Papelitos
08 Dicembre 2021

Siamo periferia d'Europa

Mai così impotente e lontana del centro.

Ci spiace ripeterci per l’ennesima volta. Ribadire sempre e ancora i soliti concetti, quelli per cui appena si alza il livello in Europa ci sciogliamo come fiocchi di neve ai primi soli – non serve neanche che arrivi la primavera. E tutte le annose chiacchiere sugli stili di gioco lasciano spazio, inesorabilmente, a un sorriso amaro e disilluso di fronte all’abisso tecnico, caratteriale e di abitudine che ci separa dalle grandi europee. Lo abbiamo visto nella partita decisiva per il Milan, tra le squadre migliori squadre del nostro povero campionato: partita decisiva per i rossoneri e totalmente ininfluente per gli avversari, che non a caso si sono presentati con seconde e terze linee + Salah e Mané.

Il Milan, dicevamo, non poteva sperare in condizioni migliori: per carità le assenze ma i Reds a dir poco rimaneggiati, lo stadio pieno e tutta la carica di una squadra che aveva solo da guadagnare; di più, il vantaggio alla mezz’ora. Ebbene, tutto ciò non è bastato neanche lontanamente per impensierire un Liverpool in trasferta di piacere, talmente più forte in potenza (e in consapevolezza) da esserlo anche in atto. Si potrebbe sprecare inchiostro e analizzare aspetti specifici, tattici, tecnici, ma a che pro? L’evidenza, quella che resiste ferma malgrado l’oscillare delle interpretazioni, ieri si è manifestata in tutta la sua innocenza.

Così l’Inter, a cui non si poteva chiedere molto avendo già strappato il pass per gli ottavi e dovendo affrontare al Bernabeu un Real Madrid in ritrovata e grande forma; eppure, anche qui, ciò che impressiona è l’irreversibilità e la leggerezza della sconfitta. Un buon primo tempo, in cui i ragazzi di Simone Inzaghi hanno anche “fatto” la partita, ma poi un Real che vince da Real e un risultato che scorre via così naturalmente come fosse un copione già scritto: i nerazzurri perdono testa e partita, 1 handicap, ma davvero nessuno se la sentirebbe di rimproverarli, anzi.

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Il punto è un altro: è il modo in cui ormai affrontiamo l’Europa dei grandi. Approcciamo i migliori palcoscenici come se le italiane fossero tutte l’Atalanta: squadre “inferiori” aggrappate alla sorpresa, che nella serata giusta possono mettere in difficoltà chiunque ma che se perdono – anzi quando perdono – vanno solo elogiate perché comunque non potevano fare di più. È un complesso di inferiorità, fondatissimo, che oggi ci rende periferia europea, mai così impotente e lontana dal centro. E allora, torniamo a ripetere, abbiamo la nausea quando sentiamo parlare del gioco come ricetta più o meno segreta per colmare il divario con i migliori: la verità è che, in confronto a questi, noi siamo deboli, fragili, indifesi, quasi ragazzini malgrado quelli più giovani poi spesso siano gli altri.

Parliamo di ordini di grandezza diversi, di galassie calcistiche differenti; facciamo pace con l’evidenza una volta per tutte. Perché siamo anche un po’ patetici a continuare con gli elogi alle nostre belle squadre, al nostro bel calcio, quando ogni anno il campionato italiano si impoverisce tecnicamente di più: la scorsa estate, come da tanti e più volte ripetuto, abbiamo perso i migliori giocatori tra Lukaku, Ronaldo, Hakimi. D’altronde sono i calciatori a fare la differenza, e lo abbiamo visto anche con la bravura di certi tecnici rivoluzionari in Italia – vedi Pioli – ma impossibilitati a ribaltare gerarchie scolpite nel marmo (e nei piedi) in Europa.

Oggi poi è già tempo di bilanci, e si inizia a dire che non bisogna disperare, tutt’altro: due italiane sono già tra le migliori 16, si spera tre con quella meravigliosa e irripetibile eccezione dell’Atalanta.

Ma cosa dovevamo pensare, che i campioni d’Italia si facessero sbattere fuori dallo Sheriff Tiraspol – con uno Shakhtar non pervenuto? O che la Juventus dovesse soccombere nell’inverno russo come Hitler e Napoleone? Se tuttavia l’Inter e la Juventus torneranno a casa agli ottavi, nessuno potrà davvero metterle dietro la lavagna, e con buone ragioni. In fondo tutti ormai abbiamo accettato la nostra inferiorità costituiva, tanto frustrante quanto innegabile, e irriducibile a triti e ritriti discorsi tattici sugli stili di gioco.

Nel frattempo i tifosi del Milan sono quasi sollevati, ben consapevoli di non poter competere in un torneo per cilindrate (di molto) superiori a quella rossonera. Quarto posto e niente competizioni europee: ah, che fortuna! Mentre a Porto se le sono date di santa ragione, tra risse e rossi, e a spuntarla è stato ancora una volta l’immortale Simeone, il Milan può tornare al sicuro e al calduccio – metaforico – del calcio nazionale. Senza più l’assillo dell’Europa che conta, come hanno insegnato nel 2020 i cugini nerazzurri, e con il Tricolore adesso bene alla portata. Ad maiora!

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