Il riconoscimento alla carriera conferito a Luciano Moggi, in un'aula del Senato, è l'ennesima prova di un Paese senza memoria.
Lo scorso sabato 23 marzo, l’Italia calcistica si era svegliata speranzosa e vitale. La sera stessa sarebbero cominciate le fondamentali qualificazioni per Euro 2020, e il Ct Mancini avrebbe potuto finalmente disporre di un gruppo di giovani sbarazzini e talentuosi, pronti ad aprire un altro glorioso ciclo nella storia della Nazionale azzurra.
Non ci si aspettava di certo che, poche ore dopo, in un’aula del Senato della Repubblica, venisse celebrata la premiazione alla carriera nei confronti di Luciano Moggi da parte del comitato del Leone d’Oro di Venezia: un duro colpo inferto a tutti i buoni propositi. Lungi da queste colonne digitali riaprire l’infinito dibattito su quella ingloriosa pagina del calcio italiano che è stata Calciopoli, la nostra vuole essere al contrario la disamina di un sistema intero.
Una critica nei confronti di un Paese i cui vertici hanno permesso che un individuo radiato a vita dal suo ambito lavorativo, e assolto solo dalla prescrizione in sede penale dall’incresciosa accusa di associazione a delinquere, possa venire celebrato fra le mure che ospitano la seconda carica dello stato. Un Paese dove viene vanificato il lavoro della magistratura, in questo caso sportiva, che ha speso diversi anni per arrivare ad una sentenza definitiva.
Una Nazione in cui, in episodi come questi, si rende palese una atavica mancanza di etica pubblica, o anzi meglio di memoria. Sì perché in Italia passa sempre il messaggio che con il tempo, a seconda di come tira il vento, chiunque possa essere perdonato, o perlomeno la sua colpa possa essere mitigata. D’accordo, non siamo mai stati ferrei, rigidi e dogmatici come altri popoli, ma anche al gattopardismo c’è un limite.
Almeno l’ironia ci contraddistingue in positivo
Il sistema calcio in effetti ne è l’esempio più lampante. Un intero organismo che periodicamente si ammanta di un sempreverde perbenismo, per poi ricadere puntualmente nelle solite ancestrali contraddizioni. Non stupisce più nessuno ad esempio che alcuni calciatori, dopo il grande polverone sollevato dall’ultimo Calcioscommesse e le relative condanne, siano ancora liberi di poter vestire maglie gloriose e di calcare campi professionistici; e anzi, probabilmente il grande pubblico se ne è bellamente dimenticato. Così, sconsolati, non ci resta che dare ragione ancora una volta a quel guastafeste di Pier Paolo Pasolini, che nel ‘75 cucì una perfetta definizione dell’Italia a cui è impossibile sottrarsi:
“Noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero”.