Tra Arrigo Sacchi e Nils Liedholm, due allenatori agli antipodi, Berlusconi non poteva avere dubbi.
Sorrideva il vecchio Nils, quando scese dall’elicottero. Non era certo il tipo che la vita avrebbe potuto facilmente beffare in contropiede. Ne aveva viste troppe ormai, troppe per non sapere che non c’è alcun senso e nessun motivo per affrontare la vita scoprendosi troppo, al punto da poter risultare sorpreso. Se qualcosa ti sorprende e magari ti scappa, dopo ti toccherebbe rincorrerla. Lui non aveva voglia di rincorrere niente, gli bastava rimanere dov’era. Avrebbe potuto comunque provare a giostrare a modo suo la situazione. Questo nuovo presidente era un tipo di tutt’altra pasta rispetto a lui. Silvio, al contrario, aveva rincorso di tutto, aveva rincorso così velocemente e anche compulsivamente, che ad un certo punto si era convinto di poter stare davanti a tutti e che tutti gli altri, il resto del mondo, dovessero cominciare a correre dietro a lui.
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Aveva le televisioni. Si era messo in testa di catturare i sogni degli Italiani. Quando non lavoravano, quando avevano bisogno di prendersi una pausa dalla vita, accendevano la Tv e guardavano la Rai. Lui pensò di poter mettersi al posto della Rai, di contendere alla Tv di Stato il potere di entrare nelle case degli Italiani. Qualcuno glielo permise. Aveva le amicizie giuste, l’ambizioso Silvio, aveva i canali giusti nel sistema del potere italiano, anche prima di averci le televisioni. E così, ci riuscì. La gente ora poteva guardare la Rai e poteva guardare la sua televisione. Erano due cose, due scelte profondamente diverse. La sua televisione entrava davvero nelle loro case, nella loro vita, Come se quella scatola potesse essere una specie di strano specchio magico. Di riflesso le loro case e le loro vite entravano anch’esse nella televisione. Aveva fatto diventare quella scatola stregata una cosa molto più potente di ciò che era stata fino ad allora. Tanto che pure la Rai dovette presto cambiare, per tenere il passo. Appunto, per rincorrerlo.
Poi c’era il calcio. Con la televisione aveva catturato più facilmente i sogni delle donne, specie delle casalinghe, come lui stesso ammetterà in più di una circostanza. Per catturare i sogni maschili, ma sarebbe più corretto chiamarlo, in entrambi i casi, immaginario, aveva bisogno del calcio. E allora comprò il Milan. Era lui stesso, tra l’altro, un grande appassionato di calcio. Il suo stesso immaginario ne era prigioniero. Quale impresa allora avrebbe potuto contemporaneamente coinvolgerlo e affascinarlo allo stesso modo? Nessuna. E infatti decise di fare le cose che più in grande non si può. Chiarì subito che avrebbe portato la sua squadra alla conquista non solo dell’Italia, ma addirittura del mondo e che sarebbe stato tutt’altro che un affare cruento. Lui mirava a conquistare il mondo come se dovesse farlo innamorare. La sua squadra avrebbe sbaragliato gli avversari usando un’arma particolarmente speciale, che non feriva ma incantava. Lo chiamò il bel gioco, non meglio precisandolo.
Il suo avvento doveva essere all’altezza delle sue ambizioni, lo spettacolo doveva avere inizio.E l’elicottero gli parve la soluzione. In un pomeriggio di metà luglio, v’imbarcò tutti, calciatori, allenatore e dirigenti, e atterrò insieme a loro sul prato di Milanello. Sorridevano tutti, non solo il vecchio Nils Liedholm, anche perché si trattava di una sua precisa imposizione. Negli altoparlanti imperversava la cavalcata delle valchirie e tutti scesero con un gran sorriso sulle labbra. Una discreta folla assisteva un po’ perplessa, un po’ entusiasta, finché giunse un improvviso, tremendo scroscio e si portò via il resto della festa. Senza la pioggia ci sarebbero state le immancabili ballerine, con il loro spettacolo ammiccante, proprio come a Canale 5.
In pochi, all’inizio, lo presero sul serio e neanche il vecchio Nils Liedholm. Il presidente aveva comprato Galderisi, brevilineo attaccante di Salerno, tra i più quotati, all’epoca, nel nostro Paese. Poi Massaro, Bonetti e Giovanni Galli, buoni giocatori, ma non certo idonei ad eccitare quell’immaginario cui ci siamo riferiti. L’acquisto più costoso fu quello di Donadoni, uno dei giovani italiani più promettenti, un’ala destra di grande tecnica e notevole creatività, proveniente dall’Atalanta. Insomma lustrini e pailletes rimasero nella tv, sul campo si decise di puntare sulla sostanza e sulla solidità. Merito, probabilmente, di Ariedo Braida, l’uomo che Silvio scelse come direttore sportivo, decidendo di affidargli le redini dell’area tecnica. I fatti sembrarono non poter avvalorare fin da subito la strategia, ma era solo questione di tempo.
La squadra di Liedholm non voleva ingranare. Lo svedese era un autentico monumento, lo chiamavano il barone. Era stato un grande protagonista della storia del Milan: aveva vinto ben 4 scudetti da calciatore, formando un trio sensazionale con i connazionali Gren e Nordalh, la cosiddetta Gre-No-Li. Poi, da allenatore, aveva vinto l’ultimo scudetto dei rossoneri, il decimo. Ormai erano passati otto anni e la gloria di quella squadra era naufragata tra scandali e retrocessione in serie B. Nel frattempo, il barone era passato per Roma, portando lo scudetto ai giallorossi della Capitale. Giocava a zona, Nils. Voleva che la sua squadra avesse il pallone per il maggior spazio della partita possibile. E per spazio della partita non intendo solo lo spazio temporale, intendo proprio lo spazio fisico.
Voleva che le sue squadre si distendessero in campo in maniera ariosa, che manovrassero con intelligenza, con raziocinio e anche con fantasia. Per lui la bellezza del calcio era questa. I concetti di spazio e tempo sono fondamentali, per capirlo. Bisognava avere il tempo per riflettere, per pensare e lo spazio per distendere armonicamente l’azione. Spazio e tempo. I concetti di squadra corta, di aggressione senza palla, di frenesia in generale, non facevano per lui: erano del tutto estranei all’idea di calcio che aveva in mente. Era questo che lo divideva da Berlusconi e fu questo che negò loro la possibilità dell’idillio? Sarebbe un’interpretazione decisamente riduttiva. Di certo il calcio di Liedholm e il calcio di Sacchi fanno letteralmente a pugni. Si direbbe quasi che sono uno l’antitesi dell’altro. Perché, anche se poi si decise che la vera guerra di religione fosse tra marcatura a uomo e zona, il vero vulnus della questione sacchiana erano proprio i concetti di tempo e spazio. In una perenne lotta finalizzata al loro accorciamento.
L’ideologia può entrarci in senso lato. Nel senso di visione del mondo, di senso della vita, d’interpretazione di sé, del tempo e di proiezione di sé nella storia. Bisogna ritornare da dove eravamo partiti, dall’elicottero e da Nils. Berlusconi è uno che non solo vuole correre, vuole rincorrere. Vede il tempo che corre, vede i tempi che cambiano e lui vuole corrergli dietro, vuole correre ancora più veloce di essi, per arrivare prima, prima degli altri, ma pure prima del tempo stesso. Perché ha il folle obiettivo di voler essere lui a cambiare il tempo. Liedholm non vuole rincorrere proprio niente. Lui si vuole tenere il suo mondo, le sue idee, il suo calcio. È arrivato al punto di imparare a conoscerlo meglio di quasi tutti gli altri, almeno il calcio, e gli piace così com’è. Non ci crede neanche che poi il calcio possa cambiare davvero, che ci sia qualcuno che possa compiere una tale eversione. Per lui le cose significative del calcio accadono sul campo da gioco, per merito della fantasia, della tecnica, dell’intelligenza. Una volta gli chiesero se un gol segnato dalla sua squadra fosse frutto dell’esecuzione di uno schema. Lui rispose:
“Certamente. Di solito provo in partita gli schemi che poi mi riescono perfettamente in allenamento.”
Nella sua Roma Bruno Conti, mancino puro, giocava ala destra, e pure Sebastiano Nela, giovane promettente terzino sinistro, prese a farlo giocare terzino destro. La motivazione reale della scelta era che aveva in squadra Maldera, esperto terzino sinistro cui faceva molto affidamento, e non aveva nessuna intenzione di toglierlo dalla sua formazione. Quando i giornalisti lo interrogarono a proposito di questa sua pratica, di spostare i calciatori sulla fascia opposta al loro piede preferito, rispose: «Lo faccio per aiutarli a guardare il mondo da un’altra prospettiva».
Insomma, uno così non aveva affatto voglia di rincorrere qualcosa. Riteneva, al limite, che gli altri fossero liberi di affannarsi quanto volevano, tanto lui avrebbe comunque potuto gestire la situazione. Invece accadde che il destino gli mise davanti Arrigo Sacchi e una squadra di serie B. Prima ancora che cominciasse il campionato, il 3 settembre, il Parma giunse a San Siro, in una gara valevole per il girone eliminatorio di Coppa Italia. I rossoneri sbagliarono l’impossibile davanti alla porta avversaria. Se guardaste il servizio della Rai sulla partita in questione, potreste contare almeno sei occasioni clamorose per il Milan, tra cui gol sbagliati a pochi metri dalla porta e un paio di ciabattate maldestre a tu per tu con il portiere. E poi vedreste un biondino con la maglia bianca e i calzoncini gialli, partire da solo palla al piede, all’arrembaggio, vedreste una difesa in linea che si taglia con un grissino, lui che vi s’infila dentro e di esterno sinistro supera il portiere in uscita.
Quel biondino è Fontolan, che poi avrà una rispettabile carriera in serie A, soprattutto con l’Inter. Finisce 1 a 0 per gli ospiti e il risultato desterà lo scalpore che merita, avendo una squadra di serie B espugnato Milano. Da quel momento il Presidente comincia a seguire con interesse le vicende di quel Parma e di quello strano tipo seduto in panchina, che impone alla sua squadra un regime di allenamenti spasmodici e di indottrinamento frenetico e incessante, nel culto del pressing e del fuorigioco, e che la stampa raffigura come un profeta. I risultati accompagneranno positivamente la sua avventura, il Parma navigherà stabilmente nelle zone alte della classifica di serie B, pur denunciando una bizzarra anemia da trasferta. Per tutto il campionato non riuscirà ad ottenere una vittoria in trasferta che sia una.
Il messia del nuovo calcio, portatore di gioia e di spettacolo diffusi dal verbo del bel gioco, professato con fede incrollabile davanti a qualsiasi avversario e su qualsiasi campo. Colui che si autoproclamerà il debellatore dell’asfittica mentalità del calcio all’italiana, sparagnino per definizione. Il rottamatore di quella mentalità tipicamente nostrana, orientata alla conservazione del risultato prima ancora che alla conservazione ideologica, identificata nel verbo del “prima non prenderle”, dello 0 a 0 in trasferta. Imporre il proprio gioco sempre e comunque, verrà tramandato come il mantra del sacchismo. Lui lo ripeterà ossessivamente, aggiungendo anche, a beneficio dei posteri:
“Ho sempre voluto che la mia squadra fosse padrona del gioco, in casa e in trasferta”.
Sulla scena si presenterà e verrà presentato così. Ebbene, proprio costui, nel campionato che lo consacrerà all’attenzione generale, conducendolo fino alla panchina del Milan, non vince neanche una partita in trasferta. Diciannove partite fuori casa, zero vittorie del Parma. Uno di quei paradossi di cui il calcio è pieno e di cui anche questa storia si compone.
In compenso, di paradosso in paradosso, il Parma di vince due volte su due in trasferta a San Siro. Succede, infatti, che il destino metta un’altra volta quella squadra e quell’uomo sulla strada di Liedholm e di Berlusconi. Sono gli ottavi di finale di Coppa Italia. Dopo pochi minuti c’è un gol clamoroso sbagliato da Manzo. Il difensore di riserva del Milan, grazie a un geniale tocco di Donadoni che aveva sorpreso irrimediabilmente la difesa avversaria, protesa nel suo proverbiale movimento in avanti, si trova da solo davanti al portiere avversario, uscitogli incontro. Manzo sbaglia, calciando malissimo. La direzione della storia cambia così; gli uomini di Liedholm andranno a intrappolarsi nella rete degli avversari. Le manovre offensive rossonere s’infogneranno nel gorgo dell’altrui pressing e a dieci minuti dalla fine una punizione del centrocampista Bortolazzi (ironia della sorte in prestito al Parma proprio dal Milan) li condannerà di nuovo alla sconfitta interna.
Il ritorno avrà più o meno lo stesso copione, senza gol nel finale. Finirà 0 a 0 e il Parma passerà il turno, condannando ad un’ingloriosa eliminazione gli avversari. Gli occhi degli spettatori non s’erano riempiti certo di grande calcio offensivo, né di spettacolari azioni di gioco, ma a nessuno poté sfuggire una granitica organizzazione tattica, puntigliosamente (anzi addirittura indefessamente) applicata in puro spirito collettivo. Quello, inoltre, che nessun occhio avrebbe potuto non vedere era che una squadra di serie B aveva battuto il Milan. E questo non era certo un dettaglio secondario. Malgrado proprio l’artefice di quel successo propugnerà, ad ogni occasione, la tesi della superiorità del concetto del bel gioco rispetto all’arido significato del risultato, in bilico tra il dogma e la dottrina filosofante.
https://www.youtube.com/watch?v=LJipw52JtXU
Un brevissimo estratto del recente incontro tra Sacchi, Ancelotti e Guardiola
Se il Milan non avesse sbagliato l’impossibile davanti alla porta quel 3 settembre e, magari, fosse finita 3 a 1, Berlusconi avrebbe subito dimenticato quel Sacchi e il pressing asfissiante di quella squadra in maglia bianca e calzoncini gialli. Se Manzo avesse prodotto la realizzazione di quel geniale passaggio di Donadoni, all’andata degli ottavi, magari si sarebbe aperto anche il varco per un contropiede vincente e sarebbe finita 2 a 0. Sicuramente il verbo del profeta della nuova zona totale avrebbe avuto meno spazio sui giornali e in tv, e la panchina rossonera Arrigo non l’avrebbe mai avuta.
Ci mancherebbe che la storia si possa fare con i se, specie la storia del calcio. Perché, appunto, i se non cambiano i risultati. Possono essere bugiardi, possono essere degli autentici impostori, possono essere frutto di un capriccioso caso, ma sono pur sempre i risultati a determinare il destino di un uomo di calcio. Anche quando un destino può sembrare inevitabile. Arrigo e Silvio, infatti, sembravano proprio destinati ad incontrarsi. Entrambi prigionieri di un folle istinto alla rincorsa, ossessionati dal desiderio di trasformarla in una spasmodica corsa in avanti, con il resto del mondo dietro.
Proteso verso un orizzonte quasi metafisico, una terra promessa situata in uno spazio mentale piuttosto che in un apparente spazio fisico, Sacchi era proprio l’uomo adatto per Berlusconi, a differenza di Liedholm. Probabilmente era davvero destino e ti viene quasi voglia di credere che anche nel calcio, piuttosto che le traiettorie di un pallone, sia essenzialmente il destino a decretare il percorso dei protagonisti che lo subiscono o, al contrario, ne traggono vantaggio.
Liedholm, probabilmente, sarebbe d’accordo. A cinque giornate dalla fine di quella malinconica stagione dovette subire l’onta dell’esonero. Fu sostituito provvisoriamente da Fabio Capello, che, in questa fase, nelle idee di Berlusconi rivestiva semplicemente il ruolo di traghettatore. Il traghettatore condurrà la squadra allo spareggio per la conquista del diritto di partecipazione alla Coppa Uefa e lo otterrà, sconfiggendo la Sampdoria. Prima di fare spazio al profeta del nuovo tempo.
Il minore appeal che esercita rispetto alla sorella maggiore Champions non giustifica lo snobismo nei confronti dell'Europa League. Lazio e Milan sono chiamate ad invertire la rotta.