suoi palazzi dove qualche incosciente vorrebbe sostituire il portiere con un citofono»
Probabilmente non ci poteva essere simbolo più azzeccato da sottrarre alla città per diventare manifesto del movimento calcistico più originale del tessuto meneghino. L’Associazione Sportiva Velasca èuna squadra dilettantistica nata per dividere, esattamente come la torre da cui prende il nome: una presenza scomoda, illuminante nel bene e nel male, ma ormai elemento indissociabile dal panorama cittadino.
Un progetto sportivo e artistico in cui le due matrici anima del Velasca si incontrano, mescolandosi in un’entità unica. Una prerogativa che si propaga a cascata dal vertice, dove Wolgang Natlacen è un presidente vestito da artista o un artista vestito da presidente. Una confusione di ruoli che l’interessato non vuole certamente aiutare a risolvere, e che anzi alimenta sapientemente per plasmare la realtà variopinta del club, costantementein bilico tra realtà e finzione.
Ma occhio a dirlo a Wolfgang, per il quale il Velasca è una cosa seria. Nato per gioco, come tutte le cose serie, il Velasca non è un ideale estetico come piace raccontarlo alla stampa; è invece una solida realtà dilettantistica che si è presa carico di interpretare la spontaneità del suo consiglio direttivo, traducendo in prassi l’assunto per loro più importante di tutti: il calcio è un’opera d’arte.
Ecco che allora l’elemento fondante, quello da cui tutto il progetto è sbocciato, è l’attenzione unica prestata alla divisa di gioco, più che una maglia unaseconda pelle. Qui le idee sono nette e la tipica attitudine naïve dell’artista viene scalzata dalla concretezza dello statista.
Al Velasca sono concessi solo due sponsor: uno è il fornitore tecnico, da quattro anni il marchio francese Le Coq Sportif, e l’altro è l’artista. L’ideazione della maglia ogni anno è affidata proprio ad un artista, scelto dal direttivo, per interpretare al meglio l’identità di Velascacalata nel momento storico che intende rappresentare. Un processo diventato ormai sfidante per l’azienda produttrice, ma soprattutto per gli artisti stessi.
Se prima infatti l’esercizio di stile era limitato a una espressione pressoché personale, oggi il lavoro si porta dietro il peso delle aspettative di una maglia attesa con grande trepidazione da collezionisti di tutto il mondo, pronti ad acquistare questi pezzi di arte in movimento.
Duecento esemplari limitati che, nonostante siano appetibili per una vasta schiera di potenziali consumatori, vengono ancora gestiti nel rispetto totale del tifo che la squadra rappresenta (i prezzi sono calmierati sulla base esclusiva dei costi di produzione e logistici). Un’attenzione, quella rivolta ai tifosi, che si riversa anche nel resto del materiale che il Velasca offre alla sua fanbase: oggetti funzionali alla fruizione più pura dello sport, e non merchandising da esibire in ufficio o in occasioni mondane.
Una fedeltà all’ideale che in questi primi cinque anni di mandato Wolfgang ha mantenuto come una personale stella polare, e che si ripromette di continuare a seguire anche nei prossimi cinque del suo appena rinnovato impegno: la consapevolezza di un brand appetibile, se non bramato, non ha ancora scalfito le resistenze del manipolo di fervidi sognatori che ha deciso di alimentare questo progetto.
Non esistono sponsor commerciali in Velasca: come detto la maglia è destinata a rimanere una tela vergine su cui l’artista possa esprimere la propria creatività. Solo lo sponsor tecnico si fregia di un logo diverso da quello della torre: oggi il galletto Le Coq non testimonia però un ricavo, quanto una sinergia che mette a disposizione le conoscenze tecniche per la realizzazione dei progetti degli artisti coinvolti.
Ottenere visibilità tramite Velasca è complicato: il partenariato per le aziende è consentito, ma solo a condizione che sia una forma di mecenatismo senza compromessi. Certo, il sito è una vetrina interessante dove esporre il proprio marchio, il campo da gioco un po’ meno, ma in fondo quello che si chiede è la totale assenza di interferenze nelle scelte decisionali del club.
«Non facciamo nulla per piacere, non andiamo contro, ma facciamo semplicemente le cose come sentiamo. I difetti del Velasca sono presentati, come tutto. Ogni cosa è sotto gli occhi. Chi vuole nasconderne i nei è fuori, non siamo un squadra nata per piacere, non siamo un gruppo di hipster».
L’arte può essere facilmente un modo per mascherare la finzione di un artificio sapientemente orchestrato, ma per Velasca al contrario rappresenta il megafono attraverso il quale mostrare la potenza di una narrazione onesta e trasparente. Più di chiunque altro altro, molto più delle squadre professionistiche, Velasca ha deciso di mostrare – attraverso i suoi canali social, e l’eco mediatica di cui gode – tutto ciò che accade a una squadra dilettantistica, dalle espressioni di gioia più sincere agli episodi più sconvenienti. Senza filtri né compromessi. Una scelta ideologica che ha creato più di qualche problema alla squadra meneghina, soprattutto nei confronti di quei partner che speravano potesse rappresentare un ideale hipster, esteticamente gradevole e politicamente corretto.
Non è nemmeno un caso che Velasca sia un progetto nato proprio a Milano. In parte pesa l’amore dei fondatori per il capoluogo meneghino, ma determinante è anche la volontà di essere protagonisti in uno scenario simile. Milano motore d’Italia, Milano città del calcio, Milano capitale della moda e del design. Niente in Velasca è frutto del caso e non poteva certo esserlo il legame con il contesto. Uno scenario così competitivo in cui Velasca si è ritagliata un ruolo non certo irrilevante.
«Siamo la seconda squadra di Milano. No, non è un errore. Molte realtà dilettantistiche si fregiano del titolo di terza squadra della città, magari anche il Monza a breve lo dirà. Inter e Milan si considerano entrambe la prima squadra di Milano. Nessuno dice di essere la seconda, allora lo facciamo noi. È logica.»
Non è un fattore determinato dalle sue prestazioni sportive – da quando è approdata nel mondo dilettantistico con l’affiliazione alla FIGC non si è mai spinta oltre la terza categoria, e anche con risultati mediocri. Ma è propriamente il legame con la città che ha reso ancora più forte quella stessa connessione che le grandi del capoluogo, al contrario, hanno gradualmente iniziato a perdere. Soprattutto in occasione della presentazione annuale della maglia, uno dei momenti più attesi della stagione del Velasca, sono infatti proprio i simboli cittadini a determinare un fil rouge radicato e riconoscibile.
La passata stagione è stata la volta delle terrazze del Duomo, dalle quali con un binocolo era possibile osservare le maglie nuove esposte proprio all’esterno della Torre Velasca. Quest’anno una piccola chiatta ha attraversato i Navigli dove i giocatori, con le variopinte maglie ideate dal genio sudafricano di Kendell Geers, hanno accompagnato la navigazione irrompendo nel centro dello struscio milanese.
Un forte radicamento meneghino, ma per la natura stessa del suo nucleo fondatore anche una spiccata componente multiculturale ha caratterizzato la nascita di Velasca. Un’apertura nei confronti del mondo che si concretizza da una parte nelle collaborazioni artistiche internazionali, dall’altra in una sensibilità agli stimoli esterni che rende la squadra della torre molto più di una semplice rappresentazione locale.
Così, l’anno scorso, Velasca ha intrapreso la prima grande trasferta internazionale della sua breve vita visitando Soweto, in Sud Africa, per una partita amichevole contro il Soweto Stars FC. Un’occasione per incontrare una cultura diversa, conoscere e scoprire i misteri di una diversità imposta, inaugurando per la prima volta come ‘bianchi’ un campo di esclusivo utilizzo della popolazione nera durante gli anni dell’Apartheid.
Un’esperienza forte e decisiva che, al netto degli adeguamenti normativi, reca ancora le scorie di un periodo storico tremendo di cui Velasca si è fatta ambasciatrice. Forse un viaggio che ha poco a che fare con il portato sportivo del progetto, ma molto con la crescita personale di un collettivo che tramite Velasca si sta semplicemente godendo il cammino, senza pensare alla meta. Quest’anno doveva esserci la partita di ritorno a Milano, con la trasferta dei sudafricani interamente finanziata dai meneghini, altro sforzo non banale per una realtà dilettantistica. Il Covid ha solo ritardato l’evento, che rimane però l’obiettivo principale per Wolfgang della stagione 2020/2021.
Quando chiediamo a Wolfgang quale sia la missione di Velasca nel mondo del calcio, sappiamo di fare la domanda per noi più semplice, ma anche la più difficile da declinare in una replica. A bruciapelo la risposta non è chiara, si confonde tra le mille idee che una fervida mente come quella di Wolfgang processa ogni istante. Ma poi la conversazione si scioglie, gradualmente i pensieri lasciano spazio alla pancia e la risposta arriva da dentro, chiara e netta come una lama nella carne:
«Gioco e sogno sono le cose più belle. Giocare è una cosa molto seria, crediamo che giocare sia una prerogativa dei bambini, invece sono gli adulti che smettono di giocare, ma sbagliano perché il gioco è strettamente collegato alla felicità: ecco perché i bambini sono felici, mentre gli adulti sono seri. Ecco, l’obiettivo di Velasca è continuare a giocare, insegnare a farlo, in tutti i modi possibili. La nostra è una missione di recupero della felicità»
E nella lucidità di una risposta, molto più che nella fruizione di uno spettacolo minato da interessi economici e politici, ci scappa un sorriso. Forse qualcuno ci crede ancora. Forse davvero il calcio è solo un gioco che ci rende felici. E se anche così non fosse più il Velasca sarà lì, imponente e minaccioso come la torre, a ricordarcelo.
Faites vos Jeux.
L’articolo è frutto di un’amabile conversazione avvenuta in un torrido pomeriggio milanese, all’ombra della Torre Velasca. L’autore ringrazia Wolfgang Natlacen per la straordinaria disponibilità e Le Coq Sportif Italia per avergli consentito di conoscere e diventare parte del mondo Velasca.