Il tennis di Alcaraz è un arcipelago lì dove per la maggior parte gli altri sono contrade. Il suo corpo mostra forza e fragilità, il braccio fasciato, la coscia intorpidita sono segni di uno sport che pressa di continuo i suoi atleti fino a romperli, mostrando la sua parte crudele. Alcaraz non è monocorde come Rublev o pavido come Zverev, lui è un atlante di talenti perché sa giocare da fondo e da rete, sa usare qualunque colpo, che sia un drop o un top, con una intensità da film espressionista e non ha timore delle situazioni o dell’avversario.
Lui attacca sempre anche quando solleva lob, gli serve per caricare il colpo che sta per far partire in chissà quale parte del campo. In un romanzo poco conosciuto di Philip Larkin, grandissimo poeta inglese, si descrive una partita di tennis tra Jane e Robin, lui più forte lei più intelligente: «La prima cosa che notò fu che lui le restituiva invariabilmente il servizio sul rovescio, anche dopo che lei aveva dimostrato che non era debole […] Infine, il suo gioco era limitato. Non faceva mai chopping o escursioni piratesche a rete. Il suo stile era veloce, pulito, aperto e costante. Una volta capito questo, fu facile prendere l’iniziativa».
Ecco, diciamo che Alcaraz ha entrambi i tratti, forza e intelligenza, grazia e brutalità, sintesi perfetta di quello che il tennis è stato e di quello che è e vuole essere; l’istintività, spesso considerata come una parte vulnerabile della sua persona, va a comporre la triade di questo straordinario tennista che copre il campo con gambe velocissime. Alcaraz è un movimento tellurico nel tennis unidimensionale di questi anni, persino le imperfezioni tattiche fanno parte del suo gioco, creano spazi imprevisti, impennate che vanno a scompigliare il tennis da algoritmo; lui, nel disordine, trova se stesso, illude l’avversario e poi lo annienta.
Nietzsche afferma che il mondo è un caos e a nulla serve cercare di ordinarlo, Alcaraz non ha intenzioni da archivista alla Ruud, in lui l’apollineo è il dionisiaco e viceversa.
La sua geometria è l’imprevedibile, il suo sorriso è il dionisiaco, quello che rende ogni gesto ebbrezza, liberazione, gioia infantile. Il tennista murciano vive il tennis come ricerca estetica, non vuole solo vincere, vuole anche piacere, estasiare, non si dimentica del pubblico, anzi lo ha sempre presente, ha bisogno di farlo divertire ma questo viene considerato un atteggiamento superficiale e pericoloso. Tutto giusto, per i saggi della terra, solo che Alcaraz non cerca certezze cartesiane, preferisce il caos del mondo e si diverte a cavalcarlo. Il sorriso e la ricerca del colpo eccezionale hanno la stessa potenza, l’unico che, per leggerezza istrionica, gli somiglia è Bublik, grande talento ma anche tanta svogliatezza.
Già tre anni fa, da minorenne, eravamo rimasti stregati ed estasiati da questo giocatore.
Il tennista russo (di kazako ha solo il passaporto) sorride sempre quando gioca, vince, perde, sbaglia, fa bene, vive ogni partita come si trattasse di uno scherzo. Alcaraz, però, ha convinzione e fame, il suo sorriso è quello di Noodles di “C’era una volta in America”, ironico, felice come i bambini quando sono felici e quando lo sono si sentono ancora più in diritto di provocare disordine. Alcaraz, al contrario di Djokovic o Nadal, non vuole uccidere l’altro, lui nella vittoria trascina anche l’avversario, gli rende onore, lo accompagna alla morte, lo seppellisce in gloria e non lo trascina nella polvere come Achille fece con Ettore.
La sua mano, come direbbe Mario Brega, “po’ essere de fero e po’ esse’ na piuma”, ha vari pesi, vari angoli, varie intenzioni, insegue di continuo la misura delle cose. Soprattutto ha quello che manca a tutti i tennisti che giocano il rovescio a due mani: il rovescio a una mano, che in genere quando viene usato è in situazioni disperate e solo per difesa, tenendo il polso bloccato in allungo per provare a gettare la pallina dall’altro lato. Questo non succede al tennista spagnolo, il quale lo adopera con parsimonia ma ne fa un uso geniale in ogni partita, basta vedere quello che ha illuminato il campo nella finale di Parigi contro Zverev, si era due set pari e 4–2 Alcaraz, 0-30 servizio del tedesco.
Zverev attacca la profondità presentandosi sotto rete, a quel punto Alcaraz, vedendo la sua posizione sbilenca, si allunga scivolando sulla terra battuta e lascia partire quasi di spalle un rovescio tagliato che scheggia il nastro prima di andarsi a depositare in maniera superba nell’angolo. Dimostrazione di come la logica del mondo non è quella percepita da Alcaraz, che non segue i canoni imposti dalle scuole ma afferma quella che una volta veniva chiamata weltanschauung, una visione del mondo. Se non ce l’hai ti limiti a eseguire gli esercizi delle scuole, qualunque esse siano, così sei rassicurato dalla mediocrità delle istruzioni, insomma se non sai cosa fare a una mano nemmeno ci provi, come ti viene insegnato.
La bellezza con la quale il tennista spagnolo ha scelto di agire in quel modo rende ancora più complessa la mano di Alcaraz, che non solo sa picchiare ma riesce a fare quello che vuole perché ha una volée alta e una volée bassa superbe, una demi-volée difficilissima da prendere perché si inchioda. Questi colpi dichiarano un tennis che raccorda il passato col presente. Che Alcaraz sappia usare il rovescio a una mano non solo come gesto estremo racconta di un tennista che sceglie cosa fare sempre, anche quando va oltre i sillogismi noiosi delle teorie del tennis e azzarda l’errore, gli serve a costruire il suo gioco che tanto somiglia a casa Batlló.
Gaudì, andando oltre il mero accademismo, sostiene una visione personale dell’architettura, originale e innovativa. Scrive infatti il grande catalano: «L’intelligenza umana può agire solo su un piano, ha due dimensioni: risolve equazioni di un’incognita, di un grado. L’intelligenza angelica ha tre dimensioni e opera direttamente nello spazio. In esso l’uomo non può agire finché non ha visto ciò che ha già fatto, la realizzazione».
Alcaraz e casa Batlló hanno in comune creativa esuberanza e prisma della funzionalità, la complessa distribuzione degli elementi restituisce un mondo stratificato che sorprende sempre. La facciata dell’edificio ha ritmo ondulato, nega la linea retta per immergersi nei propri sogni e nelle proprie visioni. Ceramica, marmo, ferro battuto e legno sono tra i materiali di casa Batlló, un po’ come un dritto, rovescio, smash o qualche altra diavoleria che compongono il tennis post-moderno di Carlos Alcaraz, che trasforma ogni suo movimento in una allegra anarchia antistorica, perché non va né per tradizione né per imitazione ma secondo l’orgia del tempo.
Davide Morganti è scrittore e giornalista, sceneggiatore e paroliere. Negli anni ha collaborato con diversi giornali, dalla Repubblica al Mattino, e ha scritto libri per Einaudi, Fandango, Neri Pozza. Con Atlante della fine del mondo ha segnato un piccolo caso editoriale. E da pochi giorni è in libreria con “I destini di Monica Seles” (66thand2nd).