La nuova dimensione de l'Apache.
Lo avrebbero predetto in pochi, forse solo chi lo ha conosciuto davvero. Come Dario Coronel, l’amico del cuore morto suicida quando le loro strade si erano già irrimediabilmente divise. Eppure Carlos Tevez – dopo averla conosciuta – ne ha fatta di strada. Dopo aver vinto tutto da calciatore, sta provando a gettare le basi per ripetersi anche dalla panchina. Da Rosario al “Rey de Copas” – il club che espone in bacheca 7 Libertadores, più di Boca Juniors, Penarol e River Plate – il passo è stato breve.
A 39 anni “el Apache” è l’allenatore dell’Independiente e il dribbling più complicato per lui è ora affrancarsi dalla Mistica del “jugador del pueblo”, quella messa in discussione da moralisti e benpensanti, pronti a rinfacciargli i ben lauti guadagni percepiti nel suo lungo peregrinare tra San Paolo, Londra, Manchester, Torino e Shanghai. Tevez ricchissimo tra i poveri, losfregiatoscampatoadundestinosegnato, tutta una parola.
È quella dimensione che ha ispirato e foraggiato dozzine di produzioni editoriali e televisive, facendo la fortuna degli storytellers di ogni ordine e grado. Prima che “La Bombonera” tornasse ad essere il giardino di casa, Carlitos ha effettivamente accumulato un patrimonio da far invidia ad una star hollywoodiana. E non esiste colpa più grande per un Paese stritolato dalle spire del Fondo Monetario Internazionale, dilaniato dall’inflazione e con l’incubo del default economico perennemente dietro l’angolo.
«Con quei soldi mantengo quindici famiglie e una sessantina di persone, per dare alle prossime generazioni un’esistenza migliore».
Così, masticando amaro, Tevez risponde tuttora a chi lo accusa di esser lontano ormai anni luce dalla realtà di Fuerte Apache, quella non-vita consumata tra omicidi, rapine e traffici di ogni tipo che hanno segnato il suo corpo e l’inizio del suo percorso. Idolo incontrastato, venerato dalla “hinchada xeneize” e sovente osteggiato da gran parte del restante arco costituzionale pallonaro. Il rapporto col denaro e la “locura” che permea le innumerevoli rivalità calcistiche d’Argentina, aiutano a comprendere il perché Tevez non sia mai diventato un campione trasversale, al netto della mancata vittoria del Mondiale con la Seleccion, giunta un anno fa dopo 36 anni di attesa.
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Se sei identificato con il Boca, sei inviso automaticamente (e in rigoroso ordine di apparizione) alla “gran mayorìa” dei sostenitori di River, San Lorenzo, Rosario Central, Academia, Chacarita, Huracan. Figurarsi se poteva far eccezione Tevez, che non si è mai sottratto a questo processo di connotazione con la squadra che lo ha tirato fuori dai lugubri sobborghi di Ciudadela, attirandosi non poche antipatie nelle tre fasi della sua militanza “azul y oro”. La stessa scelta di trasferirsi all’Independiente è stata oggetto di critiche e allusioni di osservatori più o meno improvvisati.
Per lui è stata «un’opportunità prestigiosa e stimolante» mentre, più prosaicamente, ciò che gli rimproverano in patria i suoi detrattori è la dichiarata amicizia con Mauricio Macri, già premier di governo, imprenditore ed ex presidente del Boca, che avrebbe propiziato il favore del passaggio alla corte di Fabian Doman, il presidente del gruppo “PRO”, macrista di ferro insediatosi al timone del sodalizio de “Los Diablos Rojos” dopo la quasi ventennale gestione di Hugo Moyano.
La diffidenza che aveva accompagnato Tevez al suo approdo, l’ostilità di chi gli faceva pesare il suo passato “bostero” – per non parlare dei 70 milioni di pesos chiesti a Rosario per la sua prima esperienza da allenatore, appunto – hanno lasciato ben presto spazio alla curiosità di vederlo all’opera. E lui in campo è un tecnico di pochi concetti, nessuna gerarchia predefinita.
«Chi mi dimostrerà di più in allenamento giocherà titolare».
Tutto vero, anche se proprio contro i rosarini, la formazione titolare aveva la ragguardevole età media di 30 anni, schierando i veterani Buffarini, Cauteruccio e Aguilar ed escludendo dall’inizio Sergio Ortiz (ventiduenne di indubbie qualità) restituendo al campionato riserve altri due elementi molto considerati come Pozzo e il 2006 Lopez. Le nuove leve dovranno attendere il proprio turno, dunque, se si adatteranno ai suoi dettami.
Carlitos non è un dogmatico, né un oltranzista della tattica, preferisce piuttosto studiare e basarsi sulle caratteristiche delle squadre che affronta: in un mese e mezzo ha utilizzato già quattro differenti moduli di gioco, dal 3-4-3 al 4-2-3-1, passando per il 4-3-1-2 e non disdegnando la difesa a cinque. Una malleabilità strategica che almeno per il momento lo libera da quel marchio di “cholismo” che pareva caratterizzarlo nelle sue prime uscite. Come Simeone, però, ha subito lavorato sull’aspetto empatico e motivazionale. La prima cosa chiesta soprattutto ai giovani? Rapportarsi con lui come facevano prima del suo arrivo, senza sussiego né deferenza.
Non ha scelto questa strada per essere un totem, ma per instaurare un rapporto schietto e diretto senza soggezione alcuna. Da fratello maggiore, insomma, deciso a guadagnarsi la fiducia dello spogliatoio con mosse concrete e credibili. Un approccio prevedibile ma non scontato, che ha fatto subito breccia anche presso i tifosi più prevenuti del “Rojo”, pronti a ricredersi soprattutto dopo la vittoria ottenuta il 2 ottobre nel caldissimo “Clasico de Avellaneda” con il Racing.
Ne avrebbe anche avuti di buoni maestri tra Inghilterra e Italia, ma mister Tevez non si ispira a nessuno in particolare. L’unico autentico punto di riferimento lo ha perso quando è calato il sipario sulla sua seconda vita e ha cominciato ad intravedere la terza. Per quello chiamò Juan Roman Riquelme nel cuore della notte, chiedendogli di organizzare la conferenza d’addio:
«Da quando ho otto anni gioco a calcio solo per mio padre. Ora che è morto, che il mio primo tifoso non c’è più, tutto questo non ha più senso».
Sedici mesi dopo: meno istinto, stesso cuore. Sì, perché Tevez è stato certamente tra i più iconici e ribelli interpreti del futbol moderno. Ma è e resterà anche l’uomo di particolare sensibilità, che ha appena lanciato una campagna per combattere l’analfabetismo («In squadra abbiamo ragazzi che non sapevano fare due più due, addizioni o sottrazioni, questa è povertà») e che quotidianamente aiuta a sopravvivere vecchi e nuovi poveri di Buenos Aires. Quello che nella recente gara con l’Argentinos Juniors raccoglie un tozzo di pane lanciatogli a mo’ di scherno dai tifosi avversari e lo bacia, riponendolo con cura. Quello che “si fa ma non si dice”. Al massimo, si tramanda.
Immagine copertina C.A. Independiente via X