Non è stato il più forte, non è stato il più tecnico. Ma è stato uno dei pugili più appassionanti mai saliti su un ring.
Perché scrivere diArturo Gattiquando Youtube, con l’immediatezza delle immagini, potrebbe spiegare molto meglio di me chi è stato il campione italo-canadese? Perché doversi limitare alla limitatezza della parola scritta quando i colpi, il sangue e gli occhi chiusi di un pugile irripetibile sono più eloquenti di un trattato accademico? Questo tributo è stato scritto per rispetto. O forse solo per alleviare la malinconia.
Da Cassino a Montreal il passo è breve
E’ curioso pensare come il più forte pugile italiano della seconda metà degli anni ’90 non abbia mai combattuto nel Bel Paese. Eppure è così, perché i genitori di Gatti lasciano Cassino quando lui è solo un bambino e non tornano più indietro. La Ciociaria non offre le stesse opportunità lavorative del Canada: mamma e papà, originari del casertano, crescono Arturo a Montreal, dove il ragazzo apprende l’inglese come lingua madre. Volto da scugnizzo e origini umili: il giovanissimo Gatti si prepara a una vita di lavoro e sudore, ma nel frattempo inizia a fare pugilato. A quindici anni il primo evento che segna la vita (e la carriera) di Arturo: il padre, colui che lo aveva avvicinato alla boxe, muore. S’innesca un processo irreversibile nell’anima del figlio, che dopo una veloce carriera da pugile dilettante passa al professionismo e si trasferisce negli USA, nel New Jersey. E’ il 1991, ha diciannove anni.
La nascita di uno stile unico
L’avvio di carriera di Arturo è sfolgorante: nei primi 17 incontri ne vince 16, di cui 14 prima del limite. Una sola sconfitta, ai punti, contro la carneade King Solomon. Chi vede combattere Gatti a Newark o Philadelphia ne rimane estasiato: il ragazzo non arretra mai, cerca la scazzottata violenta in ogni singolo round. Ha un atteggiamento da kamikaze. Ha la mano pesante, ma ancora più duri dei suoi pugni sono la sua mascella e il suo addome. Incassa ganci, diretti, montanti. Li assorbe, fa il pieno di dolore fisico e lo restituisce all’avversario di turno, che non riesce mai a superarlo in questo masochistico gioco al rialzo. Le caratteristiche che faranno grande Arturo Gatti iniziano a delinearsi: vuole essere l’ultimo a rimanere in piedi.
Nel 1994 arriva il primo titolo, quello di campione statunitense dei superpiuma: Pete Taliaferro dura solo un round, nel quale viene steso tre volte da Arturo, che difenderà con successo la cintura a stelle e strisce per due occasioni. E’ il momento di alzare il tiro, e il 15 dicembre del 1995 Gatti affronta Tracy Harris Patterson al Madison Square Garden di New York. Nella cornice più celebre del pugilato mondiale c’è in palio il mondiale IBF dei superpiuma, e Arturo lo fa suo ai punti, imponendosi nettamente su di un avversario pericoloso e col doppio dei suoi match all’attivo.
Alzare sempre l’asticella, costi quel che costi
E’ questa la trita e ritrita narrazione dell’immigrato che sfonda, del paisà che oltreoceano ottiene la gloria? No, perché l’animo di Arturo è inquieto. Il suo desiderio di fare a pugni fino allo sfinimento, fino a quando non si crolla esanimi, non può essere soddisfatto completamente in una categoria di peso che ormai domina. Molti avrebbero scelto la via più facile, ossia restare nei superpiuma e non rischiare di affrontare gente pericolosa. Gatti invece sceglie la strada tortuosa, quelle cinque libbre di peso in più (circa due chili) che lo portano ai pesi leggeri. Una considerazione è d’obbligo. Alcuni dei match più belli della carriera di Arturo (e parliamo di uno dei pugili più esaltanti da vedere in assoluto) sono quelli dove è stato sconfitto, magari di misura.
Col volto tumefatto e gli occhi ridotti a due melanzane, lui non ha mai dato segno di resa o di paura. Questo candore da guerriero folle – segnale di una persona che non solo non teme il dolore, ma non lo avverte neanche – è ciò che fa innamorare di Arturo Gatti.
La digressione fatta dà una chiave di lettura per il match contro Angel Manfredy, l’esordio nei pesi leggeri, dove Arturo perde all’ottavo round dopo che il suo angolo lancia nel ring l’asciugamano. L’incontro era stato una carneficina, con Gatti prima vittima di un brutale taglio sull’occhio sinistro e poi messo a terra al terzo round. Ma lui, rialzatosi come tante altre volte sarebbe successo, avrebbe continuato a combattere sino alla campana.
Lo scontro con Angel Manfredy non è adatto ai deboli di cuore
Tra la polvere e l’altare: una carriera ottovolante
I difetti pugilistici di Gatti sono ormai evidenti: si espone troppo ai colpi avversari e sa boxare in un solo modo, ossia aggredendo alla corta distanza i rivali. Questo gli permette di scaricare ganci paurosi, ma i colpi che subisce sono altrettanto forti. E’ come una macchina che va solo in quinta: quando c’è da rallentare e gestire con astuzia un match vinto, Arturo semplicemente non lo fa. Ma è proprio per queste sue caratteristiche che il pubblico lo ama.
Il 22 agosto del 1998 è il momento di un altro combattimento epico: ad Atlantic City, Gatti e Ivan Robinson sono i sacerdoti di un rito di sangue indimenticabile, dove quello che per tutti ormai è ‘Thunder’ atterra l’avversario al quarto round con un diretto alla tempia. Robinson però non solo si rialza, ma bracca Gatti fin quasi a buttarlo giù alla nona ripresa. La reazione furiosa di Arturo nel finale, con Robinson chiuso alle corde, è uno dei tanti motivi per cui questo match venne eletto Fight of the Year 1998. La split decision premierà il pugile afroamericano, che vincerà anche il secondo confronto con Gatti, stavolta per decisione unanime.
Il match più bello del 1998
Arturo Gatti a inizio 1999 è quindi reduce da tre sconfitte di fila. Tre match il cui esito non pesa solo sullo score e sulle ambizioni dell’italo-canadese, ma anche sul suo fisico, che non quello di un normale atleta ventiseienne. I tanti pugni, i tanti traumi lo stanno facendo invecchiare prima del tempo. Ma la voglia di stare tra le sedici corde e la bramosia della battaglia spingono Gatti a fregarsene di chi gli suggerisce combattimenti facili, e a spingersi sempre più in là. Dopo un grande rientro (Gamache, Jakubowski e Hutchinson i tre validi avversari piegati uno dopo l’altro), Arturo affronta Oscar de la Hoya. Chi scrive non si ritiene un fan del Golden Boy, ma il divario emerso all’MGM Grand di Las Vegas è oggettivo: ko tecnico di Gatti al quinto round.
La trilogia più brutale di sempre
Storici e appassionati di pugilato discutono da anni su quali siano le più grandi trilogie della nobile arte. Fare una classifica è sempre fonte di dissenso e critiche, ma comunque la si pensi ogni Top Ten stilata dovrebbe contenere il triplice scontro tra Gatti e Micky Ward. Sì, proprio il protagonista di “The Fighter”, film del 2010 in cui il pugile di sangue irlandese ha il volto di Mark Wahlberg.
L’epicità di quei trenta round ha pochi eguali.
Paradossalmente, il fatto che nessuna delle tre sfide abbia avuto una cintura in palio ne accresce il valore. Gatti e Ward si sono quasi uccisi solo per l’ebbrezza di arrivare al limite, di vedere fino a che punto si poteva giungere nonostante ossa rotte, facce spaccate e un dolore fisico talmente intenso da chiedersi: perché lo sto facendo? La maggioranza è concorde nel dire che il primo incontro (l’unico dei tre vinto da Ward) sia il più appassionante, seguito a breve distanza dal terzo. Mi trovo d’accordo, limitandomi ad aggiungere che anche il second confronto tra i due – con Gatti più riflessivo (strano ma vero!) – è uno dei miei match preferiti di sempre.
Se non l’avete visto, ammirate il nono round del primo incontro della trilogia. E se l’avete già visto, rivedetevelo. Ward timbra Gatti dopo 15 secondi, che viene contato fino al nove e poi si rialza: un ritorno dai morti in piena regola, seguito da una scarica di venti colpi devastanti a cui Ward non reagisce. Le parti si invertono nuovamente quando ‘Irish’ porta due montanti assassini e prova a chiudere il match, senza riuscirci.
Non esistono aggettivi per descrivere questo round
Il ciclo epico contro Ward – oltre a regalare a Gatti l’immortalità e l’amicizia eterna con il suo rivale – gli dà l’opportunità di combattere nuovamente per un titolo mondiale, quello WBC dei superleggeri, dopo sette anni dall’ultima volta. E l’avversario è un italiano: quel Gianluca Branco che sta facendo sognare un Paese intero e che arriva alla Boardwalk Hall di Atlantic City da imbattuto. Il campione di Civitavecchia lascerà gli USA sconfitto con onore ai punti da un Gatti spaziale, capace di triturare Leonard Dorin e Jesse James Leija nelle due successive difese della cintura. Poi arriva un certo Floyd Mayweather Jr., più giovane di Arturo e destinato a fare la storia della boxe. Un atleta agli antipodi dell’italo-canadese: calcolatore, elusivo, intenzionato a vincere senza prendere colpi. “Money” strappa la cintura a Gatti prima del limite, e si concede il lusso di atterrarlo nel primo round. La carriera del Tuono è quasi agli sgoccioli.
Una morte che invoca ancora giustizia
Ritiratosi dopo due sconfitte dolorose nei superwelter, per Arturo non arriva la pace. Le emozioni che provava sul ring fanno impallidire la vita monotona di un professionista ricco ma incapace di lasciare con la mente le sedici corde. Purtroppo fanno capolino le dipendenze da alcool e cocaina, un clichè odioso ma terribilmente diffuso. Ma il peggio deve ancora venire.
L’undici luglio del 2009, a due anni dall’ultimo match, Arturo viene trovato morto in una camera d’albergo di Porto de Galinhas, in Brasile.
A prima vista pare che si sia impiccato con una cintura, ed è questa la versione che sostiene Amanda Rodrigues, la seconda moglie in vacanza con Arturo e il figlioletto di dieci mesi. Ma ci sono troppe falle nella vicenda, in primis i lividi sulla nuca di Gatti e le dieci ore che la donna ha passato nella stanza col cadavere del marito senza avvertire nessuno. Per la famiglia del campione non ci sono dubbi: la Rodrigues ha ucciso Arturo, con cui aveva un rapporto conflittuale da tempo. La giustizia brasiliana però decide diversamente: è stato suicidio.
Bisogna ricordare Arturo Gatti per quello che ha fatto sul ring, non certo per una morte ingiusta e meschina. Per i ganci al volto che sapeva tirare, per la resistenza a certe mattonate che avrebbero spento la luce ad altri. Per l’amore che dimostrava, ricambiato, all’unico vero giudice: il pubblico.