Morte, resurrezione e mito di Diego nella genesi della sua carriera da CT dell'Albiceleste.
In realtà, l’obiettivo numero uno sarebbe sempre lo stesso: il Cholo Simeone. Piace molto anche Pochettino, ma ha appena rinnovato col Tottenham. Ci sono le soluzioni Gallardo e Almeyda, che tanto bene stanno facendo in Sudamerica. Oppure un ritorno di fiamma: Tata Martino, Pekerman, Bielsa. Il presidente federale Tapia giura di aver contattato persino Guardiola, benché il catalano abbia smentito. Una sola cosa è certa: dopo l’esonero di Sampaoli, colpevole numero uno dell’inquietante spedizione ai mondiali russi, la nazionale di calcio argentina è senza un allenatore. Al momento, è affidata a uno stranissimo triumvirato, con l’ex laziale Scaloni primo allenatore e, come assistenti, Walter Samuel e il Payaso Aimar.
Ma è una situazione temporanea. L’Argentina, ormai da mesi, è a caccia di un allenatore. E sulla lista dei papabili è finito chiunque, tranne uno. Tranne l’uomo che c’è sempre, in Argentina, quando si parla di calcio. E che infatti non ha mancato di farlo notare. «Mi infastidisce che alcuni giornalisti non mi includano nella lista dei possibili Ct dell’Argentina. Mi dispiace che neanche i giornali mi tengano in considerazione, facendo i nomi di altri ex Ct della Selección, ma non il mio. È vero, ho un contratto di tre anni con la Dinamo Brest e ho dato la mia parola. Ma per la Selección io do la vita». Firmato: Diego Armando Maradona.
Diego – il cognome è pleonastico – smette di essere un calciatore il 25 ottobre del 1997. Sta giocando la partita più bella del mondo, un River-Boca di campionato, sul campo del River. Diego gioca male, e all’intervallo, col Boca sotto 1-0, viene sostituito: al suo posto Juan Román Riquelme, un diciannovenne di cui si sentirà parlare. Il Boca la ribalta e vince 2-1 e Diego è felice. Nessuno sa, probabilmente nemmeno lui, che quei 45 minuti sono stati gli ultimi della sua carriera da calciatore. Ma il 30 ottobre, il giorno del suo trentasettesimo compleanno, dice basta. «Me l’ha chiesto mio padre piangendo». Diego smette di essere un calciatore professionista. Ma è già un allenatore. Prima ancora di appendere gli scarpini al chiodo, vanta già una ventina di panchine in Serie A. Com’è possibile? Conviene fare un passo indietro. Anzi, due.
I mondiali di USA ’94 per Diego finiscono subito dopo la seconda partita, quella contro la Nigeria. L’Argentina vince anche grazie a una sua prestazione super, arricchita dall’assist per il 2-1 finale di Caniggia. Ma nel post-partita, l’infermiera più famosa della storia del calcio lo prende per mano e lo porta al controllo anti-doping. Diego viene squalificato per la seconda volta in carriera. Ma stavolta non è per la cocaina. I prodotti dimagranti che il suo dietologo e fisioterapista, Daniel Cerrini, gli aveva prescritto per rimetterlo in sesto e fargli perdere oltre dieci chili in un paio di mesi contengono efedrina e altre quattro sostanze proibite. Diego passa i giorni successivi al controllo antidoping nella stanza d’albergo di Dallas dove in teoria dovrebbe giocare la prossima partita contro la Bulgaria. Sta aspettando la decisione sul suo futuro e continua a chiedere a Grondona, decano del calcio argentino e vicepresidente della FIFA, un aiuto «perché me lo deve».
Ma nemmeno Grondona stavolta può salvarlo. E la FIFA, che aveva fatto carte false per assicurarsi la presenza di Diego ai mondiali americani, compreso forzare il suo trasferimento illegittimo dal Napoli al Siviglia, stavolta gira la testa dall’altra parte. La squalifica è pesantissima: 15 mesi senza giocare. Ma non per forza senza allenare. «Me cortaron las piernas», dirà Diego, mi hanno tagliato le gambe. E poi: probabilmente mi hanno tolto dal calcio definitivamente, perché non penso di volere un’altra rivincita. Ma è in palese bluff. Diego cova una rabbia dentro – contro la FIFA, contro il mondo del calcio, contro l’ordine costituito – che è da sempre il sale della sua vita.
Vuole una rivincita e la cerca in panchina. Tre mesi dopo lo chiama il Deportivo Mandiyú, modestissima squadra da alcuni anni in Primera argentina. Diego accetta e diventa un allenatore. L’esordio è il 3 ottobre 1994, in casa contro il Rosario Central. Diego ha solo 34 anni. Non ha ancora il patentino e infatti in panchina ci va Carlos Fren, suo ex compagno all’Argentinos Juniors. In porta c’è Sergio Goycochea, il pararigori di Italia ’90. Diego la vede in tribuna, camicia bianca e cravatta maculata, di fianco al fratello Lalo. Un po’ come adesso quando vede le partite dell’Argentina ai mondiali: ciò che succede in campo è secondario, lo show è lui. Diego insulta l’arbitro in tutti i modi, lo chiama per nome («Oliveto») oppure viejo (vecchio), con una confidenza che gli è concessa solo in quanto miglior giocatore di tutti i tempi.
Immaginatevi la distanza tra il più grande artista della storia del gioco e i suoi discepoli, una banda di onesti manovali del pallone. Come se Picasso insegnasse alle scuole medie. Oppure la distanza tra il Diego che da calciatore non si allenava mai e il Diego che invece deve dare l’esempio, presentarsi agli allenamenti prima degli altri e andar via per ultimo. Non a caso, forse, l’avventura finisce presto. Si dimette per incomprensioni con la dirigenza dopo 12 partite e un bilancio di una vittoria, sei pareggi e cinque sconfitte. Lascia una squadra penultima che a fine anno retrocederà.
L’esilarante esordio da allenatore.
Diego però ha ancora sete di rivincita. Poco dopo la fine della sua esperienza con il Mandiyú arriva una nuova chiamata, stavolta di quelle grosse. A cercarlo è il Racing de Avellaneda, una delle cinque grandi d’Argentina. Diego, che ormai può stare in panchina, accetta. Si toglie anche uno sfizio mica da ridere: vince 1-0 alla Bombonera, contro il suo Boca. Ma pure stavolta non mancano gli episodi controversi, à la Diego, diciamo. Nel derby contro l’Independiente, per esempio, si fa espellere perché, per ottenere l’attenzione del guardialinee che tardava nell’effettuare una sua sostituzione, gli spruzza un po’ d’acqua dalla sua bottiglietta bagnandogli il collo.
Anche qui l’avventura si interrompe dopo due mesi e il bottino è piuttosto magro: due sole vittorie in undici sfide. La rivincita col calcio tarda ad arrivare. Il sogno di Diego è un altro: fare l’allenatore del Boca. Ma ci sono due problemi. Il primo è lo stipendio richiesto da Diego, che è troppo alto. Il secondo è che il Boca, sotto la guida di Silvio Marzolini, sta andando molto bene e la dirigenza non ha intenzione di esonerarlo. Diego capisce, vede che la squalifica di 15 mesi sta volgendo al termine e decide di tornare al Boca, sì, ma come giocatore. La sua ultima avventura dura due anni e una trentina di partite. Fino al derby col River, la sostituzione con Riquelme e l’addio al calcio, stavolta definitivo.
Tra i quattro mesi passati sulla panchina del Racing e la successiva avventura da allenatore passano 13 anni. Dal marzo 1995, quando si dimette da allenatore dell’Academia, al 28 ottobre 2008, data in cui viene scelto come nuovo Ct della nazionale argentina. Tredici anni, per una persona normale, sono un pezzo di vita significativo. Per Diego, sono una vita intera. In questi tredici anni, Diego fa il commentatore sportivo, entra nella dirigenza del Boca, forma un sindacato dei calciatori, torna a giocare da professionista, si ritira di nuovo, fa uscire Yo soy el Diego, la sua fortunatissima autobiografia, viene ricoverato in terapia intensiva in Uruguay per ipertensione arteriosa, conosce per la prima volta il figlio Diego Jr in un campo da golf a Fiuggi, arriva a pesare 120 chili, si trasferisce a Cuba per intraprendere un percorso di riabilitazione dalla cocaina con i medici di Fidel Castro, organizza la sua partita di addio al calcio. quattro anni dopo il suo ritiro, con un Argentina vs Resto del Mondo alla Bombonera, divorzia dalla sua storica compagna Claudia dopo tredici anni di matrimonio.
Viene di nuovo ricoverato d’urgenza per ipertensione e cardiomiopatia aggravata dall’uso di cocaina («Ero morto», dirà anni dopo), conduce La noche del Diez, un programma che tiene incollata alla televisione quasi tutta l’Argentina, guida le proteste di piazza anti-USA viaggiando per tutto il Sudamerica su un treno con le nonne di Plaza de Mayo, Hugo Chavez, Evo Morales e gli altri lìder socialisti del continente e con indosso la maglietta “STOP BU卐H”, viene di nuovo ricoverato e torna a un passo dalla morte, stavolta per problemi legati all’alcol.
Si vede pignorare due Rolex dalla polizia italiana poco prima di una partita di beneficenza e infine viene nominato nuovo allenatore della nazionale argentina di calcio. Una scelta che spiazza tutti. Ma è il regalo che gli doveva Grondona. Il saldo con cui sdebitarsi per quel pomeriggio di Dallas. E così, nonostante la scarsissima esperienza e la delicatezza del ruolo, nonostante tutto facesse pensare che finalmente venisse concessa la chance della vita a Carlos Bianchi, a quattordici anni da USA 94, Diego Armando Maradona torna in nazionale.
Il giorno della presentazione, Diego è seduto al centro, tra Grondona e Carlos Bilardo, l’allenatore dell’Argentina campione del mondo nel 1986. Bilardo, che è stato nominato come assistente, è evidentemente una presenza ingombrante: la relazione tra i due sarà a dir poco conflittuale e Diego non mancherà di farlo notare né durante (“Bilardo l’hanno messo qui per vedere se sbaglio”) né dopo, quando accuserà ferocemente il narigón di aver complottato contro di lui per mandarlo via, contro la volontà di Grondona. In generale, ci si affida molto alla mistica del 1986, visto che nello staff c’è posto anche per Hector Enrique, quello che gli argentini ironicamente chiamano l’autore del “passaggio del secolo”, cioè colui che contro l’Inghilterra diede la palla a Maradona a cinquanta metri dalla porta prima che questi saltasse tutti e segnasse il gol più bello della storia.
E poi Diego si inventa un incarico particolare, quello di direttore dei rapporti con la stampa, mai utilizzato prima né più utilizzato poi, per tale Fernando Molina. Il quale ha un unico merito: essere il fidanzato di sua figlia Dalma. L’esordio dell’Argentina di Diego è contro la Scozia. Sarebbe un’amichevole, ma Diego ha messo subito in chiaro le cose, fin dalla conferenza di presentazione,«la mia nazionale non conosce amichevoli, solo partite internazionali». E poi si gioca contro lo stesso avversario e nello stesso stadio (Hampden Park) in cui Diego, quarant’anni prima, aveva segnato il suo primo gol con l’Albiceleste.
La prima Argentina di Diego si schiera con Carrizo in porta, Zanetti (a cui Diego toglie la fascia di capitano per darla a Mascherano), Demichelis, Heinze e Papa in difesa, Maxi Rodriguez, Mascherano, Gago e Jonas a centrocampo, Lavezzi e Tevez davanti. Finisce 0-1, con gol di Maxi Rodriguez. Tre giorni dopo, Diego vola a Marsiglia per affrontare la Francia, e vince di nuovo. Stavolta finisce 2-0 con rete di Jonas e un golazo di quello che all’epoca sembra ancora l’erede di colui che in quel momento lo allena, Lionel Messi. Diego nel post-partita esulta ed è contento come se per lui, appunto, non fosse un’amichevole. Vive la storia in movimento ed è intenzionato a riscriverla, dopo averlo fatto da calciatore, anche da allenatore. L’obiettivo è l’unico trofeo che garantisce l’immortalità: la coppa del mondo. Ma per vincerla bisogna prima qualificarsi.
La nazionale ereditata da Diego ha vinto una sola partita ufficiale negli ultimi dodici mesi e nel girone di qualificazione, che in quel momento è giunto a metà del suo percorso, non è messa benissimo, ma nemmeno troppo male. Staccare il biglietto per il Sudafrica, dove fra un anno si disputeranno i mondiali, non sembra quindi un’impresa per una Selección in ritardo, sì, sulla sua tabella di marcia, ma non certo tagliata fuori. Diego comincia come meglio non potrebbe: 4-0 al Venezuela con un gioco offensivo e spumeggiante, un Messi in stato di grazia e un Monumental che lo acclama come un salvatore della patria tornato da un lungo esilio. Ma tre giorni dopo è già tempo di drama: Diego piglia 6 gol dalla Bolivia, l’Argentina incassa la sconfitta più larga della sua storia e le prime, inevitabili critiche cominciano a fioccare.
Diego ha dalla sua il tempo, ma sei gare non sono comunque molte e la classifica comincia a non sorridere. Si torna a giocare tre mesi dopo e, per la delicata sfida contro la Colombia, Diego tira fuori tutta la sua anima resultadista: difesa a 3, centrocampo folto e poco spazio allo spettacolo. Gli va bene: l’Argentina non gioca un gran calcio ma vince 1-0, con gol su calcio d’angolo del Cata Díaz. Diego respira, ma tre giorni dopo è di nuovo nel baratro: in Ecuador, Tevez sbaglia un rigore nel primo tempo e l’Argentina crolla nella ripresa, perdendo 2-0. La stampa lo massacra, Bilardo e Grondona non lo proteggono e anche Diego comincia a sparare a salve. Prima della partita col Brasile inscena una polemica inutile sul Monumental, uno stadio, secondo Diego, non abbastanza caldo e vicino alla squadra. Si impone perché il match con la Seleção si giochi a Rosario, e ci riesce. Ma poi in campo va una squadra sola, e non è la sua. Il Brasile vince 3-1 e inguaia Diego, ormai sulla graticola. Pochi giorni dopo, in Paraguay, l’Argentina gioca una partita raccapricciante, perde 1-0 e si ritrova con un piede fuori dal mondiale. Diego è ormai travolto dalla tensione e nel post-partita sbotta contro i giornalisti: «A me non mi vogliono. Con molti di voi litigo da quando ho 15 anni, adesso ne ho 48. Un po’ di esperienza ce l’ho, per affrontarvi di petto, che dici? Perché sai come funziona, la ruota gira. La ruota gira e quando l’Argentina si qualificherà, gli stessi che mi criticano risaliranno sul carro di Maradona».
Tra il Sudafrica e il divano di casa, tra la gloria e la vergogna, tra la rivincita e la condanna, ci sono altre due partite. In casa contro il Perù e a Montevideo contro l’Uruguay. L’Argentina è quinta: al momento spareggerebbe con una centramericana, ma non è certa nemmeno di quello. La vigilia della sfida al Perù è un’attesa da giudizio universale. Diego – non che non sia abituato – è solo contro il mondo. Poche settimane prima, si è giocata un’amichevole (rectius: una partita internazionale) tra un’Argentina formata solo da giocatori militanti in patria e il Ghana. L’Argentina vince 2-0, con doppietta di un 36enne con una vita da film: Martín Palermo. Diego, un po’ per scaramanzia un po’ per riconoscenza, decide di convocarlo per le due gare decisive. Per il match col Perù si torna a giocare al Monumental. L’Argentina deve vincere sì o sì, come dicono a Buenos Aires, e ha la fortuna di affrontare una squadra invece già condannata.
Dopo un primo tempo senza spunti, è un giovanissimo Higuaín a sbloccarla in avvio di ripresa. Ma poco dopo, sul Monumental comincia a scendere un diluvio torrenziale, una tempesta di proporzioni omeriche che non distingue più gli uomini dagli eroi. E sull’Argentina comincia a piovere anche metaforicamente quando, al 90’, al termine di una mischia da gollonzo della Gialappa’s Band, il Perù trova il pareggio con Rengifo. In quel momento è come se si fermasse il tempo. L’Argentina è a un passo dal mancare la qualificazione ai mondiali. Diego sta per rientrare nella storia della sua amata Selección, ma stavolta dal lato sbagliato. E invece qualcuno, lassù, vuole farlo risorgere di nuovo. E all’ultimo secondo di recupero, Martín Palermo, entrato nella ripresa, tocca il primo pallone della sua partita ma lo tocca dentro la porta. È 2-1 per l’Argentina.
Tutta la mistica argentina in questo video.
Diego plana sulla piscina del Monumental come se avesse quarant’anni in meno e fosse ancora un bambino che ha due sogni, giocare un mondiale e vincerlo. Il Perù corre a battere a centrocampo e Juan Manuel Vargas, l’esterno della Fiorentina, fa quello che facevamo noi quando giocavamo al campetto, cioè calcia direttamente da centrocampo e piglia in pieno la traversa da quasi 60 metri. Non c’è verso. Il destino ha scelto l’Argentina e sceglierà allo stesso modo anche tre giorni dopo, a Montevideo, quando l’Albiceleste, pur soffrendo, vincerà 1-0 con gol di Bolatti. Per Diego è la fine di un incubo. È, nel suo piccolo, la rivincita che stava cercando. Quando va in conferenza stampa non ha più i freni inibitori. Per prima cosa ringrazia i suoi giocatori e la gente argentina. Poi, alla prima domanda, va come un fiume in piena: «Te l’ho detto: io mi ricordo le cose, hermano. A quelli che non ci hanno creduto o che non ci credevano – chiedo scusa alle signore – que la chupen, que la sigan chupando. Io sono bianco o nero. Grigio non lo sarò mai nella vita. Voi mi avete trattato come mi avete trattato? Continuate a succhiare. E ora la prossima domanda.»