Intervista con Giovanni De Carolis, degno rappresentante del vero spirito italiano: umile e talentuoso lavoratore con lo spirito in fiamme ed il sorriso gentile.
Ogni campione cela fatiche, timori, incertezze. Il dovere di chi racconta lo sport è anche quello di andare oltre le statistiche, oltre i trofei, per scoprire l’anima di un atleta. Limitare il concetto di sport e di competizione a favore di gelidi palmarès, è il rischio che si corre se non si allargano le analisi tecniche all’approfondimento del lato umano. Giovanni De Carolis, ultimo italiano campione del mondo WBA di boxe, incarna a pieno il concetto di talento puro, di pugile acclamato a livello internazionale ma anche, e soprattutto, di individuo dalle grandi doti umane. Il talento romano, oltre al titolo mondiale WBA, vanta un titolo italiano, un titolo mediterraneo WBC e un titolo internazionale IBF. Premi e trofei frutto di un retroterra personale senza trucchi e senza inganni, costruito nel sudore, nel lavoro e nella perseveranza. Un’ispirazione per migliaia di ragazzi. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare la sua storia in movimento, che appena possibile lo vedrà sfidante al titolo EBU europeo, e per ragionare con lui sullo stato di salute della Nobile Arte.
Giovanni, in diverse interviste hai dichiarato che la tua storia, umana e pugilistica, è diversa dagli stereotipi classici della boxe: nessun dramma familiare, nessuna storia fatta di ghetti e rivincite sociali. Raccontaci come è iniziato il grande amore che ti lega alla boxe.
Mi sono avvicinato alla boxe un po’ per caso. Andavo in palestra per cercare di irrobustirmi, giocavo ancora a calcio e per curiosità mi affacciai nell’area dedicata alla pre-pugilistica dove parecchi ragazzi facevano circuiti e saltavano la corda: sentivo parecchia energia nell’aria. Volli provare senza nessuna velleità di competizione, solo per puro allenamento. Imparando le basi mi accorsi di amare questo sport e da quel momento non lo lasciai più.
Le carriere dei pugili leggendari iniziano, spesso, con grandi ed eclatanti vittorie. Anche in questo caso la tua storia risulta essere singolare: dopo circa 7 match da professionista affronti in Ucraina l’esperto Bursak, subendo una sconfitta per TKO all’ottava ripresa. Il tuo esordio internazionale è macchiato, quindi, da una sconfitta che elabori però fin da subito, costruendoti la strada per il titolo mondiale. Come ci si rialza dopo una sconfitta del genere?
In realtà la mia prima sconfitta avvenne quando ancora ero un dilettante. Fu una batosta perché avevo davvero tante aspettative. La sconfitta con Bursak, in particolare, fu una doccia fredda. Ebbi forse la presunzione di ritenermi un buon pugile quando in realtà non era esattamente così. Ho lavorato su me stesso mettendo tutto in discussione. Ho concentrato il focus su ciò che poteva essere migliorato. Per rialzarsi c’è solo una strada da seguire: bisogna essere convinti che fino a quando non sei tu a decidere che sia finita, non sarà mai finita.
Un titolo meditteraneo Wbc, un titolo internazionale Wbc e Ibf conquistati prima di quel 9 gennaio 2016, che rappresenta un giorno importante per te, ma anche e soprattutto, per il movimento pugilistico italiano: ti laurei campione del mondo Wba contro Feigenbutz, astro nascente della boxe tedesca, concludendo il match per K.O. Conquistare un titolo così importante cosa ha significato per te?
Quel match per me ha significato davvero molto. Ripensando a tutto il duro lavoro fatto in palestra con i miei maestri e alla sopportazione dell’enorme pressione mediatica che gravava sulle mie spalle, portare a casa un risultato così importante mi ha gratificato molto. Sono stato investito da un’onda di emozioni indescrivibili. Per vedere i risultati bisogna crederci fino in fondo: raggiungere un sogno che rappresenta la coronazione di una filosofia di vita è il massimo.
Dopo la conquista del titolo, nel 2016, sei costretto a difenderlo per obblighi contrattuali per ben due volte nell’arco di 4 mesi, contro il tedesco Zeuge appartenente alla Promotion Sauerland. In un’intervista per Vice racconti, inoltre, che qualora ti fossi rifiutato di combattere saresti andato incontro ad una multa che si attestava tra i 100.000 e i 700.000 euro. Alla luce di questo, in Italia, quanto penalizza i pugili nostrani la quasi totale assenza di promotion del genere, a sostegno degli atleti?
La mancanza di una organizzazione potente in Italia penalizza soprattutto i pugili che combattono all’estero. Nel pugilato chi combatte in trasferta mette in conto che i giudici, alla fine di un incontro equilibrato, possano favorire il pugile di casa. Sicuramente non è una consuetudine che fa bene alla boxe ma bisogna accettarla. Questo dipende principalmente dal business che circonda il mondo della boxe. Personalmente provo a sfruttare questa situazione di penalizzazione spingendomi davvero all’estremo, dando l’anima sul ring, quando vado all’estero. Questo perché sono consapevole di questa regola non scritta.
In merito al documentario, “Vita da pugili”, che ti vede protagonista nel raccontare la tua carriera, hai più volte dichiarato che nonostante fossi un pugile professionista dovevi comunque svolgere altri lavori per vivere senza poter usufruire stabilmente di staff specializzati. Oggi la tua storia è cambiata ed eserciti il tuo professionismo 365 giorni l’anno. Come si arriva a poter vivere di pugilato in Italia, constatando che il movimento pugilistico italiano non garantisce certezze economiche ai suoi atleti ad inizio carriera? Cosa manca in sostanza per ridurre il gap con i movimenti inglesi o americani?
In realtà la situazione che viviamo in Italia non è così distante da quella che si vive ad altre latitudini. I pugili non vengono ingaggiati dalle grandi promotion fin da subito se ad esempio non hanno conquistato delle medaglie olimpiche. Di recente sono stato in Inghilterra, per dello sparring di preparazione, e mi hanno raccontato che all’inizio delle loro carriere i pugili locali vendevano loro stessi i biglietti dei loro match per guadagnare qualcosa. Io per anni ho “stretto la cinta”, ho fatto il cameriere ed altri lavori per diverso tempo prima di raggiungere qualche buon risultato e diventare allenatore. Per diminuire il gap credo che la soluzione più importante sia quella di coinvolgere i media, con conseguenti sponsorizzazioni, per sostenere i ragazzi e non distoglierli dall’obiettivo. Quindi, purtroppo, questo è un problema comune all’intero movimento pugilistico.
A livello individuale la boxe, oggi, si concentra molto su lavori specifici di preparazione atletica. Esercizi di condizionamento fisico, di forza ed esplosività stanno alla base delle preparazioni. A tuo parere quanto aiuta questa evoluzione tecnica? E a proposito del tuo prossimo terzo match con Zeuge, che miglioramenti riscontri rispetto al passato?
L’evoluzione nei metodi di allenamento aiuta principalmente ad allungare le carriere dei pugili. Se vai a guardare le statistiche constati che i primi dieci pugili, delle classifiche mondiali in ogni categoria di peso, hanno un’età avanzata rispetto a classifiche di 10 o 15 anni fa. Ne beneficia lo spettacolo ma anche e soprattutto la tenuta fisica degli atleti che, statisticamente, vedono diminuire sensibilmente il rischio infortuni. Più sei longevo, maggiore sarà la possibilità di migliorare fino a quando, naturalmente, madre natura non detta legge e pone fine alla tua carriera. È fuori dubbio che il livello tecnico-specifico del singolo si sia alzato.
In Italia, nonostante un passato glorioso, il pugilato non si attesta tra i primi posti nelle classifiche degli sport più seguiti e praticati. La macchina mediatica italiana, con Dazn e giornalisti del calibro di Niccolò Pavesi, sta cercando di invertire la tendenza. Quanto è importante la comunicazione, anche tramite social, e quanto invece può rappresentare un rischio di ridurre il tutto a circo mediatico?
I social media sono una parte importante della vita di ogni atleta, come fossero biglietti da visita. In passato potevi farti conoscere solo in tv, oggi invece arrivi dappertutto. Possono rappresentare, però, anche un’arma a doppio taglio perché puoi anche diventare conosciuto senza avere grandi doti. Forse la responsabilità più importante dei media è quella di far capire alle persone il valore reale delle cose. L’utilizzo dei social io comunque lo giudico positivamente. Non ci trovo nulla di male, ad esempio, nell’incontro tra gli youtubers KSI e Logan Paul, il punto è che spetta agli addetti ai lavori promuovere al meglio gli atleti e soprattutto questo sport che adesso, a mio parere, vivrà una nuova rinascita.
Kobe Bryant ha più volte dichiarato che i campioni hanno il dovere di trasmettere il loro sapere ai giovani. In vista del tuo terzo match con Zeuge, valevole per il titolo europeo, stai svolgendo una preparazione intensissima. Come concili la tua carriera con la tua attività di allenatore e soprattutto anche tu, come Kobe, senti il dovere di trasmettere tutto te stesso ai giovani?
Ho iniziato ad allenare i ragazzi 13 anni fa. Fin da subito ho capito quanto questo fosse importante per me, per l’energia che mi dava e per quanto fosse forte il desiderio di trasmettere una passione. Quello che ha detto Kobe è fondamentale: nel senso che per noi è un dovere far avvicinare i giovani allo sport, a prescindere dalla carriera che faranno. Io sono fortunato perché ho uno staff, diventato una vera e propria famiglia, che mi aiuta quando sono in preparazione soprattutto con i più giovani. Quando sento l’energia del gruppo, unito come una falange per raggiungere l’obiettivo comune, trovo una forza infinita.
La certezza riscontrata dal commediografo inglese William Somerset, secondo cui un personaggio per prendere vita debba essere un po’ la rappresentazione di noi stessi, calza a pennello con la figura di pugile che incarna Giovanni De Carolis. Degno rappresentante del vero spirito italiano: un umile e talentuoso lavoratore con lo spirito in fiamme ed il sorriso gentile.
Foto di copertina gentilmente concessa da Scattisportivi.com/Sport Photography