Il tempo è un’intuizione di istanti frazionati, legati tra loro da un rapporto di causalità che ne determina inevitabilmente un carattere di continuità. È una parte naturale delle nostre vite, ma non è detto sia tratto distintivo delle carriere sportive. In particolare, non è ascrivibile a quella di Ángel Di Maria, che con i suoi dribbling funambolici ha spiazzato anche la continuità del tempo.
Le lancette del suo cammino sono volate alla stessa velocità con cui ha percorso le corsie laterali dei campi di mezzo mondo; è balzato da un istante, abbagliando spesso la critica con giocate inebrianti, a un altro subito dopo, sparendo nell’anonimato di pause e assenze che caratterizzano tristemente la sua carriera. Lo immaginiamo sempre imberbe, illuminato dalla gioia pura e immacolata della gioventù comporre con le mani un cuore, invero patetico, verso la telecamera con la faccia deformata dalla felicità. Un’immagine immortalata nella diapositiva del tempo che non è cambiata, dalla casacca rossa del Benfica degli esordi nel Vecchio continente alla doppietta recente contro il Real Madrid.
Già, il Madrid. Un lungo flashback del destino che in questo inizio di stagione sembra aver ricordato al Fideo che con il tempo ci giochi, ma non lo inganni: oggi Ángel Di Maria ha 31 anni e i ricordi superano di gran lunga le aspirazioni. Proprio con la maglia della Casa Blanca, Ángelito ha raggiunto l’apice del suo calcio nell’estate del 2014, un tempo che avrebbe potuto restituirgli l’immortalità dei grandi e che invece ha spezzato in poche settimane la continuità che sembrava battere i rintocchi del predestinato in turbine di gambetas y rabonas.
In un continuo ricorso storico, proprio al Da Luz di Lisbona, casa sua per 3 e stagioni e 3 titoli, la sua prova monumentale aveva consegnato al Real l’agognata ‘Decima’. Un’intuizione geniale di Carlo Ancelotti aveva spostato il Rosarino dall’esterno verso il centro del campo, sacrificando le doti di dribblatore del Fideo, ma esaltandone enormemente quelle di corridore, trasformandolo di fatto in un ‘tuttocampista’ impareggiabile. La sua qualità inesauribile sembrava l’alchimia perfetta per innescare le micidiali conclusioni di Ronaldo nel club e gli spazi visionari di Leo Messiin nazionale, consacrandolo a buon diritto best supporting cast della storia del Gioco. E dopo aver conquistato la Champions League a Maggio, il Fideo aveva puntato al colpo grosso del Maracanà.
E invece la continuità del tempo si è interrotta proprio in una città che, il tempo, non l’ha mai davvero conosciuto: Brasilia, in cui il logico equilibrio artificiale, fondato sulle teorie illuminate di Le Corbusier, urta così prepotentemente con l’imprevedibile infortunio di Di Maria durante il corso dei quarti di finale del Mondiale verdeoro. La stilettata alla coscia destra del rosarino è la fine della sua corsa personale verso la Coppa più ambita, ma anche un durissimo colpo per la Selección che da quel momento in poi non segnerà più. Riuscirà a sopravvivere alla sorte dei calci di rigore contro l’Olanda, ma non alla conclusione di Mario Götze che deciderà la finale più giocata nella storia dei Mondiali.
Ha raccontato Di Maria di averle provate tutte pur di giocare quella partita, di essersi iniettato qualsiasi antidolorifico consentito, mettendo a rischio l’integrità dei propri muscoli e opponendosi al peso politico decisamente rilevante di un Real Madrid tonante dall’altra parte del mondo, fermo nella sua decisione di preservare l’incolumità del giocatore (per poi rivenderlo poco dopo a peso d’oro). Non è stato nemmeno quell’episodio spiacevole a fermare l’ardore di Ángelito, sono state le lacrime esplose nella riunione tecnica con Sabella, traboccanti tensioni e incertezza che tradirono una situazione psicologica troppo instabile per rischiare un tale azzardo.
“Si soy yo, soy yo. Si es otro, entonces será otro. Yo sólo quiero ganar la Copa. Si me llamás, voy a jugar hasta que me rompa”, le dije. Y entonces me largué a llorar. No lo pude evitar. Ese momento me había sobrepasado, era normal.
La storia la sappiamo e dopo le lacrime, questa volta di tristezza, il riluttante trasferimento allo United ha definitivamente coperto la sua carriera di una coltre spessa quasi quanto l’aria della città all’epoca della Rivoluzione Industriale. Le incomprensioni con l’enigmatico Van Gaal lo spedirono prima del tempo nel tranquillo rifugio parigino, dove ancora cerca di rimettere insieme i cocci di una carriera che ha dato ormai buona parte del suo tempo.
Proprio come nei romanzi di Hemingway, che a Parigi trascorse anni disincantati dal sapore onirico, nei quali l’attesa riusciva a assurgere alla dimensione di immortalità, carica di aspettative e tensioni, Di Maria sta consumando la sua carriera nell’attesa: continuiamo ad aspettare che torni ai livelli di quella notte di Lisbona e ci inganniamo di fronte ai lampi, ormai sempre più rari, che riesce a regalare il suo calcio. Salvo poi deluderci, riparando nei meandri dell’ignoto e lasciandoci l’amara consapevolezza della sua assenza.
In questa eterna tensione verso l’atto, il Fideo, ha visto ripetutamente sfumare in delusioni i propri acuti, interrotti sempre da uno strano equilibrio psicofisico capace di fermarlo, sotto forma di infortuni muscolari, sempre a un passo dalla gloria con la Selección. Una fatalità patologica che è sempre coincisa con l’insuccesso dell’Albiceleste all’atto finale, aggiungendo al Mondiale le delusioni della Copa America 2015 e 2016, perse sempre contro il Cile, in una tripletta di fallimenti senza precedenti nella storia del calcio.
Oggi, per la prima volta il tempo è il vero nemico di Di Maria, l’ostacolo più grande per dare un senso a quelle gambe, che ispirarono il suo soprannome di ‘spaghetto’ (Fideo), ma che negli anni sono diventate anche tristemente fragili come la pasta lunga: così facili da spezzare, martoriate dai segni delle cicatrici di un calcio non adatto ai suoi muscoli ipotrofici. Un’ultima sfida. Un Mondiale per ricordare che i 35 palloni ricevuti dal piccolo Club Atletico El Torito, a titolo di compenso per il suo trasferimento al Central, valgono in fondo più degli oltre 160 milioni investiti nei suoi trasferimenti in Europa: i palloni che hanno alimentato un sogno mutato ormai in incubo per la generazione dorata di fine anni ’80 argentina.
Ma il tempo, sempre lui, continuerà a scorrere: i tre anni che lo separano dal Qatar non sono pochi per chi sta attendendo già da troppo, e per chi dall’attesa deve rinascere per riuscire dove ha fallito. Dare continuità agli istanti e tramite il tempo scrivere la storia.