Calcio
08 Marzo 2020

La maledizione di Zielinski

Tevez urla, Maradona ride, Román osserva: il Boca torna campione, nella notte dei campioni.

Non è un film hollywoodiano, non c’è Johnny Depp o Keith Richards improvvisato in un improbabile cameo. Ma i pirati c’entrano eccome. Era il 26 giugno 2011 quando un River Plate, in crisi tecnica da un lustro, pareggiando al Monumental contro il Belgrano conosceva per la prima volta l’inferno della B Nacional. L’allenatore del Pirata allora era Ricardo Zielinski, carnefice della Banda e protagonista involontario della storia. Da quel momento la rinascita è stata necessaria quanto repentina e le due Libertadores in bacheca, l’ultima vinta contro il Boca è lì a dimostrarlo. La chiamarono Súperfinal, perché in Argentina tutto è calcolato con gli occhi entusiasti da parte di coloro che hanno ancora il diritto di emozionarsi di fronte alle logiche imprevedibili del calcio.

 

Ed ecco che, come per magia anche il Clásico diventa Súper, e la Liga di conseguenza. Ma questa volta sfidiamo davvero chiunque a sostenere che non sia stata una Súperliga, come il titolo istituzionale suggerisce. Dopo un verano intenso e una pausa inopinatamente prolungata molte cose sono cambiate. A La Boca in particolare, un terremoto societario ha visto l’avvicendamento alla presidenza del club, con le logiche implicazioni tecniche. Fuori il presidente Angelici, il DS Burdisso e l’allenatore Alfaro, dentro il nuovo líder Amal, la leggenda Juan Román Riquelme e Miguel Ángel Russo in panchina. Dal punto di vista tecnico la partenza di Mac Allister sembrava un danno incalcolabile e la gestione farraginosa del caso Tevez non promettevano niente di incoraggiante per il nuovo corso Xeneize.

 

Il capitano è rimasto a lungo imbrigliato nel limbo societario, senza che fosse chiarita la posizione del club azul y oro nei suoi confronti. Prolungamento del contratto o addio al calcio le due opzioni non propriamente equivalenti di fronte all’Apache, reo anche di non aver brillato negli ultimi cicli de La Mitad Más Uno.

 

Anche da parte del Millio qualcosa è cambiato, non tanto a livello tecnico, dove la continuità assicurata da Gallardo è elemento più che sufficiente ad assorbire anche la perdita di un giocatore importante come Exequiel Palacios, ad ogni modo in odore di addio da un po’. Ma a livello mentale erano prevedibile strascichi importanti in seguito alla sciagurata notte di Lima. Non poteva passare nell’indifferenza una Libertadores persa in 3 minuti nel recupero di una partita che aveva già lasciato sganciare le gabbiette di più di qualche champagne a Buenos Aires. Una improvvisa e imprevedibile fragilità che si è manifestata in tutta la sua potenza ieri notte, in un’ennesima finale.

 

River Plate Libertadores
La Libertadores sfumata a Lima, Peru, curiosamente l’unica finale della massima competizione internazionale diretta da Gallardo. Nelle finali 2015 e 2018 era stato sempre il vice Biscay a sedere sulla panchina della Banda, a causa delle squalifiche del Muñeco. (Photo by Raul Sifuentes/Getty Images)

 

Alla ripresa della Súperliga i 3 punti di vantaggio, con 6 partite al termine, del River sul Boca, non erano una distanza di sicurezza, ma certamente rappresentavano un tesoretto discretamente gestibile. E dopo le 4 vittorie consecutive di entrambe le squadre in altrettante partite, e il vantaggio immutato a due giornate dal termine, sembrava che ormai il River Plate dopo sei anni avesse finalmente riaperto la bacheca del Monumental per un titolo nazionale.

 

Anche perché dopo aver attraversato indenne le forche caudine di Independiente ed Estudiantes, vincendo da visitante alla Doble Visera e a La Plata il più sembrava fatto. Invece un balbettante pareggio interno contro il Defensa y Justicia – agguantato solo di rigore nella seconda frazione – aveva apparecchiato il finale meno scontato e più temuto dalla Banda.

 

Con stati d’animo diametralmente opposti, a Tucuman il River Plate tra tensioni e pochi sorrisi doveva conquistare una vittoria contro l’Atletico per agguantare il titolo, mentre il Boca in una Bombonera in festa salutava principalmente il suo grande idolo. Sì, perché se ancora credete di poter sfuggire alla mistica a queste latitudini, avete sbagliato completamente presupposto. Il calendario, la sorte, o quello a cui volete credere, aveva previsto l’incredibile ritorno alla Bombonera, e non da spettatore ma da avversario, dell’unico Diego proprio all’ultima giornata.

 

Maradona, alla guida del suo Gimnasia, miracolosamente salvato da Diós prima dell’ultima giornata, più che la vittima sacrificale del Boca, sembrava il regalo più bello alla gente Xeneize, francamente disillusa nella speranza di una vittoria del titolo, ma quanto mai elettrizzata dall’abbraccio del Pelusa.

De jugador del pueblo a jugador del pueblo, de diez a diez, un’investitura che suona come un oracolo nella notte di Buenos Aires.

E così davvero l’attenzione si sposta sul Barrilete Cosmico: piovono striscioni, cori e pianti; come in una lunga processione tutti i giocatori del Boca Juniors dedicano un abbraccio a Diego prima dell’inizio delle partita e Maradona ricambia sempre con incredibile affetto. Poi arriva Carlitos. Lui questa partita non doveva nemmeno giocarla, in bilico tra rinnovo e addio, la consapevolezza forse di avere già dato il meglio e magari solo l’esigenza di assicurare una figura carismatica, ma non più un campione.

 

Invece il lavoro, il sacrificio estivo dell’Apache hanno pagato e sotto la guida Russo è tornato a essere pilastro insostituibile degli Xeneize. Cinque gol e due assist in cinque partite sono la carta d’identità con cui il ritrovato campione abbraccia il padrone della maglia numero 10 che indossa. Un abbraccio che sfoga in un bacio, dove dentro ci sono molte cose non dette. De jugador del pueblo a jugador del pueblo, de diez a diez, un’investitura che suona come un oracolo nella notte di Buenos Aires.

 

Tevez Maradona
Il bacio tra Diego e Carlitos. Sì, non era sulla guancia. (Photo by Marcos Brindicci/Getty Images)

 

Con perfetta sincronia le due partite iniziano con scene di perfetta normalità che in queste ore difficili per il vecchio continente strappano sorrisi e un pizzico di malinconia. Anche se le radioline sono sostituite dagli smartphone, gli auricolari sugli spalti della Bombonera portano le medesime reazioni di decenni fa. La contemporaneità dei campi, gli occhi incollati sul prato verde de La Boca, la testa e il pensiero nel nord-est argentino. E così capita durante un innocuo giro palla l’esplosione dei tifosi sfoghi decibel strappati a un gol che alzano il ritmo medio del coro della 12. Ha segnato l’Atletico.

 

A La Bombonera, il Boca spinge, spreca qualche occasione, ma la partita è vera e il Gimnasia lotta e corre come sempre da quando Diego è in panchina. L’illusione dura poco, a Tucuman Mati Suarez pareggia, ma lo scoramento è passeggero: in fin dei conti va bene anche così. Il Boca deve vincere in casa e non lo sta facendo. Il secondo tempo è confuso, ma il vantaggio è nell’aria. Cosa dicevamo a proposito della mistica? Un missile di Carlitos dal limite dell’area è l’ennesimo gol dell’Apache in questa frazione di campionato e l’urlo sotto la Doce è arte contemporanea in movimento per gli amanti dello sport.

 

Ormai è inevitabile: la partita si gioca per dovere di firma –  a dire il vero il Gimnasia rischia anche di pareggiarla – la testa di tutti è a Tucuman. Ma le notizie non arrivano. Anche negli sterili minuti di recupero della partita le facce sugli spalti sono tese come corde di violino, ma immobili. Non succede nulla. E non succede nemmeno al 50° ed è la notizia più attesa, allora può succedere davvero di tutto a La Bombonera.

 

maledizione di Zielinski
Tutto Carlitos nell’urlo che vale il titolo. Aveva dichiarato pochi giorni fa: “Boca no murió en Madrid”. L’Apache l’ha dimostrato. (Photo by Rodrigo Valle/Getty Images)

 

Il River Plate perde un campionato senza alcuna logica, inanellando un’altra cocente delusione che sommata alla Libertadores persa contro il Flamengo sembra emulare, a distanza di soli 3 mesi una dall’altra, il dramma del Milan a Istanbul e dell’Inter il 5 maggio. Come sempre impeccabile per stile e sportività a Gallardo rimangono solo i complimenti all’eterno rivale, e forse la consapevolezza di aver perso l’occasione per agguantare l’ultimo titolo che manca alla sua sconfinata bacheca Millionaria: probabilmente in estate saluterà Nuñez, ma sarà solo un arrivederci.

 

Abbiamo parlato spesso di eupalla, e se concordiamo con l’idea che la Súperfinal di due anni fa non abbia modo di essere redenta, sembra proprio che qualcosa di metafisico abbia riportato il sorriso a La Boca e rimesso le bocce ferme al punto giusto perché la sfida possa essere sempre e come sempre: pari.

 

È una notte che il calcio argentino difficilmente potrà dimenticare, e francamente anche noi. Forse perché il bacio tra Carlitos e Diego è destinato a restare, perché Román sorseggia nervoso il mate, impassibile e Mudo come sempre, e compone insieme agli altri due sul prato tutto ciò che si possa amare del calcio latino. O forse semplicemente perché ci ricorda che la capacità di questo sport di stupire prima di ogni cosa non finisce mai.

 

Come in un incubo, l’allenatore dell’Atletico Tucuman è Ricardo Zielinski, sempre lui, l’uomo che da Pirata è diventato Decano, ma che continua a essere la maledizione del River Plate. E in un momento così avevamo proprio bisogno di distrarci e sognare con le immagini di un calcio che non finisce sovente oltre la realtà e la comprensione.
Ancora e sempre, ¡Viva el Fútbol!

 

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