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Gianluca Palamidessi
19 Febbraio 2021
Non c’è nessun passaggio di consegne
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“That’s one small step for a man, one giant leap for mankind.” voce e lyrics di Neil Armstrong, il primo uomo ad aver messo piede sulla Luna. È il 20 luglio 1969, le 22.56.15 di Houston, Texas, quando il nativo di Wapakoneta, 9500 anime mal contate in Ohio, cambia la storia del mondo. In Brasile, più o meno nelle stesse ore della “conoscenza umana” della Luna, Edson Antes do Nascimento, al secolo Pelé, annota sul taccuino il millesimo gol della sua storia da calciatore. Il giorno dopo i quotidiani brasiliani, con la tipica flemma di quelle latitudini, escono con una prima pagina sobria:
«Uomo sulla Luna: già visto! Pelé, mai visto prima!»
Nel film diretto da Marco Tullio Giordana “La Meglio Gioventù” del 2003, uno dei due protagonisti, Nicola (Luigi Lo Cascio), trascorre le sue vacanze estive lavorando in una segheria in Norvegia vicino a Capo Nord. È l’estate di un anno cruciale della storia italiana: il 1966. Il 24 gennaio viene occupata la facoltà di Sociologia a Trento, un’anticipazione di quello che si vivrà nel 1968. Un mese dopo si insedia il terzo governo Moro, mentre a giugno l’Italia di Fabbri perde a Middlesbrough contro la Corea del Nord ed esce dal mondiale inglese. Per concludere, il 4 novembre il fiume Arno straripa in vari punti della città, allagando e modificando per sempre l’ecosistema urbanistico di Firenze.
Torniamo in Norvegia e andiamo avanti di tre anni nella linea del tempo. Stavanger, cittadina del sud ovest del paese. Una perla – sconosciuta ai più – incastonata tra fiordi e bellezze naturali mozzafiato e modeste occupazioni: pesca e falegnameria. Il 1969 è l’anno dell’uomo che sbarca sulla Luna, ma anche di un’altra prima volta. Nel Mare del Nord, a 180 km da Stavanger, ad Ekofisk, spunta fuori dal sottosuolo qualcosa di mai visto in quelle zone: il petrolio. Il più grande giacimento di tutto il continente. E qui la storia inizia ad assumere connotati differenti, non previsti.
Stavanger a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 si ritrova in mezzo a due fuochi. Abbandonarsi al lato oscuro degli idrocarburi o mantenersi fedele a sé stessa e alle sue peculiarità. Da zero a 100 in pochissimi secondi. Tutto fulmineo, tutto simultaneo. Tradizione e cultura, arte culinaria e natura, tra il Lysefiord e il Preikestolen, la terrazza naturale più incantevole del mondo oppure votarsi alla seconda via: l’energia.
Oslo, Bergen, Trondheim e all’improvviso ecco Stavanger, dal 1969 idealmente la capitale europea dei combustibili fossili e dell’energia. Un rombo su cui si poggia il cambio di marcia norvegese: economico, sociale e anche sportivo. Nota a margine. Dal 1980 Houston e Stavanger sono gemellate. La storia, poi, sa essere bizzarra. Nel 1972 proprio a Stavanger nasce Alf-Inge Håland, padre del più famoso Erling, attuale numero 9 del Borussia Dortmund e sensazione della new wave 20s del calcio norvegese.
Da sempre le discipline preferite dai norvegesi sono due: sci di fondo e sci alpino. Nel 1971 ad Oslo nascono due fenomeni che infiammeranno gli anni ’90 e gli albori degli anni zero, sulle piste del circo bianco con traiettorie spesso esiziali per i loro rivali. I loro nomi: Kjetil André Aamodt e Lasse Kjus. Anche chi non mastica di sci alpino, sa di chi stiamo parlando: nobiltà in scarponi da sci.
Quattro anni prima ad Elverum, meno di 150 chilometri da Oslo, nasce lo sciatore di fondo più dominante e vittorioso della storia: Bjørn Dæhlie. Il suo score recita dodici medaglie olimpiche (8 ori e 4 argenti), diciassette medaglie mondiali (9 ori, 5 argenti e 3 bronzi), 6 Coppe del Mondo tra il 1992 e il 1999 con appena 81 podi e 2 Coppe del Mondo Sprint. Onnipotente è forse riduttivo. Nello stesso periodo si affacciano sulla platea del fondo anche altri talenti del calibro di Thomas Alsgaard (classe 1972 e grande rivale di Dæhlie) e in misura minore Odd Bjørn Hjelmeset (1971), i fratelli Aukland (Anders 1972 e Jorgen 1975). Fisiologico, una delle solite e straordinarie generazioni dello sci di fondo norvegese.
Meno solito e fisiologico, e forse ancora più straordinario, è quello che succede dal 1988 fino al 2000 sul rettangolo verde. Ok, tra il 1936 e il 1938 c’è il bronzo olimpico alle Olimpiadi di Berlino e la partecipazione ai Mondiali di Francia. L’uscita al primo turno contro l’Italia del CT Pozzo però, aiuta poco a divulgare il verbo calcistico in quella fetta di terra. Lo sci, alpino e nordico, mantengono la supremazia nel cuore dei norvegesi almeno fino alla seconda metà degli anni ’80, quando all’improvviso iniziano a spuntare piccoli giacimenti di calciatori in ogni angolo del paese.
E se in giro per il pianeta le password sono pragmatismo ed ordine, in Norvegia le parole d’ordine sono sogno e fantasia. Per riuscire a sintetizzare in realtà, desideri e crescita servono due enormi catalizzatori: una squadra traino – e c’è – e soprattutto un visionario che sappia formare ed addestrare al meglio questi talenti. Anche quest’ultimo è presente, anzi ce ne sono ben due. Il primo si chiama Nils Harne Eggen, classe 1941.
Nel 1969, finché scoprono il petrolio in fondo al mare, sta terminando la sua carriera nel Rosenborg a Trondheim. Ha appena vinto il titolo nazionale, il secondo della storia dei Troillongan, dopo quello del 1967 alla loro seconda apparizione nella serie principe del paese. Eggen è un difensore di buon livello, ha raccolto anche 29 presenze con la maglia della sua nazionale. Ritiratosi presto, comincia ad allenare fin da subito. Nel 1988 viene richiamato per la quinta volta a dirigere i bianconeri di Trondheim. La storia diventa epica. Dal 1988 al 2004 il Rosenborg vince quindici campionati e raggiunge nel 1997 i quarti di finale della Champions League a spese del Milan.
Il gioco di Eggen è offensivo, ai limiti dello sprezzante. È un norvegese atipico, proprio come il Rosenborg. Imposta i suoi con un 4-3-3 dai ritmi alti e la verticalità esasperata. I migliori interpreti giostrano nei reparti avanzati. Il direttore d’orchestra è Bent Skammelsrud, classe 1966, autentico feticcio per i nostalgici del calcio che fu. Passo lento, mente svelta. Il numero 8 dirige un complesso irripetibile.
Intorno a lui si alternano “musicisti” del calibro di Hoftun, Kvarme, Heggem, Bergdolmo in difesa; Soltvedt, Strand, Runar Berg (ex Venezia) a centrocampo; Brattbakk, Rushfieldt, Iversen in attacco. Il turn over in diciassette anni di trionfi è sterminato, ma molti di questi appena citati sono la colonna vertebrale della Norvegia che nel 1998 raggiunge gli ottavi di finale dei mondiali di Francia, sconfiggendo nell’ultima partita del girone A il Brasile.
Il culmine di una generazione impareggiabile nata nel 1991, in due giornate di giugno da incastonare nella memoria di ogni norvegese. In ambo gli eventi c’è sempre l’Italia di mezzo: 4 e 5 giugno 1991. Solo due anni prima, in quei stessi giorni in Piazza Tienamen a Pechino, il Rivoltoso Sconosciuto si para davanti i carri armati per protestare contro la durezza del regime di Pechino.
La foto farà la storia, ma non sono da meno le istantanee che arrivano da Stavanger.
In campo l’under 21 italiana cade con un clamoroso 6 a 0 in favore dei norvegesi. Sì, 6 gol ai futuri campioni d’Europa di Cesare Maldini. Il protagonista della serata è Claus Eftevaag, centrale difensivo, re per una notte e autore di una doppietta. Sono le qualificazioni per gli europei under 21 del 1992, ma quell’affermazione segna un solco chiaro: c’è del calcio in Norvegia. Il giorno dopo ad Oslo, per le qualificazioni ad Euro 92, è il turno delle selezioni maggiori. Qui il match è più tirato, ma l’epilogo vede i norvegesi vincenti 2 a 1. Dahlum e Bohinen firmano la vittoria più importante della storia da commissario tecnico di Egil Olsen.
Ecco il secondo Uomo della provvidenza del calcio norvegese. Se Eggen è ganassa e un po’ spaccone, Olsen è vigile e sornione. Morigeratezza e pragmatismo convivono felicemente nei pensieri di Olsen, da sempre attento a declinare l’attenzione in prudenza Un inno alla sostanza. La sua selezione è muscoli e legna, onde e ripartenze. Orpelli e merletti chi ne ha bisogno? Il 4-5-1 su cui imposta la selezione è chiaro: linee difensive e di centrocampo marmoree e compatte.
Poi c’è il Flopasning, cioè il lancio lungo in diagonale dalla fascia per le sponde volanti di testa di uno dei due Flo, prima Jostein e poi Tore Andre, e gli inserimenti dei centrocampisti sulla seconda palla. Una fantastica copertina di Linus su cui fare sempre affidamento. (Ri)lanciare e (ri)salire sono le parole chiave su cui Olsen sviluppa il suo personale Norwegian Wood. Il lavoro di levigatura è da artigiano di consumata esperienza e nelle qualificazioni mondiali del 1994 se ne rendono conto Olanda, Inghilterra, Turchia, Polonia e San Marino. 7 vittorie, 2 pareggi e una sconfitta, a pass già strappato contro la Turchia.
È una gran bella Norvegia. Olsen non scopre l’acqua calda, ma sfrutta al meglio le caratteristiche dei suoi: forza fisica e gioco aereo. “Drillo”, come è affettuosamente soprannominato in patria, compone e scompone il suo personale cubo di Rubrik e negli Stati Uniti esce dal girone con Irlanda, Italia e Messico solo per differenza reti. In quell’11 mondiale si distinguono in tanti: i centrali Johnsen ed Henning Berg, il terzino Bjørnebye, il box to box Kjetil Rekdal, il regista Mykland, la coppia di fatto Leonardensen-“Mini” Jackobsen, le punte Jostein Flo e Bohinen.
Il gruppo è coeso e nonostante la mancata qualificazione agli Europei inglesi del 1996, il ricambio generazionale avviene positivamente. Si affacciano sul grande palcoscenico gente del calibro Dan “Telespalla Bob” Eggen, Ståle Solbakken, Vidar Riseth, Gunnar Halle, Erik Bakke e soprattutto il duo di attaccanti Tore André Flo (fratello minore di Jostein) ed Ole Gunnar Solskjaer. Alcuni di questi sono in campo nel 4 a 2 al Brasile del 30 maggio 1997 in amichevole ad Oslo.
I Verdeoro dal 3 all’11 giugno disputeranno lo storico Torneo di Francia 1997, quello per intenderci del gol metafisico di Roberto Carlos su punizione contro la Francia. Zagallo, C.T. brasiliano, mette in campo l’argenteria di lusso, ma contro gli uomini di Drillo Olsen, in quella serata boreale, non c’è scampo. Nel primo tempo apre Rudi, raddoppia Tore André Flo, aquilotto all’epoca in forza al Chelsea, accorcia Djalminha e poi è ancora Flo a riportare la distanza di sicurezza tra le due squadre.
All’Ullevaal Stadion sono increduli. La Seleçao, la nazionale più forte del mondo, sotto di due gol. Nella ripresa serve a poco uno degli innumerevoli gol in carriera di O’Baixinho, Romario, perché al 77’ Egil Østenstad mette il punto esclamativo su una prestazione maiuscola dei rossi. In campo per la Norvegia in quella nottata fiabesca c’è anche Alf-Inge Håland, ideale anello di congiunzione tra quella generazione e questa attuale che sta avanzando a passi lenti, ma rumorosi. Il biennio 1997-1998 è magico per il biondissimo centrocampista. Il trasferimento al Leeds è il coronamento di un sogno, dopo l’approdo al Nottingham Forrest nel gennaio 1994.
Håland è il tipico giocatore anni ’90. Gregario sul campo e leader fuori. Solido, imponente, con un feeling per il gol tutt’altro che disprezzabile per il ruolo. Tanto per intenderci, sulla falsariga di Marcel Desailly, con ovviamente meno classe annessa nei piedi. La sua partita manifesto ha una data e un luogo ben preciso.
27 settembre 1997, Elland Road a Leeds. Una settimana prima è uscito il secondo singolo del terzo disco degli Oasis, Be Here Now: Stand By Me, un classico istantaneo di quello che è rimasto del Brit Pop. Nello Yorkshire arriva il Manchester United. Una classica del calcio inglese. Entrambi i team si schierano con degli speculari 4-4-2, sistema di gioco in voga da almeno 30 anni sui prati d’Oltremanica, fin da quando Alf Ramsey ha condotto prima l’Ispwich Town sul trono d’Inghilterra nel 1962 e poi i boys of ‘66 alla conquista del tetto del mondo.
I Red Devils dell’epoca sono uno squadrone pronto ad entrare nella leggenda. A difendere i pali c’è il danese Peter Schmeichel, protetto dal quartetto difensivo composto da Gary Neville, il norvegese Henning Berg, Pallister ed Irwin. Paul Scholes è lo sparring partner di Roy Keane in mezzo al campo, mentre sulla fascia destra e sinistra giocano rispettivamente David Beckham e Karel Poborsky, quest’ultimo al posto del gallese Ryan Giggs, sogno proibito per un buon lustro dell’ex presidente dell’Inter Massimo Moratti. Avanti spazio alla double S, Sheringham-Solskjaer. I due, 606 giorni dopo quel pomeriggio a Leeds, regaleranno ad un incredulo Ferguson, in una calda notte di fine maggio catalano, la prima Champions League della sua carriera.
In quell’occasione la coppia d’attacco del Manchester United resta a secco anche grazie ad un grande lavoro difensivo del maledetto United made in George Graham. Siamo all’inizio dell’epoca blairiana. Il New Labour è l’onda da cavalcare, nonché il modello a cui aspirano la maggior parte dei partiti di sinistra e centro sinistra dell’Europa. Leeds, terza città di Inghilterra, è dagli anni 60-70 che non domina in campo nazionale. In panchina c’era Don Revie, sul rettangolo di gioco gente come Giles, Bremner, Hunter. Sono anni di successi e in cui i ragazzi bianchi si fanno odiare.
Questa volta però è diverso, a fine anni ’90 nello Yorkshire, in concomitanza con la New Britannia, sboccia una generazione fresca, dalla faccia mediamente pulita, con tanta attitudine ed atletismo. Nel giro di tre anni alcuni dei ragazzi protagonisti di quel pomeriggio arriveranno ai piedi della finale di Coppa Uefa (2000) e Champions League (2001). I loro carnefici? Il Galatasaray di Fatih Terim, futuro vincitore ai rigori dell’Uefa e il Valencia dell’hombre vertical, al secolo Hector Cuper, il tecnico perdente più straordinario della storia del calcio.
Lo schieramento bianco: Nigel Martyn è il guardiano di una retroguardia composta dal capitano del Sudafrica Lucas Redebe, il norvegese Halle, Wetherall (matchwinner dell’incontro) e Robertson. Kelly e il portoghese Ribeiro sono i due esterni, mentre a centrocampo spadroneggiano Alf-Inge Håland ed Hopkin. Harry Kewell, enfant prodige australiano, è la bussola che guida tutte le azioni offensive dei bianchi. Tra il 1997 e il 2002 galleggia tra le linee in modo etereo. Un rompicapo in Inghilterra, un enigma tattico in Europa. È tra migliori numeri 10 in circolazione ed ha poco più di 20 anni. In avanti va in panchina Jimmy Floyd Hasselbaink, cecchino olandese di sicuro affidamento, per il velocissimo Rod Wallace, terminale offensivo ideale per mettere in difficoltà la macchinosa coppia dei Fergie Boys composta da Pallister e Berg.
Håland durante il match incrocia spesso i tacchetti con Roy Keane e il fattaccio avviene in area di rigore del Leeds. I legamenti del ginocchio destro dell’irlandese cedono all’improvviso dopo l’inseguimento di un pallone lanciato in profondità, quando mancano pochi minuti alla fine del match. Il 16 rosso si accascia al suolo. Håland è nelle vicinanze, i due si sono menati di santa ragione per tutta la partita. Il pallone si perde sul fondo. La tensione della gara è alle stelle.
Il Leeds arriva da un periodo mediocre e tre punti contro i campioni d’Inghilterra uscenti potrebbero essere un’iniezione di fiducia più che gradita per il resto della stagione. Il pensiero di Håland è uno solo: “Questo maledetto irlandese sta simulando e provando a farsi dare un rigore”. Naturale il “Alzati s****o, finiscila di simulare”, del norvegese al suo dirimpettaio irlandese. “Pessima idea brutto figlio di *******”, pensa tra sé e sé Roy ex pupillo di Brian Clough proprio al Nottingham. Nel’aprile del 2001 il docile Roy si vendicherà di Alf, spezzandogli il ginocchio durante il derby di Manchester.
«I’d waited long enough. I fucking hit him hard. The ball was there (I think). Take that you cunt. And don’t ever stand over me sneering about fake injuries.»
[«Avevo aspettato abbastanza. L’ho colpito dannatamente forte. La palla era là (credo). Beccati questo stronzo. E non provare mai più a ghignarmi in faccia che sto simulando un infortunio.»]
(Keane: The Autobiography, 2002)
Quanta Norvegia in campo ad Elland Road. Halle e Håland tra i padroni di casa, Berg, Solskjaer e Johnsen, che subentra a Scholes, tra gli ospiti. Solo Alf Inge Håland al mondiale non ci sarà, mentre gli altri quattro cavalieri delle notti bianche ci sono e saranno primi attori nella storica qualificazione agli ottavi di finale.
È una Norvegia conscia del suo potenziale, all’apice della sua forma. Dopo aver pareggiato contro Marocco e Scozia, nell’ultima gara del gruppo si ritrova di fronte ancora il Brasile. Per avanzare nella kermesse, i norvegesi devono vincere. Dettaglio tutt’altro che banale. I brasiliani giochicchiano, sono già sicuri del primo posto. Vanno in vantaggio al 78’ con Bebeto e poi toreano i nordici.
Niente di più sbagliato. All’83’ Tore André Flo fa fede al suo soprannome, Flonaldo, e dopo aver superato in dribbling Pluto Aldair, infila con un rasoterra sul secondo palo Claudio Taffarel. Sei minuti dopo è l’appuntamento con il destino. Leonardensen viene spinto in area da Junior Baiano e Rekdal dagli undici metri è una sentenza. 2 a 1 e norvegesi agli ottavi, dove vedranno il loro cammino fermarsi contro Bobo Vieri e il catenaccio di Cesare Maldini.
L’Europeo del 2000 è il canto del cigno definitivo di quella generazione magica. In panchina non c’è più Olsen, bensì Semb. L’autogestione norvegese funziona alla grandissima, sino all’ultimo match del gruppo con la Slovenia. I rimpianti si sprecano per Solbakken e compagni e per più di un ventennio il calcio norvegese scompare dai radar. Certo, alcuni buoni giocatori vengono ancora prodotti, come John Carew e John Arne Riise, ma sono degli unicum in un panorama tendente alla carestia. Sia Rosenborg, sia la selezione norvegese spesso si affidano alla nostalgia, con risultati nefasti.
Poi il 27 agosto 2014 ecco la cometa: Martin Ödegaard. Il suo debutto con la maglia della nazionale maggiore norvegese con ancora 16 anni compiere (15 anni e 252 giorni) fa rumore. A tutte le latitudini. È naturale. Martin Ödegaard, classe 1998, è abituato a bruciare le tappe, ma in lui c’è tanto calcio. Il passaggio al Real Madrid nell’inverno 2015 e poi i prestiti da erasmus students all’Henreveen, Vitesse, Real Sociedad fino al ritorno al Real Madrid. È il pallone bellezza.
Se la Casa Blanca crede in te, se Zinedine Zidane vede in te qualcosa di speciale, vuole dire che sei uno che vale. La pensa così anche Florentino Perez, presi del Madrid, abbagliato dai suoi guizzi, le sue geometrie nelle linee di passaggio, seta pregiata per ogni appassionato del Bernabeu. Non è un caso se dai suoi piedi sta rinascendo la Norvegia calcistica di oggi. Una squadra fresca, piena di qualità dalla mediana in su.
Erling Håland è l’altro uomo copertina di questo rinascimento norvegese. Figlio di Alf Inge, cannoniere di grandi doti fisiche e tecniche, ancora tutto da testare a livello mentale. Il Dortmund se lo gode, la Norvegia gongola perché può veramente diventare il centravanti europeo più forte dei prossimi 15 anni, Mbappé permettendo. I numeri al momento sono da predestinato, nulla da eccepire, ma è ancora un progetto di campione. I suoi movimenti fronte alla porta sono da cacciatore delle aree di rigore consumato, atipici per la struttura fisica in possesso. Lagerback, tecnico svedese e attuale CT della Norvegia, assomiglia tatticamente e simbolicamente ad Olsen.
Il cocktail in fase di preparazione sembra promettere molto bene. A questo punto, c’è solo da aspettare, anche se quanto visto in Nations League fa ben sperare. Il prossimo appuntamento cruciale saranno i play off per accedere agli Europei 2021. Oltre a lui e Ödegaard, la Norvegia può contare su un buon blocco composto da Linnes, Ajer, Thorsby, Svensson, Nordtveit, Berge, Fossum, Henriksen, Patrick Berg, Sorloth, El Younoussi, Joshua King. In Norvegia sembrano essere tornati gli anni ’90: il decennio dell’energica crazy Norway, il decennio che ha fatto sfiorare la Luna al calcio norvegese.