Uno sport dove tutto, troppo, può succedere.
Dal coronafootball ad oggi – sono già passati cinque anni – abbiamo assistito a una radicalizzazione di due fenomeni, già presenti da tempo immemore nello sport americano (nel basket soprattutto, ma anche nella NFL): 1) l’espropriazione del gioco dalla sua matrice popolare e 2) la tecnicizzazione dello stesso da parte degli addetti ai lavori. I due fenomeni, strettamente connessi, nascono dalla seguente valutazione (soprattutto da parte dei media): il calcio senza tifosi magari è molto triste e spento, ma può funzionare. Di più: funziona ancora meglio, perché espande i suoi orizzonti economici, i profitti derivanti dalla sua vendibilità, ben oltre i limiti della “cultura popolare”.
Infatti, il tifoso che va a vedere la propria squadra di calcio ci sarà sempre. Ma quello che vede il calcio in quanto sport e in quanto oggetto di studio, analisi, indagine statistica, questo lo si deve costruire.
Quanto appena detto ha chiaramente delle ripercussioni enormi sul calcio giocato. L’errore è quello di credere che il football espropriato dalla sua matrice popolare (i.e. dal suo legame con i tifosi, soprattutto) continui ad essere lo stesso sport praticato da più di centocinquant’anni. Non è così, naturalmente.
Un calciatore che scende in campo senza pubblico sugli spalti, o con un pubblico assopito (come accade in Premier, ad esempio), ragiona da impiegato. Se il suo compito è unicamente quello di fare bene il calciatore – non di essere calciatore, che è diverso –, egli ragionerà sempre più sulla propria carriera, il proprio profitto, la propria immagine. Chiaramente la trasformazione da (uomini) calciatori a professionisti del calcio è più complessa di così, e affonda le sue radici nel calcio moderno come fenomeno che si può datare dalla sentenza Bosman (1995) in poi. Senza dubbio però il coronafootball, proprio come accaduto nella società, ha accelerato alcuni processi già in atto.
Tra gli altri, quello dell’imprevedibilità delle competizioni. Un dato che dall’esterno potrebbe risultare positivo, persino auspicabile, in quanto è proprio il fattore sorpresa a fare di questo sport il nostro prediletto. Ma c’è imprevedibilità e imprevedibilità. Un conto è l’imprevedibilità dei mondiali, ad esempio, o delle competizioni internazionali per club, dove la formula dell’eliminazione diretta aumenta di molto le chances per le piccole di avere fortuna nel corso del torneo. Un altro è assistere all’assoluta imprevedibilità della singola partita, e quindi della competizione nazionale anche – alla lunga.
“Tutto è possibile”, in questo calcio.
Ma non perché il livello si sia alzato, al contrario. La compressione dei calendari ha creato squadre-da-batteria e calciatori-automi, che di fatto si allenano giocando, come denunciato da molti allenatori negli ultimi anni.
Per lo stesso tifoso, godersi una vittoria è diventato impossibile, perché nel giro di 48h si può passare dall’esaltazione più totale alla depressione più cupa. Cosa crea, tutto questo? Un calcio imprevedibile, certo. Ma non in un senso positivo, tutt’altro. Ogni partita vive di mille partite al suo interno, i cinque cambi, il VAR, sono tutte innovazioni del diavolo per allungare i tempi di una gara che raggiunge in media i 100 minuti complessivi (di cui tra l’altro, quasi sempre, il tempo effettivo è poco più della metà). La vacca non ha più latte, ma ogni anno esce fuori un’altra competizione.
Ancora calcio, di nuovo calcio, tutti i giorni tutto il giorno. Il sistema è in burnout totale, ma non ci si può fermare. Siamo a bordo di una trottola impazzita.