Controritratto del Comandante, rinato in Brasile e popolare come non mai.
Cachorro Louco. Tradotto dalla meravigliosa lingua di Paulo Coelho, letteralmente, corrisponderebbe a una sorta di cane rabbioso. Attenzione alla prima impressione, però, perché in Brasile il cane, nella sua accezione più metaforica che animalesca, ricopre un ruolo di primo piano all’interno dello sconfinato panorama folkloristico carioca.
Alla specie canina è dedicato l’intero mese di agosto, per dirne una. Ed è proprio ad agosto che nel Paese si ricordano i “vira latas” (cani randagi), ossia gli operai dissidenti nei confronti del dittatore Getulio Vargas. Difatti il caudillo non riscosse mai consensi nella classe popolare, come quella che da sempre domina il tessuto urbano di Volta Redonda.
Altresì nota come la Città d’Acciaio, questo comune poco distante da Rio marcia al ritmo della Companhia Siderurgica Nacional. Il protagonista di questa storia nasce nel 1983 proprio lì, nell’epoca dell’exploit industriale voluto dalla presidenza Medici, e dei primi scioperi organizzati. Felipe Melo de Carvalho cresce in sostanza tra il piombo e il calore, assorbendo la tempra delle tute blu, perché la testa, lui, ha imparato presto a non chinarla.
Figlio del proletariato brasiliano, Felipe apprende fin dalla prima giovinezza la cruda realtà della lotta di classe. Vorrà sempre affermarsi sul padrone, il brasiliano, al costo di pagarne le conseguenze. Il background infantile influisce nella formazione sportiva e politica di Felipe, tanto da presentarsi al football europeo come “Ousado”. Tale soprannome di arrogante o rissoso deriva proprio da uno scontro ad armi bianche che lo obbligherà a lasciare il Gremio, tentando l’avventura extra continentale.
In Italia trova pane per i propri denti, toccando Firenze, Torino e Milano a suon di tacchetti e gomiti alti, scontrandosi con una realtà in apparenza a lui confacente, ma forse ostica a un personaggio distante dal pentimento. Non a caso, l’ultima immagine che il mediano lascia alla grande scena internazionale è la scalciata ad Arjen Robben durante il mondiale del 2010, causa (in)diretta dell’eliminazione dei verdeoro.
La cinica stampa brasiliana, seconda soltanto ai tabloid inglesi in quanto a critica ed esigenza, crea addirittura un neologismo per quel gesto sconsiderato: Felipazo. Melo è costretto ad allontanarsi dal calcio nazionale, ed è in questo preciso momento che è costretto a tirar fuori la lungimiranza. Un valore impercettibile che il lavoratore conosce bene, nel guardare oltre la monotonia dei propri gesti, immaginando il prodotto finito e la retribuzione.
Di tempo ne è trascorso perché dopo tredici anni Felipe Melo ritorna in Brasile, accolto come lo sarebbe il colonizzatore Vasco da Gama ai giorni nostri. A fare le veci di casa Palmeirasc’è l’allenatore Cuca, il quale si riserva appena una gara per poi estromettere il centrocampista dalla rosa. La lite che ne scaturisce diventa un caso mediatico a tratti westerniano: non c’è posto per entrambi in questa città. E, stavolta, l’operaio prevale sul padrone, perché a furor di popolo Felipe Melo viene reintegrato e nominato capitano della squadra.
Dietro c’è la mano esperta del direttore sportivo Alexandre Mattos, abile nell’intuire la voglia di riscatto del suo numero 30, in procinto di affermarsi come miglior centromediano del brasileirao. Fascia al braccio e polsino da basket inspiegabilmente posto sulle nocche, quasi fosse un tirapugni, maglia dentro i calzoni e fisico portentoso da sfoggiare a ben trentasei anni, così Felipe Melo ha deciso di trovare la propria dimensione ideale, lasciandosi alle spalle i nemici, tuttora presenti tra le fila giornalistiche.
Si è caricato sulle spalle l’intera carovana alvi-verde per oltre 100 partite, prima di trovare, forse, gli unici mentori della sua carriera. Si tratta di due personaggi molto simili a lui, combattivi e poveri di compromessi. Il primo è Jair Bolsonaro, la cui elezione è stata sostenuta dagli “atleti di Cristo”, cioè gli sportivi evangelisti, fra cui Felipe Melo. La connessione con il premier sta, a quanto dichiarato, nello stile politicamente scorretto che il giocatore ha giudicato sincero, e contrapposto alla corruzione che ha imperversato nella politica brasiliana; inoltre l’attenzione di Bolsonaro alle favelas, dove Felipe Melo è cresciuto, è un ulteriore motivo di legame.
La seconda figura è un vagabondo del calcio, capace di occupare circa quaranta panchine diverse, conquistando una Copa America con la Seleção e rimediando una clamorosa disfatta alla guida dei Galacticos. Ronaldo, Roberto Carlos, Zidane, Figo, Beckham, era questo il Real Madrid con cui Vanderlei Luxemburgo non vinse nulla. Con Luxemburgo è un vero e proprio sodalizio, poiché il tecnico valorizza a pieno le qualità che Melo ha addirittura potenziato: la stazza e la gestione della sfera.
Arretrandolo nella linea a quattro dei difensori, al fianco dell’ex meteora milanista Gustavo Gòmez, ne è venuto fuori un centrale impeccabile. Secondo le statistiche, Melo primeggia intanto nella precisione di lanci lunghi; una tecnica di base non eccellente ma certamente discreta, unita ad una posizione del campo dove può occuparsi di coprire più che di inventare, lo rendono infatti un eccellente primo costruttore di gioco. Dal punto di vista disciplinare poi la crescita è magistrale: sono soltanto due le ammonizioni raccolte in questa stagione, oltre ad una quantità indecifrabile d’interventi puliti, tackle sempre tempestivi e mai superflui.
Felipe Melo è stato infatti tra i promotori dell’iniziativa di scendere in campo con le mascherine, proprio per protesta contro le misure tardive adottate dalla Federazione che avrebbero influito sulla positività di Jorge Jesus e altri professionisti brasiliani.
Il Comandante domina incontrastato i cieli del Brasile; nel fondamentale del colpo di testa, è uno dei migliori in Sudamerica. Personaggio da romanzo di formazione, Felipe Melo sta vivendo alla grande la propria maturità. Una crescita anche sociale, che lo ha visto portavoce della recente campagna – in cui si sono trovati contrapposti calciatori e Federcalcio – per ottenere lo stop delle serie brasiliane causa COVID-19. Egli è stato infatti tra i promotori dell’iniziativa di scendere in campo con le mascherine, proprio per protesta contro le misure tardive adottate dalla Federazione che avrebbero influito sulla positività di Jorge Jesus e altri professionisti brasiliani.
Ultimamente è diventato testimonial per molte campagne di sensibilizzazione e prevenzione al Coronavirus, mediando nelle controversie tra la CONMEBOL e la CBF proprio in merito allo stop della massima serie e delle competizioni continentali. Nel frattempo la personalità di Felipe Melo è rimasta intatta, spopolando anche sui social tra dichiarazioni d’amore per il Boca Juniors, e quindi astio verso le gallinas, e challenge autoironici. In fondo errare è umano, cadere è comune, ma essere in grado di ridere di se stessi è maturità.