Il nostro manifesto per una rinascita del pallone.
Una pandemia come quella di covid, scaturita da un processo di zoonosi, era del tutto prevedibile. David Quammen, divulgatore scientifico americano, nel 2013 pubblicò Spillover (Adelphi, 2014) in cui veniva descritto pedissequamente che lo scoppio della next big one sarebbe stata la conseguenza di un incauto contatto umano con animali come i pipistrelli, in un wet market cinese, ove vengono macellati e venduti senza alcuna profilassi animali selvatici.
Gwynn Guilford, giornalista del Wall Street Journal, nel 2013 scrisse un articolo sulla testata Quartz dal profetico titolo ‘Bats carry viruses primed to cause the next deadly pandemic’ con un inquietante occhiello ‘Sars was nothing‘. Numerose poi le ricerche commissionate dalle agenzie scientifiche in cui si sono studiati gli effettivi rischi della sottovalutazione della fuoriuscita di un nuovo virus (su tutte, questa della Johns Hopkins). Bill Gates, nelle sue attività divulgative, andava vaticinando l’arrivo di una nuova pandemia globale già da diversi anni.
L’epistemologo libanese ed ex finanziere Nassim Taleb nel 2007 pubblicò un saggio divenuto celebre per l’elaborazione della teoria del cigno nero: un evento è considerato improbabile o del tutto impossibile dall’essere umano finché non accade, ed una volta accaduto, il genere umano tende a semplificare i rapporti eziologici con l’utilizzo di meri ragionamenti induttivi fintanto che questo evento, dalla vera portata distruttrice, non cambi per sempre alcuni assunti e paradigmi.
Come ha reagito il genere umano alla nuova pandemia? Se le risposte politiche e gli approcci sono stati i più disparati in una fase iniziale—su tutti i paesi anglosassoni, ad oggi i più colpiti—nel mondo occidentale si è imposta nell’arco di poche settimane una unica strategia di contenimento: il distanziamento sociale, i cui effetti benefici sono meticolosamente descritti in questo ormai celebre paper del giornalista Tomas Pueyo, ‘Coronavirus: The Hammer and the Dance‘ .
Ad aprile 2020 quasi quattro miliardi di esseri umani sono in confinamento domiciliare, e la stragrande maggioranza dei governi—con rarissime eccezioni come la Svezia—ha optato per una strategia di fase 1 di totale shut down, non tanto degli assetti produttivi quanto dei luoghi di scambio di beni e servizi (negozi, bar, ristoranti, cinema, teatri) con l’ineluttabile conseguenza di aver causato l’inizio di una delle più feroci crisi economiche della storia umana.
Pietrangelo Buttafuoco ha coniato una felice espressione, questa pandemia è il grande pettine che si sta portando via tutti i nodi, che la dice lunga sulle fragilità sistemiche che il grande sport aveva in corpo prima che arrivasse il grande pettine.
La pandemia, per stessa ammissione di Taleb in una recente intervista, non è da considerare un cigno nero né per dimensioni dell’evento né per le sue capacità di modificare gli assetti, ma è bensì unrinoceronte grigio, così come teorizzato da Michele Wucker nel suo saggio del 2016: ossia uno di quei problemi piuttosto evidenti che preferiamo però ignorare, come il cambiamento climatico o i gravi squilibri finanziari del mondo (qui, per gli interessati, un suo talk in cui divulga la teoria).
Se quelle di Rivista Contrasti non sono le pagine adatte per discettare di macroeconomia o politica economica, questa grave emergenza a noi uomini del popolo ha insegnato qualcosa di davvero impossibile da negare: questa economia vive di flussi di cassae una volta chiusi i rubinetti, coattivamente come in questi mesi, la stessa sopravvivenza di certi settori è messa a rischio. Industrie come quella sportiva ne stanno tragicamente sopportando un enorme peso. Pietrangelo Buttafuoco ha coniato una felice espressione, questa pandemia è il grande pettine che si sta portando via tutti i nodi, che la dice lunga sulle fragilità sistemiche che il grande sport aveva in corpo prima che arrivasse il grande pettine.
Cosa sta succedendo
In queste settimane assistiamo al grottesco tentativo dei vertici della Premier League di salvare la stagione in corso. Il massimo campionato inglese è divenuto, dagli inizi degli anni duemila, la pietra angolare del calcio contemporaneo. 5,4 miliardi di euro è l’ammontare degli incassi che la Premier si attendeva nel 2020 e di questi più di un quinto è messo a rischio dallo stop al campionato (1,2), per stessa ammissione del ceo Richard Masters, mentre inestimabili sarebbero le perdite subite da tutto l’indotto.
Javier Tebas, padronissimo della Liga spagnola, ha dichiarato che il giro d’affari del campionato spagnolo potrebbe dimezzarsi se le conseguenze della pandemia dovessero indurre all’interruzione. Il sito Sportintelligence ha tentato di ipotizzare le perdite dei massimi club inglesi: se lo United rischia di veder andare in fumo 116 milioni di sterline tra diritti tv, marketing e botteghino, non va meglio al City (109), al Liverpool virtuale campione (102) o al Chelsea (91).
Greg Clarke, chairman dell’FA e vice presidente FIFA, ha puntato l’attenzione verso il calcio di provincia, il quale rischia un vero e proprio ‘collasso’, dove molte comunità locali rischierebbero di perdere la propria squadra del cuore. La Lega di serie A, né la FIGC hanno sinora esplicitato seriamente il rischio economico che il calcio italiano sta correndo.
De Laurentiis, insieme a Lotito il sostenitore di un immediato ritorno agli allenamenti, ha per ora messo in cassa integrazione tutti i dipendenti non sportivi della società. Miseramente fallito il tentativo di una concertazione sindacale tra l’AIC e la Lega, al contrario di quanto accaduto in Francia. Umberto Calcagno, vice-presidente AIC, ha addirittura parlato di ‘proposta vergognosa ed irricevibile‘ mentre il presidente stesso è stato accusato dai più di aver mantenuto incoerenza nella gestione della crisi, rifiutando un accordo e allo stesso tempo rimanendo inamovibile sulla ripresa degli allenamenti prima e del campionato poi.
Diversi club italiani e esteri, come Juventus, Barcellona o Roma, hanno comunque raggiunto con successo un accordo con i propri tesserati, non liquidando diverse mensilità di stipendio e permettendo così alle casse di rifiatare.
L’UEFA, riunitasi lo scorso 23 aprile, ha al contrario chiesto che entro il 27 maggio le singole federazioni comunichino se e come terminare i campionati, improrogabilmente entro il 2 agosto. In quel mese si svolgerebbero quindi le coppe europee, con uno stravolgimento della stagionalità del calcio che non ha precedenti. In Germania diversi club hanno ripreso gli allenamenti seguendo nuovi protocolli di sicurezza, in attesa di una vicina ripresa del campionato.
Pensiamo a qualche proposta da lanciare a questo mondo, conservando l’impostazione per cui questa crisi non ha fatto emergere nuovi problemi, ma semplicemente messo in luce quelli che già esistevano, in tutti gli aspetti della società incluso lo sport.
Il dibattito sull’eventuale ripresa dei campionati non ci interessa: un calcio senza tifosi e senza merito sportivo sarebbe uno spettacolo monco di una tristezza indicibile. Mentre scriviamo il premier francese Edouard Philippe, riferendo all’Assemblèe nationale ha di fatto imposto alla Ligue 1 di interrompere la stagione, mentre i capibastone della nostra Serie A bisticciano come bambini arriva la notizia che Paulo Dybala è risultato ancora positivo al reagente che traccia la presenza del Sars-CoV-2, ponendo un serio interrogativo sulla possibilità che riprendano gli allenamenti.
La nostra previsione è che la Serie A non riprenderà, troppe sovrastrutture sentimentaliste nel nostro Paese perché accada, mentre Bundesliga e Premier League dispiegheranno ogni mezzo per poter concludere la stagione.
Mentre il mondo intero ha squarciato il velo di Maya durante l’isolamento, tentando di comprendere quali aspetti del mondo precedente possano, e anzi debbano, essere ripensati per il futuro, il calcio sembra non avvertire questa necessità. Pensiamo a qualche proposta da lanciare a questo mondo, conservando l’impostazione metodologica di Buttafuoco per cui questa crisi non ha fatto emergere nuovi problemi, ma semplicemente messo in luce quelli che già esistevano, in tutti gli aspetti della società incluso lo sport.
Bilanci così fragili: Salary Cap e mercato più breve
Un club vive essenzialmente di tre grandi fonti di reddito: il botteghino, il marketing ed il riconoscimento pro-quota dei proventi dai cc.dd. ‘diritti tv’ che le singole leghe erogano ai club. Simmetricamente, le principali voci di spesa sono due: il monte ingaggi dei calciatori e dei dirigenti ed il budget per la compravendita sul mercato dei cartellini.
Pur tenendo fuori dal discorso l’assai eludibile impianto regolatorio del Financial Fair Play, sappiamo bene che una squadra è considerata ricca per due ragioni: o perché fortemente in grado di generare ricavi commerciali—si veda l’esempio delle spagnole—o perché continuamente sottoposta ad iniezioni di capitale, seppur simulate da accordi ‘in-house’ tra i marchi dei proprietari (eg Inter, PSG, City per citarne alcuni) e le squadre detenute.
Abbiamo per anni lodato un sistema di gestione ultra manageriale che aveva condotto i più grandi club del mondo a divenire potenze commerciali miliardarie, e ci siamo svegliati nella triste realtà in cui i costi sono insopportabili ed i ricavi molto più aleatori di quello che si credeva.
Ebbene questa crisi ha fondamentalmente fatto emergere tutta la fragilità del sistema: i club seguitano a corrispondere stipendi mostruosi agli atleti e a spendere cifre mai viste prima sul mercato a fronte di incassi che stiamo assistendo essere molto più incerti di quello che credevamo. Tutto ciò è sotto gli occhi di tutti e non necessita di essere suffragato dai dati: se negli anni ’80 il calcio, soprattutto con la spinta del Milan berlusconiano, era entrato nella sua fase ‘moderna’, quella ‘contemporanea’ trainata dalle spese inglesi ha annacquato completamente il sistema generando un meccanismo inflattivo contro cui poco possono né la decaduta Serie A né le squadre medie dei massimi campionati francese, tedesco o spagnolo.
Abbiamo per anni lodato un sistema di gestione ultra manageriale che aveva condotto i più grandi club del mondo a divenire potenze commerciali miliardarie, e ci siamo svegliati nella triste realtà in cui i costi sono insopportabili ed i ricavi molto più aleatori di quello che si credeva. Si pensi al caso dell’Athletic Bilbao considerato una mosca bianca nel panorama: 188 milioni di saldo positivo generati dalla prudente e sana gestione dei conti ma, soprattutto, dal suo manifesto geopolitico nel reclutamento dei giovani della cantera che sono i titolari del futuro.
Non abbiamo una soluzione pratica per modificare un sistema considerato fino a ieri un modello da seguire—quante volte si è sentito dire che la Serie A deve a tutti i costi copiancollare le strategie marketing della Premier—ma una soluzione politica: tuttoil volume d’affari del calcio deve essere contingentato per legge, introducendo un cap massimo alle spese per i salari e rivoluzionando le modalità di acquisto e prestito dei cartellini.
“Credo che questa crisi andrà avanti per qualche anno dal punto di vista socio-economico, ma rappresenta una grande opportunità per provare a ritrovare i valori del passato. Dovremo essere bravi noi a ricostruire attorno a un calcio più umano. Sarà un calcio più povero e questo potrà aiutarci a ripartire con un mondo calcistico più equo”.
Queste sono parole del presidente del Cagliari Tommaso Giulini, il quale si è detto completamente persuaso dall’introduzione di un sistema di tetto salariale per gli stipendi dei calciatori e di un mercato più breve e meno potente. Su queste colonne abbiamo più volte approfondito il dominio dei procuratori e degli intermediari nell’attuale mercato.
Una finestra più breve per gli scambi potrebbe minare il peso specifico di questo insopportabile fardello dando nuovamente centralità alle società (si pensi agli acquisti ‘a parametro zero’ che includono comunque il versamento di diversi milioni per le commissioni agli intermediari che hanno curato l’operazione). Un simile impianto andrebbe ingegnerizzato nel dettaglio, e francamente non si vede occasione migliore di questa pausa di riflessione per poter almeno immaginare un sistema alternativo.
Un sistema di scambio e compravendita dei cartellini modellato sulle leghe professionistiche nordamericane potrebbe rappresentare un serio rischio per il calcio europeo, comportando una forbice salariale tra top player e giocatori ordinari già oggi troppo estesa. Si può immaginare un meccanismo regolamentare simile al salary cap anche per i trasferimenti, sia in prestito che definitivi, limitando per legge il budget stagionale. Tutto questo andrebbe contornato da una oggettiva ed imparziale valutazione peritale del valore dei cartellini, onde evitare soluzioni contabili creative pur di iscrivere una plusvalenza a bilancio.
Ben venga l’occasione per istituire un’agenzia di vigilanza super partes ed autonoma dal sistema federale nazionale e UEFA, che operi con un mandato totale di sorveglianza sui costi e sulle entrate dei singoli club, con potere di irrorare sanzioni e sospensioni dell’operatività. Se il FFP europeo ha significato enormi costi di transazione che hanno mortificato la crescita dei club medi a favore dei grandi, con norme poco chiare e aggirabili, un sistema decentralizzato avrebbe il merito di vigilare a livello nazionale sull’operato dei club, residuando all’UEFA il compito di recepire e ratificare le decisioni intraprese nei singoli paesi.
Meno calcio, più calcio
Il ricatto morale dei ricavi TV ha imposto negli ultimi venti anni un calendario di calcio divenuto ormai insostenibile. Se una squadra raggiunge le fasi finali delle coppe europee e nazionali un atleta può trovarsi a disputare anche settanta partite in una stagione includendo le nazionali. Mentre i grandi club europei e l’UEFA architettano una Superchampions con gironi da 8 squadre—128 partite in più a stagione—con il conseguente immiserimento dei campionati nazionali, in Europa si discute da anni nel merito di poter ridurre a 16 o 18 squadre i grandi campionati nazionali.
Appassionati che tornerebbero ad essere tifosi e non meri consumatori di un flusso continuo di sport, campionati di gran lunga più competitivi ed equi, sistema che diverrebbe di colpo più sostenibile di quanto sia oggi.
Il razionale dietro questa scelta sarebbe non quello, responsabile e condivisibile, di conferire maggior competitività alle competizioni, bensì l’inquietante obiettivo di liberare diversi slot di calendario per questi nuovi format. Ebbene è giusto schierarsi dal principio contro una simile programmazione. Tifosi vittime di un calcio-spettacolo perenne, ruolo degli stadi e dei suoi frequentatori subalterno alla programmazione TV, possibilità di mortificare le stesse prestazioni sportive alterando i naturali tempi di recupero ci vedono contrari per principio.
La nostra tesi è di semplice esposizione: meno calcio, più calcio. A giustificare ed avvalorare le teorie sovraesposte si deve innanzitutto immaginare una stagione più equilibrata, con un numero complessivo di partite da ridurre di un quarto, che porterebbe il volume d’affari a comprimersi di conseguenza. Appassionati che tornerebbero ad essere tifosi e non meri consumatori di un flusso continuo di sport, campionati di gran lunga più competitivi ed equi, sistema che diverrebbe di colpo più sostenibile di quanto sia oggi.
Il tanto vituperato Tavecchio, e a ragione, definiva la serie A a 18 squadre ‘la madre di tutte le riforme’. Un primo risultato è avvenuto sotto la guida di Gravina: la modifica dell’art. 49 delle Noif (Normative interne federali) a partire dal 2019/2020 ogni Lega (Serie A, B e C) può decidere in maniera autonoma il format del proprio campionato. Restiamo in attesa di ulteriori decisioni politiche perché questo avvenga. Riteniamo non sia casuale che il decadimento della Serie A sia coinciso con l’introduzione, in quella folle stagione di fallimenti, della Serie A a 22 squadre. Non la ragione, ma una concausa col proprio peso specifico.
Con meno calcio torneremmo a respirare un calcio più puro, con un netto beneficio per le stesse TV che potrebbero offrire uno spettacolo più degno di partitacce del monday night.
L’enorme questione diritti TV da sciogliere, con Mediapro che pre-pandemia era ancora in corsa per l’appalto di un canale unico della Lega italiana e simili fenomeni in corso in altri grandi campionati, i danari da spartirsi con criteri ancora da stabilire, il ruolo delle superpotenze da mettere a sistema con i progetti di superleghe europee, modalità di retrocessione/promozione da definire. Sono diversi i punti da smarcare ma la proposta politica rimane per noi una necessità prioritaria.
Il sistema intero godrebbe di un nuovo corso virtuoso: pensiamo all’osceno fenomeno del ‘paracadute’ economico per le squadre che retrocedono, uno stimolo all’azzardo morale di tornare scientemente in Serie B. Con meno calcio torneremmo a respirare un calcio più puro, con un netto beneficio per le stesse TV che potrebbero offrire uno spettacolo più degno di partitacce del monday night.
Si vede in tutta evidenza l’urgenza di rimodulare i calendari per il futuro: qualora il mefistofelico piano Uefa andasse in porto, con le coppe agostane, nulla è dato sapere su come i signori intendano iniziare la prossima stagione, con effetti a catena che si ripercuoterebbero fino al mondiale invernale in Qatar nel novembre del 2022. Nodi che non si possono sciogliere allo stato.
I tifosi nelle società
“Dopo mesi di lavoro e ascolto, stamattina la Commissione cultura della Camera ha dato il via libera a un emendamento contenuto nel Ddl collegato sport che introduce forme di partecipazione popolare e azionariato diffuso nelle società di calcio”
Così parlava il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Simone Valente lo scorso giugno, quando annunciava entusiasticamente il via libera alla costruzione di un nuovo quadro normativo per la partecipazione dei tifosi alla compagine sociale delle società sportive. «L’emendamento—aggiunse Valente—vuole dare il via a un percorso culturale diverso nel calcio professionistico, che favorisca la coesione sociale e la partecipazione dal basso dei tifosi nella vita dei club, avendo ben presente la realtà italiana».
I due grandi parametri europei sono le squadre spagnole e tedesche. Arduo riassumere il contesto storico che ha portato alla ‘regola del 50%+1’ in Germania, dove la quasi totalità dei club—con le eccezioni storiche di Wolfsburg e Leverkusen, o le attuali Hoffenheim e Lipsia—prevede la presenza maggioritaria nel capitale dei tifosi. O in Spagna, con la Ley Deporte del 1990 e le sue sociedades anónimas deportivas, ad oggi peraltro solo quattro in Liga, istituto giuridico molto sofisticato inserito in quadro regolamentare ancor più complesso. O il supporters’ trust, come nel caso del FC United of Manchester in Inghilterra.
Il tema è estremamente affascinante e verrà sicuramente approfondito su queste pagine. Qui ci limitiamo ad una considerazione politica: la presenza dei tifosi-soci porta stabilità alle squadre, questa è l’unica certezza. Il campionato italiano è stato contrassegnato per 60 anni dal capitalismo familiare. Un modello vincente per quell’Italia ma assolutamente instabile ed inadeguato per quella attuale.
L’attualità è segnata da una Juventus trainata da un enorme conglomerato finanziario, unica in grado di generare sufficienti ricavi commerciali per competere in Europa, ma pesantemente esposta al debito. Una classe aspirazionale—Inter, Roma, Milan—impossibilitata dai parametri FFP ad investire, bloccata nel limbo di essere troppo ricca per non essere élite ma troppo povera per primeggiarvi. Pochi esempi virtuosi, se così possono definirsi, come Lazio, Atalanta e Napoli. Una copiosa classe media senza ambizioni, tante piccole la cui unica volontà è sopravvivere economicamente.
Aprire alla partecipazione al capitale dei tifosi sovvertirebbe questo paradigma: la comunità dei tifosi sarebbe direttamente investita di fissare la direzione della squadra, potrebbe immettere nuovi capitali a necessità—per amore, non per investimento—, manterrebbe viva la fiamma dell’identità locale di un club, garantendone una perpetua sopravvivenza, scongiurando i fallimenti cui siamo tristemente abituati.
Dal punto di vista strategico i vantaggi sarebbero innumerabili: prezzi calmierati negli stadi ne garantirebbero davvero la piena capienza, con un visibile vantaggio per lo spettacolo televisivo e quindi la redditività; un nuovo principio di inclusività sociale e comunitaria, tale da rafforzare il brand e la sua esportazione. Il més que un club catalano, il miraggio miracoloso che il Barcellona ha compiuto negli ultimi 30 anni sarebbe potenzialmente raggiungibile da tanti altri club.
Un calcio più egualitario e giusto, ma anche più affascinante e remunerativo. Aver sbilanciato gli assetti proprietari a grandi potentati economici non ha portato alcun beneficio apprezzabile al mondo del calcio, ha svalutato la partecipazione, acuito la gentrificazione negli stadi, sminuito la passione. Può suonare come un’ucronia la nostra considerazione, in parte riduttiva e non articolata, ma siamo sicuri che la nuova pagina della storia del calcio deve includere e non lasciar fuori i tifosi.
Le iniquità sicuramente non finirebbero, al contrario potrebbero esacerbarsi. Se il sottostante di questo modello è la base tifosi socio-economica, inutile negare che migliaia di tifosi sassolesi non potrebbero competere con dodici milioni di juventini. I miracoli sportivi potrebbero essere più rari, ma la corsa competitiva alla gestione sportiva sarebbe stimolata. Andremo a fondo a questo tema, per ora ci si limita a fomentare il dibattito.
Poche ma incisive le nostre richieste al Pallone: volume d’affari ridotto tramite salary cap e mercato più breve, calendari più equilibrati, stagioni più corte, Serie A a 18 squadre per quel che riguarda l’Italia, così come un serio tentativo di far nascere un dibattito intorno alla necessità di includere i tifosi nella società. Il mondo di domani, ci ripetono gli esperti, va ripensato. Il mondo del pallone lo abbiamo ripensato così.
Foto copertina di Pedro Vilela/Getty Images: lo stadio Mineirao di Belo Horizonte, illuminato di verde speranza, quella che noi riserviamo per il futuro del calcio.