Storia degli Eagles Supportes, anima e spirito della Lazio.
È il 1977 e, nelle case di tanti ragazzi romani, vengono consumati dalla puntina del giradischi due vinili su tutti: Io tu noi tutti di Lucio Battisti e Hotel California degli Eagles. Amarsi un po’, Sì, viaggiare e Neanche un minuto di non amore si alternano alle più rock Hotel California, Life in the Fast Lane e alla ballata Wasted Time. Battisti e gli Eagles diventeranno per quella generazione dei veri e propri punti di riferimento ed ispirazione.
Il primo per stile riservato e profondità dei testi. In un periodo storico che esige di schierarsi, soprattutto a sinistra, Battisti evade la polarizzazione (politica sì, ma anche sociale). Gli Eagles invece, insieme ai Clash e ai Pink Floyd, con le melodie delle loro canzoni fotografano il ritmo su cui viaggiano tanti ragazzi che scandiscono la propria esistenza tra curva e sezione politica. Proprio da loro prenderà il nome uno dei gruppi più rappresentativi nella storia del tifo laziale: appunto, gli “Eagles Supporters”.
All’inizio degli anni ’70 la curva è fortemente parcellizzata. I primi ultras, sicuramente lontani da ciò che questa parola significa oggi ma certamente ben organizzati per i tempi, compaiono nel 1971 con il CML ’74 (Commandos Monteverde Lazio). Questi manterranno sempre una loro indipendenza tanto che, ancora oggi, sono presenti al Gate 49 della Curva Nord, staccati tanto dagli Irriducibili prima quanto dagli Ultras Lazio poi.
Ma i primi ultras laziali si trovano anche in Curva Sud, dove troviamo gli Ultras, i Golden Boys, i Leopard di Ciampino, la Folgore, i C.A.S.T., i N.A.B., le Brigate S. Giovanni, la Falange, i Vigilantes, i Boys, i Tupamaros, i Marines, i Panthers e le Brigate Portuense.
«Il Vecchio Olimpico – racconta Stefano Greco, negli anni ‘70 agitato ragazzo di curva e tra i fondatori degli Eagles Supporters, oggi giornalista irriverente nel mondo Lazio – aveva tanti piccoli muretti che corrispondevano agli ingressi. Sopra ogni ingresso c’era un muretto e ogni gruppetto aveva il suo muretto. Non era un mondo unito, ognuno tifava a modo suo» . . .
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