Ritratti
24 Maggio 2021

Sami Khedira fuori dagli schemi

Si ritira un calciatore dall'intelligenza differente.

Uno degli aspetti più affascinanti del calcio è la sua strutturale assenza di elementi oggettivi. È soggettiva la bellezza di un gesto tecnico, l’efficienza dei vari sistemi di gioco, in alcuni casi persino il regolamento. Per questo è possibile che due persone abbiano visioni completamente opposte sulla disciplina – e, in un certo senso, potrebbero entrambe avere ragione. In un simile e contraddittorio contesto, il dibattito degli ultimi anni ha introdotto al grande pubblico il tema della tattica, strumento con cui gli allenatori cercano di ridurre al minimo la casualità interna alle partite. E sulla scia dell’arcinota diatriba Allegri-Adani siamo arrivati all’ennesima domanda atavica: La tattica è sopravvalutata?. Risponde Sami Khedira per The Athletic:

Sì, visto che comunque l’analisi tattica avanzata è una routine nei club d’élite. Però la differenza la fanno gli allenatori che ottengono il consenso assoluto dai propri giocatori e hanno un senso di ciò che serve sul campo, oltre le formazioni e cose del genere”.

In un certo senso, questa risposta è paradossale. Lo è pensando a Khedira come a quel centrocampista ordinato e un po’ monotono che abbiamo conosciuto nei cinque anni alla Juventus, titolare per stagioni intere ma molto spesso criticato dai tifosi. Tutte le qualità migliori che ricordiamo del Khedira calciatore hanno un certo legame con l’analisi tattica: dalle letture difensive al posizionamento senza palla, passando per la capacità d’inserimento in area di rigore. Lui invece afferma che la strategia studiata a tavolino, in fondo, non è così importante. Un paradosso, come quelli che spesso si pongono di fronte alle persone che si fanno delle domande e non si accontentano delle risposte più facili.


Sami Khedira a 17 anni deve dare una risposta difficile. Prima di allora ha trascorso metà della sua vita da tesserato dello Stoccarda, dopo aver scoperto il calcio in una vacanza in Tunisia, il Paese di suo padre. Neanche diciottenne, dicevamo, rimedia un brutto infortunio al ginocchio, e i dottori gli dicono chiaramente che potrebbe non recuperare mai più la forza nelle gambe richiesta ai calciatori professionisti. Per questo è costretto ad affrontare due interventi al ginocchio destro nell’arco di pochi mesi.

«Se fosse stata necessaria un’altra operazione mi sarei arreso, non era facile dover fare riabilitazione mentre tutti gli altri erano in campo”.

La sofferenza lo tempra, tanto che a vent’anni è un titolare dello Stoccarda campione di Germania nel 2007 (essendo, tra l’altro, autore del gol decisivo per la vittoria all’ultima giornata che assegna il titolo agli Schwaben). Il resto della sua carriera è un continuo susseguirsi di successi: campione d’Europa under-21 e del mondo con la Germania, campione di Spagna e d’Europa col Real Madrid, cinque volte campione d’Italia con la Juventus. Fino al presente attualissimo, quello di pochi giorni fa, che lo porta ad annunciare il ritiro dal calcio giocato. D’altronde le ultime stagioni sono state difficili, condizionate da una serie infinita di infortuni oltre che dal contesto decadente della Juve di Sarri prima e Pirlo poi. Per un corpo tormentato come il suo, praticamente dall’adolescenza in poi, l’addio al calcio a 34 anni è stata una scelta quasi obbligata.

Per un calciatore in fondo il corpo è la base fondamentale su cui fondare tutto il resto. Khedira ha dovuto rifondare questa base più e più volte, soprattutto negli anni di Madrid, in cui ha affrontato l’infortunio più grave della sua travagliata carriera. Una rottura del legamento crociato del ginocchio destro, lo stesso già operato due volte, rimediata per giunta a novembre 2013, a meno di sette mesi dal Mondiale in Brasile. Egli però ha fatto in tempo a rientrare non solo per la spedizione tedesca in Sudamerica – dove ha segnato il quinto dei sette gol del Mineirazo – ma anche per la finale di Champions League del 2014, quella della Décima del Real.

In quel celebre 1-7, Khedira contribuì a umiliare il Brasile a casa propria. Qui a contatto con Bernard, in una metafora della sproporzione di quella partita.

Seneca diceva che la vita non è aspettare che passino le tempeste, ma imparare a ballare sotto la pioggia. Ecco, per quanto un simile concetto possa reggere nello sport, Khedira ha costruito una carriera sotto la pioggia. La sua è una mentalità tutta tedesca, cinica per certi versi, ma sempre estremamente lucida. «Dover affrontare momenti difficili fa parte di questo lavoro», parole sue dodici mesi dopo l’infortunio. «Avevo un obiettivo davanti a me, il Mondiale, e mi è stato mostrato un percorso chiaro per raggiungerlo». Molto semplice. verrebbe da dire citando un suo ex allenatore in bianconero.

“A 28 anni avevo due scelte: rinnovare e finire la carriera a Madrid o cercare una nuova sfida. Volevo qualcosa di diverso. Ho ricevuto la chiamata della Juventus, che stava ritrovando l’aura del passato. Per me era un nuovo Paese, una nuova cultura, una nuova lingua. E ho capito che potevo avere il ruolo che volevo: avere maggiori responsabilità, compiti da leader”

Alle parole sono seguiti i fatti: Khedira a Torino è diventato uno dei perni del ciclo di Allegri, reinventandosi nello spogliatoio e sul terreno di gioco, da incontrista a incursore. E col senno di poi possiamo dire che la Juventus avrebbe dovuto puntare di più sullo spessore di uomini come Khedira, negli stessi anni in cui cercava il salto di qualità affidandosi ai soli Douglas Costa, Cristiano Ronaldo e de Ligt. Khedira ha saputo portare ciò che serve oltre le formazioni in ambienti e spogliatoi impegnativi come quelli di Madrid e Torino, spesso non venendo capito fino in fondo neanche dai suoi stessi tifosi (tanto in campo quanto fuori).

«Alla Juventus mi sembra di essere in Germania. Tutto viene gestito con precisione e puntualità (…) a Torino si è più vicini alla mentalità tedesca. Sono tutti molto puntuali, lavoratori, nonostante questo (…) di tanto in tanto, si trova il tempo per stare con la famiglia e bere un buon vino rosso».

Sami Khedira

Anche perché, quando si fa riferimento alle qualità umane dei calciatori, di solito si parla di grinta, determinazione, impegno – come se in qualche modo tutti dovessero combattere per riscattare qualcosa. Khedira non ha mai trasmesso immediatamente queste caratteristiche, ma ha rappresentato il modo di amare la disciplina di chi il calcio lo ha scelto per pura passione, senza caricarlo di troppi significati etici e morali.

“Di base, non lo faccio per i miei compagni o per la mia famiglia. Lo faccio per me stesso”.

Sami Khedira

Un professionista che sicuramente non accende gli entusiasmi delle folle, ma un calciatore dotato di un’intelligenza superiore, per citare lo stesso Allegri, proprio perché dietro al giocatore c’è sempre l’uomo. E infatti Sami Khedira è uno dei pochi che, quando parla, dice sempre qualcosa, esprimendo pensieri e valutazioni personali e non ripetendo semplicemente frasi di circostanza o formule di rito. Amante per sua stessa ammissione dell’agonismo, all’occorrenza delle partite brutte sporche e cattive, ha dichiarato che il VAR, usato come viene usato, uccide il calcio. Ma astraendo dal campo, da figlio di padre tunisino e madre tedesca, si è espresso anche su un tema delicato come la convivenza tra culture:

«Papà all’inizio era percepito e si sentiva diverso, però ha imparato il tedesco presto e bene, ha analizzato e soprattutto accettato la cultura e le tradizioni della Germania. Non ha detto: sono musulmano e non mi adeguo. Ha dato e quindi ricevuto rispetto. Quando si parla di integrazione, il punto fondamentale è sapere accettare e adeguarsi alla mentalità e alle regole del paese che ci ospita, non ostinarsi a volerle cambiare».

Sami Khedira in un’intervista alla Bild

E ancora: «alla fine, la convivenza è sempre un compromesso». In medio stat virtus, avrebbero detto gli antichi. Concetti anche semplici, se vogliamo banali, ma ossigeno puro in un mondo che giorno dopo giorno sta diventando sempre più conformista e omologato (al ribasso). In questo mondo Khedira ha dimostrato che si può vincere essendo sé stessi, risultando decisivi grazie a virtù – sia in campo che fuori – ben poco appariscenti.

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