Ma nelle sue posizioni estreme c'è qualcosa che non torna.
Come tutti ben sappiamo, l’omicidio dell’afroamericano George Floyd è stato l’innesco di una polveriera di proteste antirazziste negli Stati Uniti d’America che, attraverso i social network, si è riversata anche in Europa e in particolare nel Regno Unito. Black Lives Matter, movimento attivista nato nel 2013 in USA, e gli stessi movimenti “antifa” americani rivendicano la paternità delle manifestazioni, ormai fenomeno globale.
Attraverso la leva della questione razziale – mai lontanamente risolta oltreoceano nemmeno durante l’amministrazione di Barack Obama – ha preso piede una pericolosa e non ben definita furia iconoclasta. Come afferma il noto accademico Alessandro Barbero in una recente intervista a ilforo.eu:
“Fare l’inventario delle statue e abbattere quelle dedicate a personaggi storici non perfetti e non in linea con i valori moderni è un’idiozia ed è una forma di vergognoso e arrogante imperialismo culturale verso gli abitanti di quel luogo diverso che è il passato.”
Ma ecco che, a favore di queste libere e variegate manifestazioni di dissenso, non si è fatto attendere il sostegno degli influencer alla ricerca della posizione politica “corretta”, spesso un puro posizionamento di marketing. È la comunicazione moderna, bellezza, degna de “La Société du Spetacle” di Guy Debord. Ma c’è in questa storia un influencer che è ben più influencer di altri: stiamo parlando di Lewis Hamilton, sei volte campione del mondo di Formula 1.
L’inglese appartiene di diritto alla Hall of Fame delle quattro ruote, quella ristrettissima èlite costituita dai piloti più importanti della storia del motorsport. Talento sopraffino, capace di annientare Fernando Alonso al debutto nella specialità e di battere tutti i campionissimi che ha incontrato nel suo percorso: da Kimi Raikkonen a Sebastian Vettel, passando da Robert Kubica e lo stesso Schumacher (gli manca un solo titolo iridato per raggiungere proprio Kaiser Michael). È a tutti gli effetti il Re moderno della specialità, il Michael Jordan della Formula 1, ispirazione per tutti gli appassionati e aspiranti piloti.
Hamilton negli ultimi giorni ha più volte appoggiato pubblicamente il movimento Black Lives Matter, dicendosi favorevole all’abbattimento di ogni statua, tra cui quella di Edward Colston, ed ogni genere di monumento che rappresenti qualcuno che in vita si sia macchiato di razzismo. In Inghilterra, tra i nemici ideologici da abbattere, spicca anche il nome di Winston Churchill.
D’altronde il pilota inglese può contare su un’enorme (e meritata) visibilità per educare i propriseguaci, anche sulle posizioni politiche “più corrette” da prendere. Se è vero come dice Alex Kalinauckas di Autosport che “Lewis Hamilton è semplicemente un fantastico leader e grazie al suo successo comanda un enorme pubblico di milioni di fan” è vero anche che il peso delle sue parole è gigantesco, a maggior ragione su un tema così delicato.
Non stiamo parlando infatti solo della sacrosanta battaglia al razzismo e alle discriminazioni: si tratta invece, in questo caso, di sposare una linea “estrema” che pretende di cancellare la storia, e ancor prima di piegarla alle categorie interpretative del presente. Difficile comprendere una posizione così decisa, anche a fronte di disordini di strada spesso tremendamente violenti: ed è anche complicato capire a fondo i motivi per cui abbattere monumenti storici possa essere un passo utile per il “miglioramento del mondo”. Semmai esistano, è chiaro.
Anche perché, se si porta all’estremo il processo alla storia, lo stesso Lewis finirebbe per non potersi sedere nella sua Mercedes W11, dato che la Casa della Stella ha un passato scomodo. Nelle officine naziste sono girati molti progetti Mercedes, come quel W07/W150 da cui nacque l’auto preferita da Adolf Hitler, la 770, modello che divenne il riferimento per sovrani e capi di Stato dell’epoca, come l’imperatore Guglielmo II o l’imperatore Hirohito del Giappone che ne acquistò sette esemplari (l’auto personale del Fuhrer è andata all’asta nel 2018).
Dovrebbe andare dal suo biondo ex-compagno di squadra Nico Rosberg e contestargli il titolo mondiale, vinto con il nome W07. Ma soprattutto dovrebbe rinnegare – data la sua passione per la moda e lo stile d’abbigliamento – lo sponsor a cui è stato legato per anni, Hugo Boss, azienda tessile nata nel 1923, rifondata dal Partito Nazista dopo la bancarotta e successivamente divenuta fornitore ufficiale delle divise delle SA, delle SS e della Hitlerjugend (la gioventù hitleriana). Anche perché, al di là delle sorti dell’azienda e dell’appoggio nazionalsocialista, il rapporto con il regime non era semplicemente utilitaristico.
Hugo Ferdinand Boss era infatti un nazista conclamato, addirittura condannato per aver usato schiavi nel processo di produzione durante la seconda guerra mondiale.
Insomma, per ribadire il concetto espresso dallo storico Alessandro Barbero, mettere in mano alla politica questo folle revisionismo storico è un enorme errore che può fare solo danni; figuriamoci se lo mettessimo in mano agli influencer. Il Re nero Lewis Hamilton è giusto che continui a scrivere la storia a suo modo ma, a nostro modo di vedere, sorpassando all’esterno questa pericolosa deriva ideologica.
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