Editoriali
30 Novembre 2020

La Juventus non doveva omologarsi

I rischi del voler diventare un “top club” a tutti i costi.

Appena un anno e mezzo fa, nella primavera e poi nell’estate del 2019, due tra le più importanti squadre europee si interrogavano sul proprio destino: Bayern Monaco e Juventus. I bavaresi, dopo l’eliminazione per mano del Liverpool agli ottavi di Champions con un pesante 1-3 casalingo, sentivano che qualcosa stava sfuggendo loro di mano. Non era tanto la sconfitta in sé, quanto la consapevolezza di non riuscire a tenere il ritmo degli altri top club e dei loro investimenti milionari; ancor prima, di non essere un “top club” nel senso stretto del termine.

Il Bayern aveva speso al massimo 41 milioni per un calciatore (Tolisso), non poteva contare su ricavi simili a quelli dei più grandi e soprattutto non era un brand internazionale come Barcellona, Real, City, PSG, Liverpool, con tutto ciò che ne conseguiva. Non aveva cambiato stemma, non era dotato di profili social coinvolgenti e veniva da una rivoluzione di calcio propositiva (quella di Guardiola) naufragata e rigettata dallo stesso ambiente come corpo estraneo. I bavaresi erano, più o meno, gli stessi di sempre: una società forte, austera, radicata nel territorio e simbolo della programmazione teutonica, ma apparentemente anacronistica per competere a livello internazionale.

Ebbene Bayern Monaco e Juventus, società molto simili sotto diversi aspetti, si trovavano nella stessa impasse.

Entrambe dominatrici in patria, entrambe rappresentanti delle migliori tradizionali nazionali, avevano fondato il proprio dominio su un’identità forte e una progettualità martellante: ambiente e mentalità ben prima dello stile di gioco, degli allenatori o degli stessi top player. Tutto ciò sembrava però non bastare più, ed è proprio in questo momento che le due società presero strade diverse: qui, secondo noi, sta il peccato originale della Juventus da cui deriva la crisi di certezze attuale.

Il Bayern iniziò ad investire cifre maggiori ma non stravolse la sua filosofia del Mia san mia, come precisato da Hoeness prima e Rummenigge poi. Malgrado il pressing della stampa, i tedeschi continuarono a lavorare a testa bassa consci del proprio stato di eccezione rispetto ai club più ricchi del pianeta. La Juventus al contrario, dall’acquisto Ronaldo in poi, ha provato a diventare sempre più simile a quelle superpotenze calcistiche indebolendosi, snaturandosi e perdendo identità.

Un colpo che nessuno si sarebbe mai aspettato, e che ha lanciato un messaggio chiaro al resto del mondo calcistico (Foto Valerio Pennicino – Juventus FC/Juventus FC via Getty Images)

Agnelli e la Juventus come “top club”


È stata questa una strategia organica portata avanti dal club e declinata via via sotto l’aspetto economico, culturale, commerciale, tattico e tecnico. A partire da Agnelli e dai suoi ammiccamenti alla Superlega – e così ad un calcio sempre più elitario – la Juventus ha seguito una filosofia da top club cercando in tutti i modi di internazionalizzarsi. Dal cambio di logo alla gestione tecnica, dai nuovi acquisti al posizionamento sul mercato globale, i bianconeri hanno guardato ad esempi fuorvianti credendo che il successo derivasse non dalla differenza bensì dall’omologazione.

In quei mesi d’altronde era difficile avere una visione d’insieme. La squadra era appena stata eliminata dall’Ajax, interprete di un calcio spumeggiante che aveva mandato in brodo di giuggiole l’improvvisata narrazione sportiva nostrana. Sembrava allora che gli unici modi per vincere la Champions fossero: 1) diventare a propria volta una superpotenza, più facile a dirsi che a farsi; 2) inaugurare un calcio propositivo in grado di colmare il gap tecnico grazie alla forza delle “idee” (quante farneticazioni inutili in studio, quanto inchiostro sprecato sui quotidiani da giornalisti sempre con la risposta pronta la mattina successiva). La Juventus, con risultati piuttosto deludenti, ha cercato di sviluppare entrambe le alternative.

Dopo il colpo Ronaldo, che già l’aveva proiettata in un’altra dimensione finanziaria, si è ispirata ai top club non solo economicamente ma anche tecnicamente. Da qui gli attuali problemi strutturali: da una squadra costruita male, figlia di una dirigenza che non ha saputo sostituire lo scheletro “caratteriale” degli anni di vittorie (totali, in patria, sfiorate, nell’Europa che conta). Il problema però, ancor prima che nei giocatori stessi, sta nella loro scelta: calciatori già affermati, senza eccessiva fame e senza nemmeno le qualità tecniche dei primi al mondo. (Mezzi) top player per diventare un (mezzo) top club.

Decine di bambini accalcati allo Juventus Store in attesa dell’autografo del nuovo top player, Aaron Ramsey (15 Luglio 2019, Torino, Foto Daniele Badolato – Juventus FC/Juventus FC via Getty Images)

I due volti di Paratici sono quelli della Juventus


La forza di una direzione tecnico-sportiva sta nello scovare talenti a basso prezzo, proprio come fatto dal duo Marotta/Paratici per rendere la Juventus grande di nuovo. Pirlo (a zero), Bonucci (15 milioni), Vidal (12) e poi ancora Barzagli (300mila euro), Pogba (zero), Tevez (9). Neanche 40 milioni per l’ossatura della squadra, a cui si aggiungevano via via colpi low cost ma solidissimi come Lichsteiner o di esperienza come i vari Khedira, Evra e Dani Alves. Certo, diverse operazioni sono anche state sbagliate, ma mai dilapidando cifre folli e soprattutto perseguendo costantemente un’idea.

La Juventus comprava preferibilmente in patria (non sempre con grande fortuna come detto, dai Rincon ai Zaza, dagli Isla agli Asamoah, dai Pereyra agli Ogbonna, dagli Hernanes agli Sturaro, dai Benatia ai Caldara, e poi via via salendo di intensità Bernardeschi, Pjanic, Higuain). Ma erano tutte operazioni con un senso, quello di cementare il dominio nazionale e di mettere salde radici per poi tentare l’assalto internazionale. Questa strategia veniva potenziata con innesti stranieri e di carattere quali Vidal, Tevez, Mandzukic ma in generale, soprattutto nel mercato estero, la compatibilità con la “mentalità” Juve era un aspetto imprescindibile nella valutazione dei calciatori. Forse ancor più del valore prettamente tecnico.

Più i bianconeri si sono internazionalizzati, più questa identità si è diluita anche nelle valutazione tecniche.

L’estate 2019 è emblematica: dopo l’addio di Allegri e in attesa di Sarri, la Juventus si internazionalizza definitivamente e acquista De Ligt per 85 milioni e Danilo per 37, entrambi pompati dai media con più o meno buone ragioni. Poi per rinforzare il centrocampo, reparto in maggiore difficoltà, preleva a parametro zero Adrien Rabiot e Aaron Ramsey, tanto mosci quanto esosi in termini di ingaggio (quadriennale da 7 milioni all’anno più bonus per entrambi, più 3.7 milioni di commissioni per il gallese e 10 milioni per il francese). Nel frattempo Mandzukic viene cacciato come un appestato a titolo gratuito e Barzagli si ritira una volta per tutte.

Mario Mandzukic, il guerriero della Juventus
Mario Mandzukic, guerriero e juventino acquisito: uno che nella nostra squadra, qualunque essa sia, vorremmo SEMPRE (Foto Stuart Franklin/Getty Images)

Fa sorridere pensare a quanto la narrazione sia stata capace di sottrarsi al criterio di realtà: nel quinquennio 2013-2018, per ben quattro anni su cinque, ad aver conteso la vittoria ai top club in Europa non c’erano squadre propositive bensì Atletico e Juventus, due club “identitari”. Ecco allora tornare la forza delle idee, il problema è che queste erano le idee sbagliate. D’altronde i progressisti, si sa, hanno sempre ragione. Ovunque, comunque e a prescindere.

Un Ajax semifinalista è capace di essere preso a modello come esempio di calcio del futuro; al contrario Atletico e Juventus, due volte finaliste, sono delle casualità, degli inciampi della storia. Dei residui del vecchio mondo da superare (Juventus di Allegri) o dei bifolchi esteticamente impresentabili da delegittimare (“Il gioco dell’Atletico Madrid fa schifo”, cit.).

«Il giornalismo – come diceva Carmelo Bene e Derrida prima di lui – non informa sui fatti o dei fatti bensì informa i fatti». Li crea, decide cosa debba essere “fatto” e cosa no: su questa premessa ideologica si sviluppa l’interpretazione, presentata come conclusione inevitabile.

Fa quasi impressione invece, a parte i sorrisi, scorrere la formazione della Juventus finalista 2015: Buffon, Lichtsteiner, Bonucci, Barzagli, Evra, Marchisio, Pirlo, Pogba, Vidal, Tévez, Morata (il giocatore più pagato, ben 20 milioni); in panchina Storari, Ogbonna, Padoin, Sturaro, Pereyra, Coman, Llorente. Per non parlare dell’Atletico 2014, fresco vincitore della Liga e in grado di resuscitare persino Tiago, a proposito di conoscenze bianconere. Ecco le uniche riprove di formazioni arrivate a pochi passi dalla gloria. Nessun Ajax, City o Borussia Dortmund. Poi è bastata la sola stagione 2019 a rivoluzionare il calcio come un uragano, a evidenziare un presunto “trend” in consolidamento.

Cosa voleva dire “ciclo finito”? Qual era il ciclo che – effettivamente – era terminato? Max Allegri, vittima della propaganda e del nuovo corso bianconero (Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images)

Gli errori della Juventus sono anche ideologici, e risiedono in una società che ha preferito i Rabiot, i Ramsey e gli Arthur ad innesti che potessero dare intensità e carattere, contribuendo così a rinforzare l’identità della squadra, davvero, con la forza delle idee. D’altronde l’abilità di un direttore sportivo sta soprattutto nello scovare il nuovo Vidal, il nuovo Kanté (costato comunque al Chelsea “solo” 35 milioni nel 2016), il nuovo Allan, il nuovo Nainggolan, non nel giocarsi il prestigio internazionale del club per ricoprire di soldi calciatori – lo ripetiamo – più mediatici che funzionali.

Lo stesso Arthur, ottimo giocatore ma costato sulla carta 80 milioni (72+10 di bonus), non è un colpo da Juventus: o si prende direttamente Thiago Alcantara, facendo così davvero il salto di qualità tecnico, oppure meglio virare su un altro tipo di calciatore, senza considerare tutta la propaganda Barcellona/Brasile/Football Manager montata sul calciatore.

Paradossalmente, dall’arrivo di Ronaldo in poi, la Juventus non solo ha perso in coesione e identità ma soprattutto ha perso in carattere: la squadra si è svuotata e deresponsabilizzata; è passata dall’essere un blocco monolitico e compatto all’affidarsi al suo superman-top player portoghese affinché la trascinasse nell’Europa dei grandi (come accaduto nelle ultime due edizioni di Champions). Il problema allora non è Ronaldo Sì – Ronaldo No, Sarri Sì – Sarri No, Allegri Sì – Allegri No. Questi sono gli effetti, ma non la causa. La causa della confusione sta nella filosofia di fondo, ambiziosa ma contraddittoria, internazionalista in assenza di struttura e vocazione.

La strategia è stata controproducente sia dal punto di vista “culturale” – la Juventus come il Bayern non deve inseguire le plutocrazie, ma restare fedele a se stessa – sia perché il calcio non è fatto di solo campo (malgrado quello che ci vuole far credere la deriva nerdistica del pallone). Il calcio è fatto anche di carattere, di cuore e di testa. Di spogliatoio. Dei Mandzukic e dei Barzagli. Come detto, con CR7, gli altri anziché evolversi si sono involuti: ma non sotto l’aspetto tecnico-tattico, al contrario per quanto riguarda motivazioni, fiducia e consapevolezze. E i nuovi acquisti, prelevati per implementare il tasso tecnico, hanno portato un deficit di anima e carattere.

Certamente migliorato, ma Rabiot resta un calciatore che quantomeno non accende gli entusiasmi (Photo by Marco Luzzani/Getty Images)

Sarrismo, Pirlismo e un equivoco di fondo


Arriviamo così alla pagina più distonica della storia recente della Juventus. Sarri alla Vecchia Signora è un problema estetico nel senso etimologico del termine (come percezione), un elemento capace di rompere il metron greco, un gargoyle che arriva a sconquassare l’armonia di uno stile classico. Un elefante in cristalleria, che per giunta tradisce l’ex moglie tanto amata per poi essere cacciato anche dalla nuova amante. Ma al di là di Sarri e delle “rivoluzioni che non si fanno a Torino”, l’incomprensione è di fondo. Al tecnico toscano si affida una squadra che non potrà mai veramente essere sua: Maurizio Sarri, per quanto possa essere bravo, è già – dal primo istante – una scelta sbagliata. Per quanto

Qui vanno a configgere le due esigenze da top club della Juventus: quella di accumulare campioni e quella invece di inaugurare un calcio propositivo e dominante. Al di là del solito ritornello, fondato, per cui un Cristiano Ronaldo (e non solo lui) non eseguirà mai tutti i dettami di un tecnico dogmatico come Sarri, quest’ultimo è palesemente ed esistenzialmente impermeabile al DNA Juventus, così come il DNA Juventus è impermeato dall’allenatore toscano. Il punto non sono le idee tecniche e tattiche di Sarri bensì l’impotenza nel trasmetterle, quelle idee. L’incapacità di entrare in sintonia con un ambiente come quello juventino, e con una rosa come quella bianconera.

Questo si nota non solo in campo, ma anche nelle balbettanti dichiarazioni post-partita. Maurizio si morde la lingua, dice e non dice, lancia il sasso ma nasconde la mano. Il refrain, traslato, è più o meno sempre lo stesso: in partita non si fa quello che si prepara in settimana.

Spesso aggiunge che non si capacità del perché, non potendo pubblicamente addossare le “colpe” ai giocatori ma facendo capire come le sue idee non vengano poi tradotte in campo (un comportamento non così maturo, e che ha probabilmente acuito la distanza con lo spogliatoio). L’allenatore ricorre a perifrasi ingarbugliatissime che evidenziano tutta la sua disarmonia nell’abito Juve, ma non strappa. La sua Juventus galleggia per un anno nel limbo, eppure la situazione non precipita mai del tutto: la squadra vince lo Scudetto, ma nel frattempo dimostra di non avere alcuna identità. Tecnica, tattica e caratteriale.

Sarri Juventus Getty
Un problema di distonia (Photo by Enrico Locci/Getty Images)

Tuttavia la critica a Sarri deve essere innanzitutto la critica alla scelta di Sarri, non a lui come allenatore. Sarri anche qui è l’effetto, non la causa. È il simbolo del nuovo corso Juve: nelle intenzioni l’uomo giusto e nella pratica quello sbagliato, anche perché sbagliata è l’idea che soggiace al suo ingaggio. Certamente gli si può rimproverare di non avere avuto le capacità, soprattutto umane e gestionali, per entrare nella testa dei giocatori – e di conseguenza di non aver saputo dotare la squadra di un’impronta riconoscibile. Eppure Sarri ha fallito in un ambiente indifferentemente ostile fin dal principio.

Le condizioni di partenza per Pirlo in teoria sono diverse, tuttavia le contraddizioni emergono violente anche questa stagione. La società Juventus ha rinunciato alla propria identità, e proprio per questo la squadra risulta un ibrido in campo: rispetto a qualche anno fa il gap con le più forti non è diminuito bensì enormemente aumentato, e sì che non ci sono più i Barcellona di Messi/Suarez/Neymar di Luis Henrique o i Real dei record. Lo stesso Bayern, che siamo i primi a prendere ad esempio, non è una squadra invincibile: non è il Bayern 2013 di Heynckes, né una squadra al livello tecnico dei migliori club dell’ultimo decennio.

A differenza della Juventus è però una società che ha saputo pianificare senza rinunciare alla propria essenza. Un club rimasto fedele a se stesso che, da campione d’Europa e di Germania, ha sborsato “solo” 62 milioni per acquisti mirati nell’ultima campagna acquisti.

Insomma oggi la questione non è di nuovo Pirlo Sì – Pirlo No. La stessa abilità di Pirlo come tecnico rischia di sfuggire (nel bene e nel male) in una rosa così confusa: tecnicamente caotica, strutturalmente mal costruita, caratterialmente appesa a Ronaldo e ad una colonna italiana ormai al tramonto. La Juventus di oggi è un oggetto misterioso, non più quella di ieri e ben lungi dal diventare quella di domani. Un club che continua a lanciare messaggi superficiali e contraddittori, focalizzati ancora una volta sugli effetti più che sulle cause. Basta ascoltare i primi concetti espressi da Andrea Pirlo: tutto un ritornello sull’ “andare a prenderli alti”, sullo stare “nella metà campo avversaria”, sulla “padronanza del gioco” e così via. Sovrastruttura e non struttura.

“il mio modo di giocare… voglio proporre un calcio propositivo con grande padronanza del gioco […] due cose voglio: 1. bisogna sempre avere il pallone 2. quando si perde bisogna recuperarlo velocemente. Queste due sono le cose più importanti”. (Andrea Pirlo)

Tralasciando il fatto che questa impostazione si è vista solo a sprazzi, il calcio, scusate se ci ripetiamo, non si limita a quello che succede in campo: lo dimostra la Juventus che non è risorta in campo ma fuori, e che sul rettangolo verde ha vinto perché lì ha portato la propria intelligenza, identità, programmazione. Da qui dovrebbe ripartire la progettualità bianconera, dal recupero della tradizione e non dal suo superamento: oggi infatti, ancor prima di essere in “crisi” di risultati e di gioco, la Juventus è in crisi di identità. Una crisi d’identità che per giunta la sta portando, seppure non vorremmo essere troppo catastrofisti, a una condizione finanziaria disastrata.

Tanti altri fattori sarebbero da considerare oltre a quelli citati, e alcuni andrebbero approfonditi ulteriormente; a noi interessa però la direzione di fondo, il momento in cui le strade di Juventus e Bayern Monaco si sono separate inesorabilmente. Quest’estate, mentre impazzava il toto-Messi, l’unica squadra che ha seccamente smentito un interesse è stata proprio il Bayern: «Non possiamo pagare un giocatore così. Non fa parte della nostra politica e della nostra filosofia», ha dichiarato lapidario Franz Rummenigge. Stessi concetti espressi da Hoeness per Cristiano Ronaldo nel 2018. Rispetto ai bavaresi la Juventus ha un top player portoghese in più, ad oggi l’unico punto fermo nel caos che non si capisce fino a quanto sia un limite e quanto rappresenti invece una risorsa. Ma per il resto, cosa è successo in questi due anni?

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