«Certo che avevo un procuratore. Era un mio amico d’infanzia, si chiamava Danilo, ma l’avevano soprannominato Ferragosto, perché non era molto avvezzo al lavoro. Mi ha seguito per tutta la carriera. Che fossi a Genova, a Roma o a Verona, lo sentivo e gli domandavo: “Danilo, mi porteresti del Raboso?”. Lui arrivava con le bottiglie che gli avevo chiesto. Ecco, lui era il mio procuratore. Di casse di vino».
Oderzo è silenziosa, attorno a Gianfranco Zigoni. Fa freddo, in questa terra di confine tra il Veneto e il Friuli, con le strade che si biforcano nell’incrocio di un Nord-Est antico. Zigo è uno da beat generation: come Jack Kerouac, dopo tanto vagare è tornato a casa. L’ha fatto molto tempo fa, alla maniera degli eroi omerici. L’Itaca di Zigo è qua.
Troppo difficile paragonare il calcio di oggi a quello di allora?
Io questo lo seguo poco, in realtà. Vedo, appena posso, le partite del Verona, e poi quelle del Torino e dell’Inter, le squadre per cui tifavo da bambino. Soprattutto l’Inter, poi, mi diverte, perché non sai che cos’aspettarti. Il Verona è il mio cuore, il Toro è nato per soffrire, e lo sento dentro di me.
Vuole dirci che non le interessa nulla di Cristiano Ronaldo?
Lo stimo, perché è un fuoriclasse, ma non farei mai cambio con lui, anche se muove milioni e milioni di tifosi e di soldi. Sembra una macchina, non un giocatore. Si diverte sul serio? La vita è una sola, non puoi passarla sempre sul campo. Vedo che è circondato da ogni agio, eppure c’è qualcosa che mi annoia. A me piace chi sa essere selvaggio e ingenuo.
Quindi non va matto neanche per Lionel Messi?
Ecco, senza voler togliere nulla a Cristiano Ronaldo, preferisco lui. Sai perché? Per il suo modo di giocare. Mi rimanda alla gioia originaria per il pallone, all’oratorio in cui sono cresciuto, qui a Oderzo, nel quartiere Marconi, il “Bronx”. Naturalmente anche Messi fa parte di questo ingranaggio enorme che è il calcio attuale, ma al confronto di Ronaldo trasmette la sensazione di non essere un robot: lo trovo più umano, anche nelle sue debolezze.
Gianfranco Zigoni potrebbe mai far parte di questo calcio?
Non è nemmeno immaginabile. Io mi allenavo perché dovevo farlo, ero obbligato, non l’avrei mai fatto. Vivevo per la partita, per la gente, per lo stadio. Tutto il resto era un contorno. Ora seguono delle tabelle, ci sono metodi di preparazione scientifici, non si può sgarrare. E io, certe regole, non le sopportavo allora, figuriamoci se potrei adattarmi adesso. Ma faccio anche un preambolo: non do giudizi, ogni frutto ha la sua stagione. Il calcio è questo, punto e a capo.
Che cosa intende?
Non si parla più di sport, ma di un business globale. È sbagliato? Non saprei. Trovo che sia affrettato e banale fare certe considerazioni sul filo della nostalgia di quanto è stato. Siamo in un periodo, iniziato ormai tempo fa, e per cui non vedo regressioni, in cui sono gli interessi privati a comandare, la capacità di fare affari. I giocatori non hanno colpe per il contesto in cui sono. Ovvio, una volta i presidenti erano i Moratti, i Garonzi, i Rozzi, persone che avevano un legame viscerale con i club e con il loro territorio. Cosa volete che ne possa fregare a cinesi o americani della storia che c’è dietro a una squadra? La mia non vuole essere una critica a prescindere. Si tratta della presa di coscienza dello stato delle cose.
Per questo si è allontanato dal calcio?
Non sono l’unico, però non vorrei si pensasse che voglia dare una valutazione morale su quel che c’è ora. Più semplicemente, capita di cambiare, di avvertire una vicinanza a un mondo piuttosto che a un altro. Così, se devo andare a vedere una partita sul campo, lo faccio per i Grifoni.
Parla del Genoa?
No, dei Grifoni di Oderzo. Non parlo di calcio, bensì di rugby. Sono la squadra del mio paese. Ci sono tanti giovani entusiasti, e io, per i giovani, ho sempre avuto una profonda simpatia. E poi non è che la passione per il rugby mi sia venuta adesso: questa è una zona in cui la palla ovale comanda. Da piccolo mi portavano fino a Treviso, là erano già forti. E ho un sogno: rinascere ed essere uno degli All Blacks.
Perché?
Ho conosciuto John Kirwan, un uomo straordinario. Lui lo è stato, un All Black. Mi rivedo nel loro modo di interpretare lo sport. Vorrei partecipare alla Haka. John ha scritto un libro bellissimo: “Gli All Blacks non piangono”. Parla della sua depressione, della tristezza che avvertiva, ma che non poteva mostrare. Un All Black non piange.
E lei, Zigo, ha conosciuto la depressione?
Sì, e ho compreso che sono cose della vita. La felicità è uno stato d’animo passeggero, ma tutto è transitorio. So che cosa significhi stare male dentro. Lottiamo ogni giorno per noi stessi, per i nostri cari. Ho conosciuto uomini ricchissimi, come l’Avvocato Agnelli, e barboni che non avevano niente, e mi sono sempre sentito più vicino ai barboni che ai miliardari. A me, dei soldi, non è mai fregato nulla.
Se girassero un film su di lei chi vorrebbe che fosse chiamato a recitare nella sua parte?
L’attore giusto non c’è più: Paul Newman. Era il mio mito, andavo pazzo per “Lo spaccone”. E un ruolo dovrebbe averlo anche Morgan Freeman, un altro che mi piace tantissimo. Quelli di oggi, invece, non mi fanno effetto. Ma volete mettere James Dean? Lui sì che aveva dentro qualcosa di unico. Anche Marlon Brando era un grande, ma Newman, per me, era di più.
Parla dei suoi miti del cinema. Quali ha avuto nel calcio?
Nacka Skoglund, il campione svedese dell’Inter, è stato un simbolo, insieme a Garrincha e a George Best. Eppure io sono attento a quel che mi raccontavano i “vecchi”: Valentino Mazzola è stato irraggiungibile. Non l’ho visto, ma mi fido di chi ha avuto l’opportunità di riuscirci. Lui era al di sopra di tutti, persino meglio di Pelé, di Di Stefano, di Sivori, di Cruijff. Prima parlavamo di Messi e di Cristiano Ronaldo: il confronto non inizia neanche. Se ci mettiamo pure Icardi, allora il distacco aumenta.
A proposito di Icardi, cosa pensa della sua trattativa per il rinnovo del contratto con l’Inter?
Riparto da un concetto che ho già espresso: le regole sono diverse da quelle che c’erano quando giocavo io, quindi se uno può ottenere dieci milioni di euro invece che cinque o sei, meglio per lui, perché poi c’è anche chi glieli darà, evidentemente. Sono ipocriti gli attacchi a Wanda Nara: lei cura l’interesse di Icardi, è il suo mestiere. Potrei fare l’identico discorso per un altro agente di cui si parla spesso, Mino Raiola. Alla fine tutti si lamentano e criticano, ma un vantaggio c’è per gli uni e per gli altri. Io, per quanto mi concerne, resto al mio amico Ferragosto, e tanto mi basta.
Zigo, ma com’è riuscito ad avere un distacco tanto austero dai soldi?
Non è una fatica, io sono fatto così. Torno a casa e mangio quello che c’è, mia moglie lo sa. Un panino con il salame è più che sufficiente per essere contenti, magari con un bicchiere di vino al fianco, perché quello è un piacere da condividere. E poi ho la musica, la lettura, la fede: così si trova la pace.
La musica di chi?
Di Fabrizio De André. Lo conobbi quando giocavo al Genoa. Ho amato, in particolare, le sue canzoni più malinconiche: “Inverno”, “Il cantico degli impiccati”. Le parole tristi mi conquistano. E dopo “Fiume Sand Creek”, tra l’altro scritta per Faber da Massimo Bubola, che è un amico: abbiamo pure giocato a calcio insieme per delle partite benefiche, tutti dovrebbero avere i suoi dischi. I suoi pezzi sono splendidi.
Avete presente quelle parole che aprono “Fiume Sand Creek”? “Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura/sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura/fu un generale di vent’anni/occhi turchini e giacca uguale/fu un generale di vent’anni figlio di un temporale”. Un capolavoro. Non starò mai con le giubbe blu, sarò sempre un indiano: c’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek. Tornando a dire di De André, non è un caso che Leonard Cohen l’abbia elogiato prima di morire. Ecco, Cohen: un altro che ho adorato e che manca.
Per cosa?
Per quel suo modo di cantare profondo e affranto. De André ha tradotto in italiano delle sue canzoni, come “Suzanne”, che è bellissima. E dopo ho sempre ascoltato Bob Dylan. La musica mi deve far riflettere. Non sono uno da Beatles o Rolling Stones: non mi vanno a genio né gli uni, né gli altri. Mi danno ansia, non raccontano il mio mondo.
E nel suo mondo, Zigo, cosa c’è?
I libri. Quelli di Paco Ignacio Taibo, un altro amico: ci siamo conosciuti anni fa, ha la mia completa ammirazione, è grandissimo. La sua biografia di “Che” Guevara, “Senza perdere la tenerezza”, è irraggiungibile. Perché, vedi, in quella frase, quella del titolo, c’è molto di quanto dobbiamo cercare di essere. Anzi, quasi tutto.
Il “Che” secondo Gianfranco Zigoni chi è stato?
Un uomo che si è speso fino a quando non l’hanno assassinato perché le sofferenze cessassero, che ha dato la speranza a popoli che non sapevano neppure che cosa volesse dire. Certo, ha ucciso, per farlo, ma il “Che” desiderava la pace, non la guerra. Era un combattente, com’è stato Muhammad Ali, come Gandhi. Sembrano differenti, opposti, divergenti, invece, se guardate bene, si somigliano.
In che maniera?
Ognuno di loro lottava, si impegnava per il bene del prossimo. In questo, però, c’è una figura che viene sopra e davanti a tutti, ed è Gesù Cristo. Tempo fa parlai con un prete e gli dissi che, a mio parere, il “Che “ aveva molto in comune con Gesù. Lui mi rispose che era una visione che non poteva condividere. Poi lessi un articolo in cui si sosteneva proprio questa tesi, ossia che il “Che” fosse stato uno dei personaggi storici più vicini a Gesù. Andai dal prete e glielo mostrai. Mi fece: “Hai ragione tu”, e sorrise.
Gesù Cristo cosa rappresenta per lei?
Non l’ho mai visto come figlio di Dio. Per me è sempre stato un rivoluzionario della pace e dell’amore. Gesù è il Discorso della Montagna: “Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti perché possederanno la terra. Beati quelli che piangono perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati. Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Esiste qualcosa di più grande? Cercatelo, non lo troverete.