Nel 1909 a Castellania, piccolo borgo alle porte di Tortona, la campagna richiama fatica e sofferenza. Sgorga lacrime e sudore che sanno di sangue, quello versato quando lo straniero varcò il confine e seminò il terrore. La Grande Guerra è alle spalle e sui reduci del conflitto regna il sorriso amaro del soldato vincitore. Domenico Coppi porta sul corpo i segni di quella follia. Zoppo da una gamba, il fegato devastato dai superalcolici ingeriti tutti di un sorso prima degli assalti. Un volto scavato dalle fatiche della campagna e dalla vita in trincea. Dopo le armi, la vita di Domenico, figlio di Angelo e fratello di Fausto, riparte dalla stessa terra che lo ha allevato.
I segni del massacro diventano eredità per Fausto Angelo, che riprende i nomi del nonno e dello zio, suoi padrini di battesimo. Alto, ricurvo, affetto da rachitismo. Esile, naso aquilino e gote incavate in un volto che incarna un perenne turbamento. Un corpo fragile a guardarsi ma straordinariamente unico. La madre di Faustìn, Angelina Bovari, sposò Domenico quando era ancora fanciulla. Ha le spalle larghe e un aspetto virile; una corporatura plasmata dalle fatiche della terra. Figlia di un modesto proprietario terriero, Angelina è la nipote del parroco del paese che vede in Fausto Angelo un destino da sacerdote, segnato dalla fede.
Già in tenera età, Faustìn lavora la terra e accudisce il bestiame con fare minuzioso. Il corpo si muove sotto la sola spinta del dovere. La mente e la testa vagano altrove, proiettate in un mondo lontano dagli schemi rigidi della vita contadina. Da adolescente si trasferisce, così, nella vicina Novi Ligure dove lavorerà come garzone in una salumeria. Ha schivato il piano architettato dallo zio prete per portarlo in seminario. A suo modo, Faustìn, seguirà un altro tipo di cammino religioso.
A Novi Ligure, ad accompagnarlo nelle consegne è una vecchia bicicletta da donna che risucchiava polvere nel retrobottega. Fausto la tira a lucido per mandar giù i colli tortonesi. La prima bici vera, invece, è una Maino grigia che papà Domenico strappa per 500 lire, 400 delle quali donate da zio Fausto, divenuto Comandante della Marina. Per molti un affare, dato che quel velocipede apparteneva a Costante Girardengo ai tempi del trionfo nel Gran Premio Wolber. Fausto, in realtà, tiene per Giuseppe Olmo e rimane ammaliato quando in casa si discute di Ganna, Gerbi e Girardengo.
Uno sport, il ciclismo, in cui regna la fatica. La stessa di Castellania e dei campi che sfamano le bocche dei Coppi. È per questo, forse, che le due ruote e i pedali lo affascinano così tanto.
Fausto sembra essere nato per patire. La sua vita assume i contorni di una perenne sfida alla natura dall’alto di doti fisiche fuori dall’ordinario. L’incontro che segna la svolta della vita di Faustín è quello con Biagio Cavanna, profondo conoscitore di ciclismo e storico massaggiatore di Binda e Guerra. Cavanna, che dal 1938 perderà definitivamente la vista, scruta ciò che non vede. Gli bastano pochi massaggi e qualche trucchetto del mestiere per riconoscere i muscoli di un predestinato.
Li tocca per studiare, comprendere, catechizzare. Quando Fausto, appena sedicenne, si siede per la prima volta sul lettino, le mani di Bias accarezzano una bestia rara. Sessanta chili, un metro e ottanta, rachitico. Cassa toracica fuori dal comune. Sette litri e mezzo. Una quantità mostruosa per accumulare ossigeno sotto sforzo. Le gambe allungate e ricurve nascondono cosce da ciclista. Le pulsazioni, a riposo, si aggirano sui trentaquattro battiti al minuto. Nonostante il rachitismo, la campagna e la fatica, il ragazzo è una macchina perfetta. Cavanna dovrà insegnargli il mestiere del ciclista. Per ricompensa avrà farina e fagioli, per il denaro ci sarà tempo. «Se mi seguirai, diventerai un campione», sentenzia. E Faustìn fa di Cavanna il suo angelo custode.
Nel 1938, a nemmeno venti anni compiuti, Fausto va a correre la Coppa Città di Pavia. Bias spedisce un pizzino a Giovanni Rossignoli, ex professionista e direttore sportivo della Bianchi: «Ti mando due miei allievi, Coppi e Bergaglio: vedrai, Coppi vincerà. Osservalo bene perchè assomiglia a Binda». Coppi vince ma a strappare il suo ingaggio è l’Avocatt Eberardo Pavesi, che lo porta alla Legnano per 700 lire. Dovrà fare da gregario al capitano Gino Bartali, il “Signor Bartali”.
Bartali ha cinque anni in più di Coppi ed ha già vinto due giri d’Italia e un Tour de France. È considerato il corridore più forte dell’epoca e uno dei più grandi di sempre assieme a Binda, Girardengo, Guerra e Bottecchia. Ginettaccio viene dalla campagna. Ponte a Ema, guardiana minuscola di Firenze ai piedi del colle di Fattucchia. Terre di aratri, buoi e levatacce mattutine. Bartali è nato tra la stessa gente dei Coppi. La terra fiorentina come quella tortonese, coltivata dal sudore della fronte e alimentata dall’instancabile dovizia. Bartali e Coppi sembrano più simili di quanto possa sembrare.
Condividono la stessa culla. Sognano la medesima fuga.
Il ciclismo, per Fausto, nasconde la sofferenza della vita contadina. Ma la bicicletta è anche libertà, talento, fuga. Da qualcosa o verso qualcosa. Per alleviare i mille turbamenti di un’anima destinata alla dannazione, gli basta montare in sella e pedalare, cavalcare, volare. Maestoso, imperiale, leggiadro. Le gambe lunghe e sottili mulinano rapporti improbabili per l’epoca, la posizione ricurva pare completare il mezzo meccanico. Coppi è la naturale evoluzione della bicicletta. Il suo sguardo malinconico e provato traccia la strada verso la gloria. La stessa per cui si battevano Ettore e Achille. L’epica di Coppi è raccontata da montagne tenebrose e mulattiere che si arrampicano verso il cielo. L’Abetone, l’Izoard, il Galibier e lo Stelvio come Troia, Sparta, Atene e i Dardanelli. Coppi è un Giotto o un Brunelleschi, fiorentini come Bartali.
Ginettaccio è nemesi, incubo, ossessione, glorificazione. Ha l’aria da guascone e l’animo buono come il pane. È una fonte inesauribile di storie fantastiche. Al contrario di Coppi, che è riservato e parla il giusto. Bartali adora le bistecche al sangue accompagnate da un bicchiere di buon rosso. Di tanto in tanto tira fuori una Gauloises che brucia mentre accompagna la notte. Fausto è attentissimo all’alimentazione e al recupero fisico. Mangia petto di pollo e beve soltanto acqua minerale e tè. Mai a letto più tardi delle nove. Gino rimane sveglio fino a tardi. Racconta, fuma, illumina. Fausto è schivo, quasi isolato. Pensa alle fatiche passate e a quelle che lo attendono. Alla vita che lo circonda e a quella che si è lasciato alle spalle.
Coppi ha rinnegato la fatica, la terra, Castellania e i colli tortonesi.
Ha tradito persino la moglie Bruna, ultimo ricordo della miseria delle origini. Ha scelto Giulia, la Dama Bianca, moderna, elegante, borghese, acculturata. Viene condannato per adulterio in un’Italia ancora prigioniera di se stessa. Un Paese schiavo delle tradizioni incarnate dai democristiani e da Bartali, ligio alle consuetudini e devoto a quella stessa fede che, secondo il parroco di Castellania, avrebbe dovuto sposare anche Faustín. Coppi, divenuto Campionissimo come Girardengo, rinnegherà anche quella.
La Dama arriva dopo i giri d’Italia, i Tour de France, le Sanremo, i record e la gloria. È il traguardo di una vita trascorsa perennemente in fuga. Lungo il cammino, Fausto ha perso un’altra parte di sé. Serse, ottavo genito di Domenico e Angelina. Il più piccolo di casa. Guardava Fausto con dolcezza e ammirazione. Farà anche lui il ciclista. Naso alla Coppi (o alla Bovari) e senso dell’umorismo ereditato da papà Domenico insieme al rachitismo. Serse muore per i traumi riportati dopo una caduta al Giro del Piemonte.
Durante lo sprint finale, la ruota della sua Bianchi rimane incastrata nelle rotaie del tram. Serse picchia la testa sul marciapiede. Si rialza e torna in albergo frastornato ma in salute. Dopo cena si prepara ad un appuntamento galante. Pare sia finalmente la “donna giusta”. Quella donna Serse non la rivedrà mai più. Ricoverato d’urgenza dopo un collasso, spira al mattino seguente. Fausto accusa il colpo, vuol mollare tutto. E invece torna più forte di prima coronando un magico 1952 con la seconda doppietta Giro-Tour.
Coppi vede la bicicletta come evasione. Ama la solitudine anche sui pedali. Per cinquantotto volte (su centocinquantuno vittorie totali) giungerà al traguardo da solo, lontano da tutti. Dal passato che richiama miseria, da Bartali, dal rachitismo, dalla Dama. Coppi ha conosciuto l’epica del trionfo, della leggenda, del mito. Ha sconfitto la fame, l’emarginazione, la natura, il “Signor Bartali” e persino la guerra. Fatto prigioniero dagli inglesi in Nord Africa durante la Seconda Guerra Mondiale, Fausto riuscì a cavarsela tornando in Italia come “prigioniero cooperante”.
Faustìn ha scelto il gelo della seconda notte del 1960 per la sua ultima fuga. Prima di Natale il viaggio in Africa per un criterium nell’Alto Volta insieme ad altri campioni dell’epoca come Anquetil, Gimignani, Riviere, Anglade e Hassenforder. Dopo l’esibizione, prendono parte ad una battuta di caccia. Animali mai visti prima. Coppi viene punto dal plasomdium falciparium, un minuscolo parassita portatore di malaria. Al rientro in Italia Coppi ha le febbre altissima. I medici pensano ad un’influenza più forte del solito. Sbagliano.
Fausto, in realtà, ha contratto la malaria. I medici non se ne accorgono. Le condizioni del Campionissimo precipitano nel pomeriggio del 1 gennaio. Viene ricoverato prima a Novi Ligure e poi a Tortona, dove, a soli quarant’anni, muore alle 8.45 del mattino del 2 gennaio. L’angelo si è alzato in volo. Per l’ultima volta. Quella che porta alla leggenda.
A cento anni dalla nascita del figlio prediletto, Castellania ha cambiato nome in “Castellania Coppi”. Novanta anime in un luogo che trasuda memoria. Castellania è dove tutto ebbe inizio, lì dove l’Airone spiegò le ali per non richiuderle più. Fausto Coppi ce l’ha fatta. Ha sconfitto la miseria fuggendo verso la gloria. Ha affilato le armi, combattuto, caduto e infine si è tirato su. Come un eroe omerico: Coppi è salito al cielo stremato, distrutto, logorato. Nel corpo, nell’animo, nella mente.
“Troppo intensamente aveva vissuto per reggere ancora alla vita. In quarant’anni ha letteralmente bruciato anche se stesso. Ha sofferto l’esistenza dei poveri e le si è ribellato con sacrifici di epica imponenza. (…) Dirò di Fausto Coppi che non era mai nato nel nostro paese e forse neppure nel mondo; e quando ha capito che sopravvivere a se stesso non era impossibile, ma certo sconveniente, per uno come lui, con infinita tristezza ha deciso di abdicare e di lasciarci. Il destino beffardo gli ha consentito di evitare il suicidio offrendogli un scappatoia impensata. (…) Del resto gli eroi autentici vanno per tempo rapiti in cielo. Non possono vivere fra noi, al nostro mediocre livello”.
La débâcle azzurra è davvero lo specchio del Paese dal quale è stata generata? Dove ricercare le cause? E come ripartire? Lo abbiamo chiesto ad alcuni tra i migliori scrittori, giornalisti, blogger e sociologi di casa nostra.