Nulla è irreversibile, nemmeno la globalizzazione.
Uno dei ritornelli più insopportabili del si dice contemporaneo recita più o meno così: “più viaggi, più apri la mente”. Di base il messaggio, seppur espresso in termini volgarmente illuministi, ha un suo indiscutibile fondamento. L’effetto tragicomico sta però nei portavoce di questa crociata emancipatrice. Spesso si tratta di ragazzi la cui esperienza si è formata ad Amsterdam, Londra, Siviglia, New York, Berlino; ad esagerare in mete esotiche come Marrakech, Bali e Bangkok. È una generazione Erasmus che sale in cattedra, con il vento in poppa della storia e i fondi a pioggia dell'(ex) sogno europeo, decisa ad educare il resto della società arcaica al nichilismo della globalizzazione.
Vedete, chi viaggia davvero, o anche solo chi è dotato di buon senso, capisce ben presto il sacro valore dei confini: questi racchiudono tradizioni, usanze, visioni del mondo; e ancora cibi, arti, paesaggi, mestieri. Un pianeta privo di frontiere è nel migliore dei casi un’utopia pasticciata come il mondo senza avvocati dei Simpson, fatto di arcobaleni e girotondi; nel peggiore invece un piano liscio e omologato che non prevede un reale dialogo tra popoli, bensì la rinuncia alle relative culture in favore di un modello unico e totalitario.
È questo il paradigma della nuova e indistinta convivenza occidentale: un iraniano potrà farne parte solo se riconosce il valore oscurantista degli Ayatollah; un russo solo se condanna i disegni egemonici di Putin, e così un turco di Erdogan; un cinese unicamente se rinuncia all’ideologia marxista-leninista e poi maoista. Un afghano e un libanese se disprezzano talebani ed Hezbollah.
Insomma, c’è integrazione, ma solo se loro la pensano come noi, così potremo divenire uguali: si tratta di un presupposto implicitamente razzista nel senso letterale del termine. Si procede per superiorità di un modello su un altro – d’altronde chi crede di essere a uno stato più progredito della storia umana è portato ad un pensiero strutturalmente suprematista.
Ma cosa c’entra tutto questo con il calcio? Beh, lo sappiamo bene, il pallone è un formidabile specchio della società: le derive progressiste, oligarchiche e finanziarie che hanno investito le nostre comunità si sono riversate pari pari nel calcio; le esigenze della globalizzazione e il suo linguaggio hanno travolto il mondo del football come un’onda inarrestabile, quindi oggi ci troviamo a parlare di Superlega, superamento dei confini e partite nazionali giocate a casa di yankee arricchiti o di sceicchi esperti di soft power.
Così, quando abbiamo letto l’articolo apparso su Rivista Undici a nome Federico Sarica, non potevamo che sguainare la sciabola. Sia chiaro, rispettiamo la posizione e il modo in cui è stata espressa. Dietro questo articolo si muove un pensiero, a metà tra l’avanguardia e il conformismo iconoclasta ma pur sempre un pensiero. Il titolo parla chiaro, e ad esso ci siamo contro-ispirati: Un nuovo calcio è senza confini. Il sottotitolo ancora più esplicativo:
“Perché una dimensione continentale del calcio europeo, eliminando i confini nazionali sempre più obsoleti, è l’unica soluzione per il futuro”.
A parte l’introduzione sui maggiori campionati europei scollegati ai tempi della pandemia, più un’arma dialettica che un ragionamento, arriva presto la bordata ideologica: «fattori come l’offerta del calcio in tv in continua espansione, l’evoluzione sui social di club e calciatori, gli e-sport e la loro capacità di fornire esperienze e connessioni, il marketing sempre più globale che coinvolge il mondo del pallone, non potevano che portare a un avvicinamento di culture diverse. O, meglio ancora, a un superamento naturale di confini desueti».
Soprassedendo sui confini “desueti”, qui l’autore commette però un grande errore: le televisioni, i social, gli e-sports, il marketing non hanno affatto portato all’avvicinamento di culture diverse. Al contrario hanno imposto un’unica cultura, quella dell’immagine, della propaganda, dell’omologazione, di calciatori e squadre tutti uguali.
Avete mai pensato al perché, fin da piccoli, ci affascinassero così tanto i tornei internazionali? In buona parte per il loro carattere di incontro/scontro fra Nazioni. Perché le squadre rispecchiavano spesso lo stile di gioco del Paese di appartenenza, erano il prodotto di quelle che una volta si definivano “scuole”. Anche per questo le partite assumevano un carattere storico, quasi sacrale.
Perdonate il breve excursus personale, ma ricordo come se fosse ieri la finale mondiale del 2018: uno scontro di mondi, la Francia ultramoderna e imperialista contro una Croazia ancora novecentesca. Con due amici, dopo qualche birra di troppo, decidemmo il giovedì sera di partire da Roma con una utilitaria destinazione Zagabria. Non dimenticherò mai la piazza e le vie della città: era in corso una processione laica, un vero e proprio rito di popolo.
Bambine, bambini, anziani, uomini, donne e anche qualche ultras, tutti rigorosamente a scacchi biancorossi: era una Nazione in movimento, un popolo che trasmetteva un senso di unità quasi metafisico, e che dimostrava tutta la sua gioventù come Stato orgogliosamente indipendente. “Perdemmo”, ma la festa continuò tutta la notte. C’era qualcosa di sacro, di inesprimibile a parole. Altro che la Francia nichilista dei top player, con milioni di suoi stessi cittadini che ne auspicavano la sconfitta (provate a chiedere a molti immigrati di terza generazione se si sentano più francesi o, ad esempio, algerini).
Insomma ci hanno sempre affascinato i Mondiali perché i tedeschi facevano paura e “quando avanzavano in campo sembravano le SS” (cit. Massimo Fini), e anche perché l’Olanda dell’Arancia meccanica era patria della creatività e dell’avanguardia. Nel momento in cui si affrontavano Cruijff e Beckenbauer si fronteggiavano due Nazioni che per di più, come scrive Simon Kuper, si detestavano;non era una semplice partita, ma un evento denso e carico di significati.
L’Italia del santo catenaccio, l’Inghilterra dei tackle e delle palle alte, il Brasile del futbol bailado; l’Uruguay delle garra charrùa, la Nigeria delle frecce in ripartenza, la Corea della disciplina. La splendida ricchezza della differenza.
È un discorso che può essere allargato anche alle squadre di club o ai singoli calciatori. Quanto è bello vedere una squadra spagnola impegnata in una ragnatela di passaggi infiniti, e un’italiana schiacciata con 11 uomini dietro la linea della palla pronta a ripartire? E quanto è intrigante osservare un serbo talentuoso ma indolente, un africano devastante ma anarchico o anche un cinese assai scarso ma terribilmente ordinato? Con questi “pregiudizi”, oggi retrogradi e anche offensivi, fino a mezzo secolo fa ci hanno campato tanto lo sport quanto la politica e la letteratura.
Le differenze ci fanno amare il mondo, i viaggi, il calcio: oggi i giocatori sono tutti uguali, proprio come le grandi città europee. Londra, Berlino, Amsterdam. Sterling, Sané, Depay. In fondo cosa cambia? Per scoprire le vere Nazioni e il vero football, sotto la spinta omologatrice della propaganda, bisogna spingersi nei luoghi dimenticati dei Paesi e del pallone; nelle periferie e nelle piccole realtà locali, o addirittura nelle serie minori. L’élite europea, dappertutto uguale, ha il suo modello di “integrazione” anche nel calcio: la cita e non la cita Sarica su Undici, ma essa ha sempre più chiaramente il volto mefistofelico della Superlega.
Siamo sicuri che sia questo il calcio del futuro? E siamo davvero convinti che questa possa essere chiamata crescita o integrazione? Un’Europa tutta uguale, che rinuncia alle sue differenze e le mantiene solo come elementi di folclore, tra spaghetti, Oktoberfest, marciapiedi spaziosi e coffee shop. Un marciume che sa di buono, per citare Cioran; un continente che, progredendo, ha avuto tutto il tempo per andare a puttane. Più che integrazione questa è un’enorme ammissione di impotenza.
“Pensa alla storia dell’umanità e al progresso che ha fatto l’uomo in termini materiali. Ha allungato la sua vita, va sulla luna, ma davvero non ha fatto alcun progresso dal punto di vista spirituale. Proprio nessuno, nessuno, nessuno. È un’illusione che l’uomo sia progredito” (Tiziano Terzani)
Non stupisce che con simili premesse vengano fuori calciatori tutti uguali, più mediatici che reali; calciatori certamente, uomini chissà. La nostalgia nel pallone non è determinata tanto dall’effettivo valore dei giocatori del passato o del presente, quanto dalla rispettiva caratura umana: un tempo chi scendeva in campo aveva spesso storie da raccontare, mondi da restituire, tradizioni da preservare. C’era l’uomo sotto la maglia.
Cinquant’anni fa un Giacomo Bulgarelli poteva dialogare con Pasolini sugli aspetti repressivi dell’educazione cattolica, mentre oggi appare rivoluzionario un Leclerc che si sottrae alla pagliacciata dell’inginocchiamento, o semplicemente uno sportivo in grado di esprimere concetti vagamente originali di fronte ai microfoni (per esempio un Daniele De Rossi). Rare eccezioni in un ambiente che è diventato il più conformista del pianeta, ancora più di Hollywood.
Per il resto parliamo di un mondo che, nei suoi protagonisti, è ontologicamente incapace di trasmettere qualcosa. Oggi le immagini sono più vive delle persone e allora i nuovi sportivi risultano schiavi della propaganda, della visibilità, dei social, dei ritornelli, delle battaglie alla moda, i Black lives matter una volta e Greta Thunberg un’altra; come se non bastasse, e per tutta risposta, li si vorrebbe rendere ancora più internazionali ed europei. Scrive Sarica che
“si parla tanto del fatto che i giovani talenti di casa nostra non siano in grado di trovare spazio, con continuità, nei nostri grandi club. Ma perché non lavorare perché trovino spazio nei grandi club e basta, che siano di casa nostra o meno? È piena la storia del pallone di nazionali leggendarie il cui cuore dello spogliatoio era costituito da giocatori diventati grandi in altre leghe. Oggi, più che mai, competere e cooperare a livello europeo vorrebbe dire questo”.
Un’impostazione talmente utopica, confusa e strutturalmente insostenibile da (s)cadere nella provocazione. Sotto però c’è l’intento sempre più bulimico di sfruttare lo spirito del tempo a proprio favore, di imporre un modello unico a livello europeo; magari anche un gioco unico e una competizione unica. C’è il desiderio vorace e insopprimibile di allevare calciatori che siano prima cittadini del mondo e solo poi Italiani, Francesi, Spagnoli. Di annacquare, svilire, omologare ed appiattire. Di rendere le Nazionali squadre di club, e le squadre di club società per azioni.
La globalizzazione è stata un processo epocale e onnipervasivo, anche nello sport, che però mostra ormai il suo volto più oscuro, volgare e deleterio. Come la risacca di un’onda di petrolio, ha lasciato sulla spiaggia una scia d’olio sporco e maleodorante. In molti, da destra a sinistra, iniziano ad accorgersene, e anche ciò che sembrava irreversibile può oggi essere ripensato: i confini non appartengono al passato ma rappresentano invece il futuro e la speranza del mondo se vogliamo conservare lo stupore, la meraviglia, le culture.
Lo stesso vale per il pallone. Non possiamo basare i nostri ragionamenti per il “calcio che verrà” sui top club e sulle competizioni elitarie. Pensiamo piuttosto ai piccoli e ai medi, ma ancor prima ai progetti e alle idee. Ripartiamo dall’Atalanta o pure dalla Lazio, che Lotito sarà anche un “impicciarolo” da Prima Repubblica ma i risultati, senza che abbia ceduto alle sirene del mercato milionario o di famelici procuratori, sono indiscutibili. Guardiamo all’Union Berlino, all’Athletic Bilbao, ma senza voler essere così romantici a tutti quei progetti che, per affermarsi, non puntano alla trasformazione in marchi planetari o al mercato azionario globale.
La narrazione che soggiace a Superlega e simili aspira a sostituire l’appartenenza del tifoso con lo spettacolo per il consumatore. Il ragionamento-ricatto è chiaro, soprattutto se proposto alle nuove generazioni cresciute a pane, social e top player: preferite vedere un Real Madrid v Manchester City pieno di stelle a Los Angeles o un noioso Bologna v Fiorentina nel capoluogo emiliano? La nuova frontiera, dopo aver de-nazionalizzato le varie squadre e nazionali, sarà la spoliticizzazione del tifo.
Non ci si riconoscerà più nelle squadre bensì nei singoli giocatori, e per i nuovi tifosi risulterà sempre più difficile entrare in una narrazione condivisa ed extra-calcistica. La Roma non sarà più romana e romanista, squadra popolare dei rioni; il Manchester United britannico di Ferguson appare già come un lontano ricordo; il Bayern Monaco sta rinunciando all’identità tedesca e assomiglierà tremendamente alla Juventus, che accantona invece il blocco italiano.
È questo che si augura Sarica, il tutto in nome della crescita, della competizione e della cooperazione. In fondo «i nuovi campioni sono così intrisi di calcio internazionale sin da piccoli, che non serve loro essere italiani per “capire meglio” la Juve. Per come li vedo io, per come si raccontano loro, Bentancur o Dybala o De Ligt, o magari Paul Pogba o chi per loro, sono solo esempi, possono potenzialmente diventare i “nuovi italiani” da cui ripartire». Infine rincara la dose:
“Si può discutere sul come e sul quando, ma non accettare che una dimensione continentale del calcio sia l’unica sostenibile in un mondo globalizzato e comunicativamente senza confini, significa fare un torto allo sport più bello del mondo e negargli un pezzo di futuro”
Sarà che a noi questo futuro spaventa, e neanche poco. Per usare le parole di Eduardo Galeano «lo sviluppo è un viaggio con molti più naufraghi che naviganti». Ecco, nel calcio del futuro i naufraghi sono i tifosi: derisi, repressi, umiliati, figli unici per dirla invece alla Rino Gaetano. Se la crescita del football consiste nei ricchi che diventano sempre più ricchi e negli altri che lottano per la sopravvivenza (solo in Italia sono fallite più di 150 società professionistiche negli ultimi 15 anni), o se ancora questa crescita porta all’oligarchia della Superlega, non sarà il caso di fermarci e di chiedere: Ma dove stiamo andando? E soprattutto, perché?
In questa folle corsa alla globalizzazione e all’abbattimento dei confini, apparentemente irreversibile ma che ci rende sempre più infelici, noi vorremmo solo rimanere nella casa dei nostri padri, dei nostri nonni, a tifare la loro squadra e a godere delle cose semplici. Una bella vista delle Alpi per esempio, che ci divide e separa inesorabilmente dagli odiati cugini.
Il costo dei biglietti cresce a tassi doppi rispetto quello degli stipendi o del costo della vita. Anatomia di un problema che attanaglia il calcio moderno.