Il Chievo è una storia senza lieto fine.
La figura dell’asino che vola custodisce uno dei tesori più preziosi della saggezza popolare, e in ogni regione italiana ne esiste una declinazione che simboleggia l’utopia e la credulità. Gianni Rodari, nel racconto L’asino volante del 1964, voleva invece lanciare un messaggio di speranza: la fiaba, contenuta nella raccolta “Il libro degli errori”, si conclude con un asino trasportato in volo da un elicottero sopra la distesa grigia di un’alluvione.
A Verona, i tifosi dell’Hellas trasformarono il detto in sfottò: «Quando i mussi i volerà faremo el derby in Serie A». Il giorno in cui agli asini spuntarono le ali in groppa fu il 3 giugno 2001 quando il Chievo, squadra della frazione di quattromila anime sulla sponda dell’Adige, approdò per la prima volta in Serie A: fu l’inizio dell’ultimo miracolo italiano del calcio di provincia, una favola senza lieto fine, inghiottita dalle grinfie di una notte di mezza estate di venti anni più tardi.
Il Chievo Verona non c’è più, e il miracolo sportivo è stato soffocato dai mali intrinseci di un calcio ormai incapace di sognare. Il verdetto fatale è arrivato dalle stanze del Tar del Lazio, che ha respinto l’istanza cautelare presentata dal club contro la decisione del Collegio di Garanzia del Coni di escluderlo dal campionato di Serie B. Il Tar ha riconosciuto quanto già evidenziato dalla Covisoc e dalla Figc, la quale aveva respinto l’iscrizione dei veronesi per inadempienze tributarie relative al periodo 2014-2018.
Anni di bivacchi dopo le stagioni della gloria. Dalla prima retrocessione del 2007, arrivata dopo un clamoroso preliminare di Champions League partorito dal terremoto Calciopoli, il Chievo ha vivacchiato in periferia, schiacciato dal peso del proprio exploit.
Ha pagato lo scotto dell’irruzione dalla classe popolare ai palazzi della media borghesia. Era il Chievo Verona di Gigi Delneri, allenatore eretico cresciuto nel mito del Totaalvoetbal di Michels e Cruyff, di Luciano, che in principio fu ‘Eriberto’, e di Sergio Pellissier, il centravanti sceso dai monti della Val d’Aosta per cavalcare il ciuco con le ali. È stato anche il Chievo di Rolando Maran, che qualcuno battezzò ‘pandoro meccanico’ elogiandone l’esperienza (età media della rosa tra le più alte mai viste in A) e la straordinaria solidità difensiva. Un club che è tornato a vestire i panni di Cenerentola ancor prima della mezzanotte. Una creatura cresciuta in fretta e travolta da una senilità precoce.
Ma era soprattutto il Chievo Verona del presidente Luca Campedelli, una somiglianza col maghetto Harry Potter e proprietario della Paluani, l’azienda che produce croissant e famosa per i pandori natalizi. Il patron appassionato di scherma (nel 2011 è stato campione italiano di scherma storica per l’epoca Medievale) e di maglie da calcio. Celebri i suoi disegni sulle divise del Chievo: dalle ispirazioni al Newton Heath (il club che diede i natali al Manchester United, di cui Campedelli è gran tifoso) e ai New York Yankees, fino alle citazioni in latino e ai richiami all’amato Medioevo. Campedelli, seguendo gli insegnamenti del padre Luigi, ripeteva che «il pandoro non può mangiare il calcio».
Ne è derivata una gestione oculata, da molti definita un modello di efficienza. Fin quando il castello di sabbia non si è consegnato alle correnti, dissolvendo il miracolo Chievo nei meandri finanziari di un sistema incapace di coniugare futuro e sostenibilità. Storie di conti gonfiati e plusvalenze fittizie. Un canale su tutti: quello con il Cesena. Dall’Arena alla Romagna un via vai di giovani calciatori sconosciuti che fruttavano cospicue plusvalenze al club veronese: 60 milioni tra il 2014 e il 2017, più di un terzo maturati grazie a cessioni di calciatori al Cesena. Hoddou, Gkaras, Concato, Foletto, Mahmuti, Eziefula, Tosi, Placidi, Zambelli e Borgogna, veri e propri fantasmi per gli annali ma voci assidue nei conti delle due società. Un meccanismo perverso non sfuggito all’occhio del giornalista Pippo Russo, che su Calciomercato.com ha acceso per primo i riflettori su una pratica sopraffine e inquietante.
La Procura Federale aveva aperto un’indagine relativa al periodo 2014-2017, in cui il Chievo aveva realizzato utili per circa un milione e mezzo di euro in quattro stagioni. Le casse del club, riempite dai denari televisivi, potevano contare su entrate ordinarie che si aggiravano sui 180 milioni di euro a fronte di costi sempre più alti per mantenere la squadra in Serie A, pari a oltre 240 milioni: una voragine di circa 60 milioni, la stessa cifra maturata dalle laute plusvalenze da calciomercato.
La Procura ha quindi puntato la lente di ingrandimento sul corridoio Verona-Cesena, sempre più trafficato da giovani calciatori semisconosciuti.
Le società del Chievo e del Cesena (fallito nel 2018) erano state deferite «per aver sottoscritto le variazioni di tesseramento di alcuni calciatori indicando un corrispettivo superiore al reale e per aver contabilizzato nei bilanci plusvalenze fittizie e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo dalle norme che regolano i bilanci delle società di capitali». Il processo si era concluso con una penalizzazione di tre punti al Chievo e tre mesi di inibizione a Campedelli, confermati dalla Corte federale di appello e poi dal Collegio di garanzia dello Sport. Da allora, e con la successiva retrocessione dei clivensi al termine della stagione 2018/2019, i riflettori si sono spenti per sempre.
Il Chievo saluta così il palcoscenico del grande calcio sommerso da un debito monstre: solo quello tributario supera i 23 milioni di euro. Un fardello gravoso anche per chi è abituato ai miracoli. Una lenta agonia spenta dal verdetto della Covisoc e da due parole pronunciate dal presidente Gravina dopo la bocciatura da parte del Consiglio Federale: «Segnali allarmanti». I clivensi, che nel frattempo avevano iniziato la preparazione agli ordini del neo allenatore Marco Zaffaroni, ripartiranno dai dilettanti. Con l’accesso alla Serie D ancora incerto, il rischio è quello di ripartire da ancora più in basso. Il club ha comunicato la volontà di ricorrere al Tar del Lazio «per difendere i propri diritti, ribadendo di aver sempre operato in linea con le normative vigenti e federali per l’iscrizione al campionato di Serie B 2021/22». Ma la strada sembra a dir poco in salita.
La mesta fine del Chievo Verona evidenzia ancora una volta tutte le falle del sistema calcio italiano, con una Serie B stretta nella morsa dell’incubo fallimenti e di una riforma che tarda ancora ad arrivare. Il presidente della FIGC Gravina preme per una svolta epocale, con un campionato formato da due gironi in verticale (B1 e B2). Ma il tempo delle chiacchiere è finito, e la tempesta pandemica non ha ancora smesso di soffiare sul precario mondo del pallone di provincia, segnato da conti in rosso, ricavi azzerati e il ricordo dei tempi che furono. Come quello in cui agli asini spuntarono le ali, e iniziarono a volare.