L’inferno ha un volto: quello dell’Ajax di ten Hag. O meglio, quello di una televisione che manda all’infinito le immagini del possesso palla dei temibili – per la nostra salute – ajacidi, passaggio dopo passaggio dopo passaggio dopo passaggio dopo passaggio dopo passaggio. Ma soprattutto oggi vorremmo sapere dove sono finiti quelli del “calcio europeo della Roma”, della “mentalità offensiva”, dell’ “unica squadra che va avanti in Europa perché ha un allenatore non italiano che propone calcio” (?). Il grande dato di ieri sera infatti è solo uno, ed inequivocabile: possesso palla Ajax 72%, Roma 28%. Fonseca è diventato tutto d’un tratto, e convintamente, Italiano.
Per questo motivo oggi non possiamo che tesserne le lodi, per la capacità che ha dimostrato di studiare la partita superando l’ideologia, di accantonare dogmi e convinzioni tattiche per adattarsi invece all’avversario. D’altronde l’allenatore portoghese era ben conscio che, affrontando l’Ajax a viso aperto, la Roma le avrebbe prese e con ogni probabilità sarebbe tornata (anzi rimasta) a casa. Lasciare spazi agli olandesi sarebbe stato mortifero, attaccarli una scelta suicida come quella di Di Francesco a Liverpool – a proposito di ritorni di partite europee. Come ha detto lo stesso Veretout nel post-partita: «all’Ajax piace giocare tra le linee, noi dovevamo stare corti e non concederglielo».
Consapevole dei punti di forza dell’avversario, dei limiti della sua squadra e delle tanti e pesanti assenze in casa – Spinazzola su tutti, poi Smalling, El Shaarawy e lo stesso Mkhytarian in campo ma a mezzo servizio – Fonseca ha così impostato una partita, per sua stessa ammissione, “molto realista”: musica per le nostre orecchie. Tanta difesa, poco possesso palla, molti lanci lunghi sulla punta grossa, uno straordinario Edin Dzeko chiamato a fare il lavoro sporco e a rendere giocabili i palloni che arrivavano dalla retroguardia giallorossa. Insomma, la Roma oggi rappresenta l’Italia non solo perché è l’unica squadra nazionale rimasta in Europa, ma anche perché lo ha fatto alla nostra maniera: adattandosi.
“Abbiamo fatto una partita principalmente difensiva, controllando sempre bene gli attacchi dell’Ajax (…) Abbiamo sofferto più ad Amsterdam che oggi. La nostra partita è stata molto realista, una buona partita difensiva” (Paulo Fonseca).
Questo a dimostrazione che non ci sono ricette valide per tutte le stagioni, che i ritornelli sulla squadra che gioca un calcio propositivo (ma poi perde tutti gli scontri diretti in campionato, cosa singolare) vanno derubricati a quello che sono: chiacchiericcio e ideologia. Che l’arte italiana non è tanto il difensivismo fine a sé stesso, bensì l’eclettismo, il rifiuto dei dogmi, il pragmatismo: l’umiltà di chiudersi, lottare e soffrire quando ce n’è bisogno.
Uno dei tanti palloni contesi, conquistati e giocati da Edin Dzeko, capitano senza fascia (Paolo Bruno/Getty Images)
Certo, poi in molti hanno rimproverato ai giallorossi le poche ripartenze, a fronte soprattutto di un Ajax non impeccabile in difesa. Anche qui però, e come sempre, si confonde la tattica con la tecnica: la Roma ha faticato a ripartire non per una scelta tattica troppo rinunciataria bensì per la mancanza di interpreti adeguati (Mkhytarian fuori condizione, Spinazzola ed El Shaarawy fuori e basta e lo stesso Veretout, spesso decisivo in zona gol, chiamato a compiti prettamente difensivi). Semplicemente, non aveva i giocatori per fare male in contropiede – si può ancora usare questa parola o si deve dire per forza costruzione dal basso trasformata in transizione positiva?
Per dirla tutta poi, la squadra ha concesso qualcosa proprio quando ha tradito questo tipo di partita: nel primo tempo, con il solito errore di Pau Lopez in quella dannata uscita palla al piede a tutti i costi che ha regalato un’occasione colossale all’Ajax; e poi in occasione del gol subito, quando a palla scoperta e a difesa schierata la Roma si è lasciata imbucare da un lancio lungo – ironia della sorte – arrivato dalla retroguardia olandese.
Insomma, dopo ieri sera a Roma già tiene banco il dibattito sul rinnovo di Fonseca. Noi ci accontentiamo anche di meno, e proponiamo per tagliare la testa al toro di concedergli la cittadinanza italiana. Con buona pace di chi esaltava l’allenatore forestiero venuto a redimere l’Italia retrograda e provinciale con il suo calcio propositivo, e che ieri lo ha visto vincere grazie alla dottrina di Gianni Brera: Santo Catenaccio, per l’unica italiana rimasta in Europa.