Interviste
14 Febbraio 2019

Il miracolo di Gordon Banks, ep. 2

Intervista al miglior portiere della storia d'Inghilterra, parte II.

La seconda e ultima parte dell’intervista a Gordon Banks (qui trovate la prima), realizzata a Londra per il documentario “Bobby 66”. È stato un onore per noi intervistare in esclusiva una leggenda del calcio inglese e non solo, di cui abbiamo ripercorso le tappe della giovinezza e della carriera. Un personaggio – ancor prima che un atleta – fantastico, disponibile e di grande cuore: di altri tempi e di un altro calcio. Riprendiamo da dove avevamo lasciato, dall’ “incidente diplomatico” occorso a Bobby Moore, nell’ultima intervistata rilasciata da Gordon per il pubblico italiano.

 


Ora, prima dell’inizio della Coppa del Mondo, la preparazione dell’Inghilterra è stata macchiata in qualche modo dall’incidente a Bogotà. Qual è stata la tua impressione a riguardo?

Appena l’ho sentito non potevo crederci. Conoscevo Bobby Moore tanto bene quanto lo conosceva il resto della squadra. Sapevo che era un gentiluomo. Non era certo il tipo di giocatore che avrebbe rubato qualcosa. Così quando l’ho sentito non potevo crederci. Io non so se hai sentito come andarono le cose, ma è accaduto proprio quando eravamo pronti a tornare in Messico, per giocare le partite del girone. E per tornare ad allenarci. Qualcuno è venuto da me per chiedermi se avevo sentito la notizia. Bobby doveva rimanere lì, doveva andare in commissariato, o in tribunale, non so, a causa di questo furto. A chiunque me lo chiedesse rispondevo: “Mi state prendendo in giro?”. Ad ogni modo, Alf o non ricordo bene chi venne da noi e ci disse che Bobby sarebbe dovuto rimanere lì. Aggiunse di non preoccuparsi perché qualcuno della federazione sarebbe rimasto con lui per assicurarsi che tutto andasse per il meglio. E concluse dicendoci: “Voi ragazzi potete andare, non vi dovete preoccupare. Anzi dovete tornare e prepararvi al meglio per l’inizio della Coppa del Mondo”. Questo è quello che successe. Noi ci fidammo. Bobby alla fine fu rilasciato [dopo 4 giorni di carcere, ndt]. E ci raggiunse. Ma la cosa incredibile è che in quel periodo una compagnia di cinema americana stava girando un film da quelle parti, e la stessa cosa capitata a Bobby accadde anche ad uno dei componenti del cast (risate). Ciò dimostra che si trattò di una truffa. Incredibile.

Nei primi anni della sua carriera, Moore ebbe un cancro ai testicoli, e giocava già per l’Inghilterra all’epoca. Ne eri a conoscenza?

Per niente, assolutamente no. Ne venni a conoscenza solo molto tempo dopo. Rimasi scioccato. Fu tremendo. Questa è la vita, non è vero? Però questo era Bobby. Non voleva agitare nessuno, suppongo. Un uomo adorabile, non lo dimenticherò mai. Lui, come Alan Ball. Grandi uomini, non potresti incontrare persone migliori. Sempre pronti fuori dal campo a ridere e scherzare, e a fare il meglio il loro lavoro sul rettangolo verde. Grandi persone, davvero.

Gordon, che ricordo hai degli Anni 50, quando eri solo un ragazzino?

Innanzitutto, la mia famiglia era molto povera. Non avevamo soldi, io ero l’ultimo di quattro figli, e come mio padre e mia madre lasciai la scuola a quindici anni. Il mio primo lavoro è stato in una fabbrica di carbone locale. Poi ho deciso di cercare un lavoro migliore. Mio fratello, che all’epoca stava lavorando in un cantiere, mi diede un lavoro come muratore. Ma loro mi usavano come un tuttofare, facendomi svolgere ogni sorta di compito. Ad esempio il sabato mattina attaccavo a lavorare presto, finivo all’ora di pranzo, a quel punto correvo a casa, mi lavavo e vestivo e mi precipitavo a Sheffield, per vedere o il Wednesday o lo United [ndr, sono le due squadre di Sheffield], ce n’era sempre una delle due che giocava in casa. E non vedevo l’ora di vederli giocare. Apprezzavo ogni istante, dall’entrata in campo al boato del pubblico, lo adoravo. Uno di quei sabati, poi, ho perso il bus. Ho pensato che fosse inutile andare, a quel punto, perché sarei arrivato all’intervallo. Quindi sono andato a vedere la squadra locale. Vicino casa, dove tiravamo i primi calci al pallone. Ero appoggiato sulla staccionata guardando il riscaldamento, quando un tizio venne da me e mi disse: “Non sei tu quello che gioca in porta a scuola?”. “Sì, perchè?”, risposi io. Lui mi disse: “Il nostro portiere è out. Te la senti di giocare?”.  “Sì, giocherò”. Non potevo credere che me l’avessero chiesto. Non avevo i pantaloncini, così giocai con la tuta da lavoro. Mi diedero gli scarpini per giocare, quindi mi prestarono la maglietta verde. A fine partita mi dissero: “Vuoi giocare con noi regolarmente?”. Lì fu dove tutto ebbe inizio. Così feci un provino per un club chiamato Roemarsh Welfare che giocava nella Yorkshire League. Presi 12 gol. Non ci potevo credere. Pensai che era finita. Quindi tornai dal club con il quale giocavo, e alla fine della stagione si presentò il Chesterfield. Con loro firmai un contratto da amatore, mentre ancora lavoravo al cantiere. Quindi ebbi un contratto da semi-professionista all’età di 17 anni. Poi ho fatto il servizio militare, dai 18 ai 20 anni. A quel punto mi fecero firmare un contratto a tempo pieno.

Quando hai capito di voler diventare un portiere? Questo non è esattamente il primo ruolo che un ragazzo ha in mente quando inizia a giocare.

Quando ero a scuola, giocavo a calcio con gli altri ragazzi, perché non c’era nient’altro da fare. Nessuna televisione, c’era solo la radio. Così andavamo fuori e giocavamo a calcio. Nessuno voleva giocare in porta, a nessuno piaceva. Quello che facevamo, solitamente, era girare a turno. Per ogni gol preso, si cambiava portiere. Quando arrivava il mio turno, iniziavo a tuffarmi, facendo qualche salvataggio. Ho iniziato a pensare che mi piaceva, che non era così male, anzi era eccitante. L’ultimo anno, avevo 14 anni, venne da me l’insegnante di sport, chiedendomi se volevo giocare nella squadra della scuola. Mi chiese anche in che ruolo preferivo giocare. E io gli chiesi, a mia volta, in quale fossero più scoperti. Mi fece notare che la squadra non aveva un portiere; così ho accettato di giocare in porta. Credo che fu quella la volta in cui mi resi conto dove volevo giocare, e per sempre.

Fantastico. All’inizio abbiamo parlato del tuo primo incontro con Bobby. C’era sempre una certa aurea intorno a lui, qualcosa di speciale lo caratterizzava. Ricordi qualcosa del genere la prima volta che lo incontrasti al West Ham?

Assolutamente. Il modo in cui si vestiva. Non ho mai visto nessuno che sembrava così immacolato come Bob. Addirittura in campo, sembrava immacolato, dall’inizio alla fine. Anche nel fango. Non chiedermi perché, o come. Qualsiasi cosa faceva, da capitano, da compagno di squadra, da amico, tutto in lui parlava del fuoriclasse che era.

C’è qualcosa di vero riguardo al fatto che eri solito usare una gomma da masticare per rendere la tua presa più sicura?

E’ vero, lo facevo. All’epoca non c’erano i guanti. Li mettevamo soltanto in caso di pioggia. Erano guanti di lana, niente a che vedere con quelli di oggi. Era un’usanza abbastanza diffusa, quella della gomma. Si masticava per qualche minuto, per poi spalmarla sulle mani, in modo da ottenere una presa più sicura. Ricordo che una volta, poco prima dell’inizio di una partita, andai in panchina per prenderne una, ma non c’erano gomme da masticare. Così andai da Alf per chiedergli che fine avessero fatto, e lui, rivolgendosi a Harold Shepperton, gli chiese dove fossero. Harold, che era solito portarle, se ne era dimenticato. Così uscì da Wembley in fretta e in furia per comprarne un pacchetto. Mentre stavamo uscendo dal tunnel me ne portò una, proprio all’ultimo. Non potevo giocare senza. Proprio non potevo.

 

Banksy in volo

 

Torniamo al racconto del 66. Abbiamo parlato della partita contro l’Argentina e dell’atmosfera che si respirava quel giorno. È vero che Alf e Bobby si sono spesso confrontati sull’atteggiamento in campo e che Bobby qualche volta ha persino fatto di testa sua durante le partite?

Parlavano spesso durante l’allenamento, si confrontavano. Però alla fine, era Alf ad avere l’ultima parola. Non andava da Bob per avere la conferma definitiva. Bob a sua volta voleva assicurarsi di essere ascoltato da Alf, e come capitano stava attento a che tutti svolgessero il proprio compito al meglio.

La squadra del ’66 era caratterizzata dalla buona volontà del collettivo, che riuscì a mettere da parte l’interesse dei vari gruppi, nonostante ci fossero tre giocatori del West Ham. Per usare un proverbio, una grande e felice famiglia ha bisogno di qualche eccesso. C’era effettivamente un autentico senso di cameratismo?

Giocavamo ogni sabato, l’uno contro l’altro. Ci conoscevamo a vicenda, ma insieme eravamo uniti. Qualcuno amava gli scherzi, altri preferivano una bevuta, ognuno aveva i suoi gusti. Per noi l’importante era sentirci una squadra, e siamo riusciti a lavorare tutti insieme, creando un bel gruppo, per portare a casa la vittoria.

Hai parlato incredibilmente bene dell’atmosfera che ha preceduto la finale. È vero che Alf vi ha parlato uno ad uno prima di dirvi cosa dovevate fare?

Sì, l’ha fatto. Voleva assicurarsi che ogni piccolo dettaglio, anche a livello individuale, fosse curato. Venne da me e mi disse: “Gordon, la loro ala destra è molto forte, crossa bene e sa calciare con entrambi i piedi. Se rientra sul mancino, stai attento, perché può calciare molto forte”. Ricordo che avanzai oltre la mia linea di porta quando lui si portò la palla sul suo piede preferito, fece partire un tiro che mi costrinse a una grande parata. Così pensai: “Grazie Alf, mi hai aiutato enormemente” (risate).

Cosa hai pensato mentre eri nel tunnel degli spogliatoi? Vi sarà sembrata un’eternità, non è vero? George Cohen ad esempio ha detto che era in preda all’ansia, mentre c’era chi sembrava più tranquillo. Ma a te cos’è passato nella testa in quel momento?

Volevo soltanto che iniziasse la partita. Il nervosismo mentre si è lì, in quel tunnel, è una cosa quasi inspiegabile. Vuoi soltanto che la partita inizi, e quell’attesa rende il tutto atroce. Ma quando siamo entrati, dopo aver cantato l’inno, dopo esserci scaldati, e dopo che il fischio d’inizio è arrivato, tutto è scomparso. L’ansia non c’era più, c’era solo tanta adrenalina, e tanta concentrazione. Sapevo di dover fare il mio lavoro, nulla di più. L’ho fatto.

La Germania ha pareggiato nei minuti finali, probabilmente nel minuto finale. Sapresti descrivere quel momento?

Era un calcio di punizione. Era distante circa una trentina di metri, sul lato destro della mia porta, fuori dall’area di rigore. Se avesse calciato direttamente in porta, pensai, avrebbe potuto segnare. Così ho piazzato una piccola barriera. Il tiro è stato respinto da uno dei nostri, all’interno dell’area di rigore. Sulla respinta, uno dei tedeschi ha calciato nuovamente in mezzo il pallone, che è stato toccato di mano da uno dei loro e smorzato perfettamente per un altro [Weber, ndr]. Io vedo Ray Wilson davanti a me andare per terra, così mi butto immediatamente cercando di coprire in lungo la porta, per quanto potessi. Ma lui ha calciato alto e per me non c’è stato molto da fare. Io e Bobby eravamo increduli per quel fallo di mano non fischiato. Ma siamo andati avanti.

 

La finale che consegnò Banks alla leggenda

 

Era l’ultima occasione del match, non è vero?

Esattamente. Beh, dei 90 minuti, perlomeno. Questo è ciò che più di ogni altra cosa ci ha dato fastidio, quando poi ci ripensi. Stavamo vincendo, la coppa era nostra, e l’arbitro non si accorge di un chiaro fallo di mano.

Sul 2-1 eravate ad un passo dal traguardo, ma poi il 2-2 sul finale. Ricordi qualcosa in particolare di quei momenti?

Ricordo bene ciò che ci disse Alf. Ci disse di non arrenderci, perché avevamo già vinto una volta questa partita. Dovevamo solo vincerla nuovamente. Le sue parole furono queste. Sapevamo di avere ancora energie per vincere. Mancava mezz’ora.

Credi che parole come quelle diano una carica in più?

Assolutamente, se a dirle è un uomo come Sir Alf Ramsey. Grande allenatore. Qualsiasi cosa dicesse, ci andava bene. Avevamo sudato a lungo per raggiungere quella finale. E ora era il momento atteso da tempo. Era la finale.

A proposito di un altro personaggio, Norman Hunter. Fu provato prima dell’inizio del torneo. Credi che fosse una possibile minaccia per il ruolo di Bobby, o si trattava di una semplice riserva?

La seconda, senz’altro. Non credo pensasse di essere più forte di Bobby. Ma come ho già detto in precedenza, chiunque entrasse in quella squadra avrebbe dato il 100%

Credi che Sir Alf guardasse prima alle persone che ai giocatori? Ritieni cioè che fosse alla ricerca dei giusti interpreti, non solo tecnicamente ma anche umanamente?

Credo di sì. Nemmeno dava un’occhiata ai giocatori che bevevano ad ogni uscita, o cose di questo tipo. Soprattutto, pretendeva grande disciplina durante gli allenamenti.

Tu stesso hai avuto l’impressione che tutti gli uomini presenti in quella squadra fossero “tosti”?

Dovevi esserlo. C’erano tanti aspetti, durante la partita, che oggi sono scomparsi praticamente del tutto. Ai nostri tempi c’erano tackle durissimi, contrasti e scontri (leciti e illeciti) in mezzo al campo. Quando ti facevi male, l’importante era non rompersi niente, e si rientrava subito in campo. Quello che vedo è che oggi, per un contatto anche minimo, ci si rotola al terreno come se ci fosse fratturati una gamba o qualsiasi altra cosa.

Un gruppo di uomini veri

Nella coppa del mondo del 70, quando è stata la prima volta che hai saputo che Bobby non era sull’aereo? Ci fu una storia secondo la quale nessuno sapeva che lui non fosse sull’aereo fino al tuo atterraggio.

Noi eravamo stati informati all’hotel che Bobby doveva rimanere lì, mentre noi dovevamo tornare ad allenarci. Alf ha realizzato la cosa, ma prima di partire si è assicurato che qualcuno rimanesse con lui, assicurandosi che tutto andasse bene. E così è stato. Presto è tornato con noi ad allenarsi. Era tutto apposto.

E come hai visto Bob quando è arrivato all’allenamento? Era tranquillo?

Era davvero sereno. Il problema è che non sapevi come si sentiva interiormente. Ma dopo essersi allenato, e aver accumulato minuti durante le partite, si riprese del tutto. Tutto era dimenticato.

Gli hai mai chiesto cosa accadde?

Non l’ho fatto. Come ho detto, sentita la notizia riguardo al cast di quel film, con quell’attrice, mi pare fosse un’attrice, che aveva fatto la stessa identica cosa di cui Bobby era accusato, mi sono tranquillizzato. Capii che si trattava di una truffa.

Avevate un “piano B” nel caso in cui Bobby non fosse rientrato con voi?

Certamente. Alf aveva tutto in testa, chi avrebbe giocato se Bob non fosse potuto tornare, senza dubbio. Questo è il tipo di allenatore che fu. Era sempre sul posto, formidabile.

Una volta hai detto che veder giocare Bobby è come guardare un pugile.

Non solo nell’atteggiamento, ma anche e soprattutto nelle letture di gioco. Mi ha salvato molte volte da occasioni uno contro uno. Non era come gli altri giocatori, lui era più forte. Quando recuperava il pallone, poi, con lui eri in mani sicure. I suoi passaggi erano immacolati, sia quelli lunghi sia quelli da pochi metri. Se aveva una debolezza, una sola debolezza, era nel colpo di testa. Ma non c’era problema. Accanto a lui Jack faceva quel compito, the big Jack, e lo faceva perfettamente. Tutti abbiamo una debolezza. Insomma, Bobby era eccezionale, davvero.

 

Banks alle spalle di Moore: una costante

 

Quale credi che sia il fattore principale che ha fatto di Bobby Moore un capitano così eccezionale per l’Inghilterra? E per così tanto tempo.
..

Credo il suo atteggiamento in campo. Incoraggiava sempre i compagni. Li spingeva a dare il massimo. Se non avevo urlato per prendere la palla o qualcosa del genere, mi chiedeva di gridare. Questo è essere capitani. Non giocava semplicemente la sua partita, ma ne giocava altre 10, per gli altri 10 compagni di squadra. Incredibile.

Com’era invece giocare contro il West Ham durante il tuo periodo al Leicester [1959-1966, ndr] o allo Stoke City [1966-1972, ndr]?

Avevano una squadra incredibile. Giocavano benissimo, avevano grandi individualità, Geoff Hurst, Martin Peters, e Bob ovviamente, lì dietro. Erano una grande squadra, e avevano un grande pubblico. Ogni volta che ci giocavamo contro sapevamo di dover dare qualcosa in più del solito.

Nel 64 Bob ha vinto l’FA Cup contro il Preston, nel 65 la Coppa delle Coppe contro il Bayern Monaco, e così nel 66 la Coppa del Mondo. Praticamente, ogni volta che giocava a Wembley vinceva.

E’ proprio così. Sono sicuro che, come accadeva in nazionale, al West Ham tutti lo ascoltassero e lo ammirassero.

 

Il West Ham United di Bobby Moore

 

Cosa hai provato quando hai saputo di essere stato selezionato per giocare con l’Inghilterra?

L’allenatore mi ha convocato nel suo ufficio. Mi disse che ero stato selezionato per la nazionale. Ovviamente all’epoca non ero il portiere titolare, ma ritrovarmi lì, insieme a tutti quei giocatori, dal calibro internazionale, era, non so, semplicemente meraviglioso. Non potevo crederci. Ero nervoso anche solo al pensiero di dovermi allenare con loro (risate). Ero così orgoglioso. E pensavo al giorno in cui, magari, avrei giocato titolare.

Quanto ti pagarono la prima volta che debuttasti?

Non ne sono sicuro, ad essere onesti. Non molto, in ogni caso. Ma non importava. Non pensavo ai soldi, non ci pensavo affatto. Tutto ciò a cui pensavo era il privilegio di giocare per il mio paese, esserci per la mia nazione. Ed era straordinario, una sensazione unica.

Quante presenze hai accumulato, alla fine, Gordon?

72, sì, 72. 72 o 73, non ne sono certo. Credo 73, sì.

Ricordi quante volte hai mantenuto la porta inviolata?

No (risate).

L’ho chiesto soltanto perché è una percentuale molto alta. Molto alta, davvero. Hai mai avuto la sensazione che dopo il 66 l’Inghilterra avrebbe dominato il calcio per molto tempo?

Sapevo che avevamo un’ottima squadra. Avevamo sconfitto nazioni molto forti, con grande storia. Continuavo a pensare, però, che per vincere avevamo bisogno di dare tutti il 100%, di non mollare mai, di aiutarci l’un l’altro, e lavorare duro, giocando come una vera squadra. Nel ’66 lo abbiamo fatto, fortunatamente.

Nel ’67 la Scozia venne a Wembley, 40.000 scozzesi vennero a Wembley. L’Inghilterra perse 3-2. Ricordi quella partita?

Eccome se lo ricordo. In quella Scozia erano presenti tutti giocatori che giocavano in prima divisione da noi. Avevano tutti grande esperienza, la partita era equilibrata sulla carta. Ogni volta che ci affrontavamo, era una partita dura, che fosse ad Hampden o a Wembley. Ma non ci ha mai scoraggiato perdere contro di loro, o perdere col Galles o l’Irlanda, la qual cosa è capitata in qualche occasione. Dovevamo semplicemente andare avanti col lavoro, senza abbatterci.

Da quanto ne so Bobby e Sir Alf amavano giocare con la Scozia, non necessariamente per nobili ragioni. Era così per l’intera squadra a quel tempo?

Oh sì, era così per tutti. Volevamo batterli, per il pubblico, perché loro non piacevano a noi e non piacevamo a loro. Soprattutto una volta vinta la coppa del mondo, ogni partita contro di loro… oh te lo garantisco, volevano batterci a tutti i costi. Ogni partita era molto dura, e loro avevano dei gran giocatori come Dennis Law e altri. A essere onesti, avevano davvero ottimi calciatori ed era difficile impedire loro di segnare.

 

Sir Alf Ramsey e il suo sguardo vigile

 

Bobby poi era il bersaglio per eccellenza poiché era il ragazzo dai capelli biondi e gli occhi azzurri. Era come se rappresentasse tutto ciò che detestavano nella squadra inglese. Forse l’arroganza, non saprei…

Oh sì, il pubblico era solito bersagliare Bob, il pubblico scozzese ovviamente intendo. Ma lui era un ottimo professionista, non gli interessava, e a a nessuno di noi in fondo toccava la cosa. Certi cori se vogliamo erano anche divertenti, ci potevi ridere su.

Te ne ricordi alcuni?

No veramente non me li ricordo, ma erano divertenti. Nel fondo del mio cervello mi procuravano una piccola risata.

Credi che la squadra del 66 sia stata premiata a sufficienza dalla FA?

Ad essere onesto, sono rimasto un po’ deluso. Abbiamo vinto il campionato del mondo, ma dalla FA non abbiamo ricevuto che mille pound, mentre i tedeschi – così ci era stato detto – avevano ricevuto una nuova Mercedes Benz e una casa. Per aver perso quella finale. E noi abbiamo vinto. Siamo andati oltre, ci mancherebbe. Ma, insomma, abbiamo fatto tanto per questo paese, per il suo calcio. Immaginati i bambini, felici di scendere per le strade a giocare a calcio, perché vogliosi di giocare per l’Inghilterra. Sono convinto che la nostra vittoria ha conservato l’alto livello calcistico nel nostro paese.

Hai detto che non era una questione di soldi, che non lo è mai stato, che era il solo fatto di giocare per l’Inghilterra che contava. Voglio dire, non credi che la FA avrebbe dovuto sfruttare la tua influenza sulla nazionale inglese in misura maggiore, sfruttando la tua figura come fonte d’ispirazione?

Dunque, senz’altro avevano gente capace, ma se c’è una cosa sulla quale avrei potuto mettere in campo la mia conoscenza era nel ruolo del portiere. Come nel caso di Peter Shilton al Leicester. Mentre lo aiutavo a integrarsi nella nuova realtà, pensavo a come sarebbe stato aiutare i portieri della nazionale.

Non credi che in 50 anni ci siano state tante occasioni perse? Specie per ciò che, dopo il livello raggiunto dalla vostra nazionale, l’Inghilterra ha rappresentato a livello internazionale.

Se guardi la vicenda da questo punto di vista, sì. Ma se poi pensi alle altre grandi nazionali, che possono alternare buoni periodi ad epoche buie, dove non si fa che parlar male della squadra, eccetera, capisci che il caso non riguarda solo noi. Certo, non avrei mai pensato che il nostro paese non avrebbe più vinto nulla per 50 anni.

 

L’accoglienza riservata ai giocatori al ritorno in patria, che poi rividero le azioni salienti del match in hotel

 

Per te dev’essere strano. Da un lato speri che l’Inghilterra possa far bene, dall’altro l’insuccesso non fa che rendere la vostra vittoria persino più speciale per i tifosi.

Senz’altro, e non sei l’unico a dirmi questo. Molta gente mi chiede se io voglia o no che l’Inghilterra vinca nuovamente la Coppa del Mondo. Siamo stati orgogliosi di vincere, ma il fatto è che siamo stati i primi a farlo. Se l’Inghilterra dovesse vincere di nuovo, rimarremmo comunque i primi. Ogni volta che gioca l’Inghilterra, io prego affinché le cose vadano per il meglio. Perché questa gente, me compreso, possa riprovare le emozioni del 66.

Non è il mio caso, ma la gente della generazione appena precedente la mia ricorda alla perfezione dove si trovava al momento della vittoria nella Coppa del Mondo. L’equivalente calcistico dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Qualcosa di incredibile. Dov’era la tua famiglia, quel giorno?

Mia madre e mio padre vennero alla finale. Anche mia moglie. Mio fratello la vide in qualche televisione, a casa di qualcuno.

Quando sei tornato a casa, dopo la finale, com’è stato? Com’è stato tornare da campione del mondo?

Straordinario. Fu meraviglioso. Nella strada dove vivevo, c’era una grande scritta: “Ben fatto Banksy”, e altre cose del genere. Una grande folla. Una grande folla piena d’affetto. Fantastico.

Hai venduto la tua medaglia, non è vero?

Lo è.

E, se posso permettermi, cosa ti ha portato a venderla?

Avevo letto di due o tre dei ragazzi della squadra che l’avevano venduta, per aiutare la famiglia, per aiutare i figli. Ed è esattamente ciò che ho fatto anche io.

Quanto è stato difficile venderla, però?

Molto, ma quello che accadde un giorno con lo Stoke fu fantastico. Vennero a sapere che avevo venduto la medaglia, così mi fornirono una replica. E lo fecero allo Stadio: fu fantastico.

E com’era fatta quella medaglia?

Oh, non era così grande. Non è molto grande, è d’oro, simile alla wharf medal.

 

Banks e la sua medaglia

 

Passando a tempi più tristi, quando hai avuto il sentore che Bobby fosse malato, negli anni Novanta?

Sul giornale, avevo letto che era malato. Tristissimo, ero rimasto scioccato. Poi, com’è noto, è morto. Fu terribile. Ero molto triste. Non potevi crederci, specie a quell’età. Quando lo seppi ero a casa, credo. Credo che lo comunicarono alla TV.

Bobby significava molto per il paese, non solo a livello calcistico.

Proprio così. Tutto ciò che faceva era puro, se capisci cosa intendo.

Ricordi il funerale?

Il funerale fu a Westminster Abbey. Fu una splendida cerimonia, se la meritava. C’erano davvero tantissime persone. Tutto il Paese si è fermato alle 3 in punto. Bobby era un uomo straordinario. Fu il primo ad andarsene, di quelli che vinsero il mondiale. Fu uno per tutti. Era il nostro capitano.

Vi riunite ogni anno, non è vero?

Sì, ci riuniamo, portiamo le nostre mogli, stiamo insieme un paio di notti, un weekend. Metà dei ragazzi giocano a golf, di solito. Organizziamo qualcosa per le nostre mogli mentre siamo a giocare a golf, e la sera si mangia tutti insieme, chiacchierando e ridendo di continuo. Qualcosa di speciale. Non tutti erano titolari. Ma anche quei giocatori che non giocarono, vengono oggi, con le proprie mogli, divertendosi esattamente come noi. E’ bello vederli. E’ bello stare insieme dopo tutti questi anni. Ci siamo promessi di riunirci fino alla fine dei nostri giorni (RISATE).

E il brindisi? A chi non c’è più?

Com’è ovvio. Alziamo sempre i calici per i nostri amici. Anche per quelli assenti.

 

Fantastico. Grazie Gordon, è stato fantastico.

 


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