Trent'anni di attesa, ma serve ancora qualche mese.
La beffa della stagione precedente era stata atroce. Ad Anfield, cullato dal rumore della Kop, il 26 maggio 1989 il Liverpool era riuscito a farsi scappare il titolo di campione d’Inghilterra all’ultimo istante, scippato da quel maledetto Michael Thomas che, a venticinque secondi dalla fine (25!), era riuscito a beffare Grobbelaar e a segnare lo 0-2 che, per le regole della differenza reti di allora, aveva regalato il titolo all’Arsenal. Dopo diciotto anni di astinenza, nel modo più cinematografico di sempre.
E infatti lo scrittore Nick Hornby, tifosissimo dei Gunners, ne avrebbe fatto addirittura un libro, da cui David Evans trarrà la sceneggiatura per un film: Febbre a 90’. Una mazzata che non ci voleva, perché nell’ultimo mese i Reds avevano recuperato ben quindici punti alla capolista e si erano presentati allo scontro diretto in testa alla classifica. Non ci voleva, perché quel mese era stato un crogiolo di emozioni contrapposte. La conquista dell’FA Cup a Wembley contro i cugini dell’Everton era stata avvolta dalle lacrime e dalla commozione per le vittime della strage di Hillsborough, avvenuta poco più di un mese prima e che portò in cielo 96 tifosi del Liverpool.
70, tra questi, non avevano ancora compiuto 30 anni. La più grande tragedia dello sport inglese. Il successivo rapporto Taylor, presentato dalla Camera dei lord che indagò sul fatto, avrebbe evidenziato le gravi incongruenze tra l’organizzazione dell’evento (la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, sul neutro di Sheffield) ed il comportamento delle forze dell’ordine, senza le quali si sarebbe potuto evitare il peggio. Salvare tante, giovani vite.
Occorreva, perciò, dare una mano di bianco sulla rabbia e la tristezza e ricominciare nel migliore dei modi, affinché tutto il dolore non fosse venuto invano. Ai nastri di partenza della First Division ’89-’90 (si sarebbe chiamata Premier League soltanto dalla stagione ’92-’93), l’obiettivo dei Reds è chiaro: arrivare all’ultima giornata in cima alla classifica.
La campagna acquisti è tutt’altro che faraonica: dalla Fiorentina arriva per 600.000 sterline il libero svedese Glenn Hysén, capitano d’esperienza della sua nazionale; dal Carlisle Utd un altro difensore, Steve Harkness, pagato 75.000 pounds. In prestito dallo Standard Liegi, l’attaccante israeliano Ronny Rosenthal. Stop… e curiosità su quest’ultimo: sarebbe dovuto approdare all’Udinese, ma una protesta violenta di alcune frange antisemite friulane ne impedì la firma. Quando il calcio incrocia il flusso di una certa “politica”, è sempre un male.
La prima parziale rivincita arriva il 12 agosto in Charity Shield: a Wembley basta il gol di Beardsley per battere l’Arsenal e portare a casa il primo trofeo della nuova stagione. Soltanto l’anno successivo, nel 1991, l’attaccante da 46 gol in 131 presenze commetterà la scortesia di passare sull’altra sponda del Mersey, vestendo la casacca blu dell’Everton.
A Kenny Dalglish manca però il suo bomber, John Aldrige, che dopo 104 partite e 63 gol è volato nei Paesi Baschi, alla Real Sociedad, per poco più di 1 milione di sterline. Per fortuna il manager scozzese quell’anno potrà contare invece su un ritrovato Ian Rush, che aveva tentato invano la fortuna in Italia alla Juventus, ritornando subito all’ovile.
Ma non solo, il trequartista John Barnes, come baciato dalla fortuna, quell’anno sta per mandare in rete ogni pallone che tocca; alla fine della stagione saranno 22 centri, quattro in più di Rush e soltanto due in meno dell’attaccante del Tottenham e della nazionale inglese, Gary Lineker, capocannoniere del torneo con 24 centri e, di lì a poco, protagonista anche ai mondiali di Italia ’90. È la difesa, però, a rendere possibile l’impossibile, perché il neo-arrivato Hysen può da subito contare su compagni di comprovata affidabilità: oltre al portiere Grobbelaar, Alan Hansen e Gary Ablett componevano una linea Maginot difficilissima da sfondare.
Non è un caso se, alla fine di quel campionato, il Liverpool non avrà soltanto il miglior attacco (78 gol fatti) ma anche la miglior difesa (37 subiti). Il gruppo non ha le individualità che hanno gli avversari. Non ha il David Platt di turno, per intenderci, bensì un collettivo che, giornata dopo giornata, sarà sempre più falange oplitica che non conosce paura né sconfitta. La versione basic del Liverpool attuale, una deluxe in cui ogni elemento dell’undici titolare è una stella che brilla di luce propria (da Alisson a Salah, da Van Dijk a Firmino etc.); ma i concetti di squadra, seppur in un calcio totalmente diverso, collimano.
La stagione richiede un paio di mesi d’assestamento in principio, dopodiché, nella fase centrale, il Liverpool aumenta decisamente il passo. Al giro di boa del girone d’andata comanda ancora l’Arsenal campione uscente, dietro di un punto proprio gli uomini di Dalglish, tallonati ad una sola lunghezza dall’Aston Villa. I Reds, però, non perderanno più fino alla sfida del 21 marzo contro il Tottenham. In quel momento, i rivali più accreditati per contender loro il titolo non sono più i Gunners che, nel frattempo, hanno perso terreno, bensì i Villans allenati da Graham Taylor e che hanno in David Platt il futuro best player of the season.
Un solista contro una band, un Robbie Williams contro i Beatles. Tra le due battistrada va in scena un vero e proprio gran prix calcistico, fatto di sorpassi e controsorpassi continui. Il 14 aprile, però, il Liverpool prende definitivamente la pole position. Il 28 aprile si gioca la terzultima giornata di campionato: i Reds conducono a 73 punti, l’Aston Villa è quasi spacciato, a 68. Visto anche il calendario, soltanto una sconfitta della capolista e una vittoria degli inseguitori potrebbe rimettere tutto in gioco. Ad Anfield si gioca la partita tra Liverpool e Queens Park Rangers.
Dopo 14’ il destino sembra voler rimescolare le carte, perché gli ospiti, in modo un po’ rocambolesco, si portano in vantaggio grazie a Roy Wegerle. Liverpool 0, QPR 1. L’Aston Villa, però, comincia malissimo a Birmingham, finendo addirittura sotto di tre gol. Chiaro segno che gli Dei aleggiano tutti sopra Anfield Road. La rimonta clamorosa nel finale, con le reti di McGrath, Cascarino e Platt evita la brutta figura, ma serve a poco altro.
Torniamo sotto la Kop, che esplode di gioia a 5 minuti dall’intervallo, quando Ian Rush manda il suo destro violento sotto la traversa e pareggia i conti. Liverpool 1, QPR 1. Da lì in poi, con l’Aston Villa impelagato in una rimonta faticosa e infruttuosa, è tutta discesa. E ci si mette anche l’arbitro a tenere gli occhi foderati di rosso, perché al 63’ un fallo clamorosamente fuori area ai danni di Steve Nicol viene valutato come calcio di rigore. Ci fosse stato il VAR – ma bastava il solo occhio nudo – quel penalty non sarebbe mai stato assegnato.
Dal dischetto si presenta John Barnes: palla a destra, portiere a sinistra. La palla schiaffeggia il palo ed entra in porta. Liverpool 2, QPR 1. Fino al 90’, come si direbbe nel basket, è solo garbage time. Il QPR non ha la forza per creare ansie a Grobbelaar, mentre i tifosi sugli spalti hanno grosse radio in mano per sentire cosa succede sugli altri campi; al Villa Park, soprattutto. Poco importa, l’arbitro dà il triplice fischio. Tutti ad abbracciare Kenny Dalglish, eroe-bandiera-ammiraglio dei “rossi”. Tutti ad abbracciarsi. Sorrisi e sapori dolci del diciottesimo titolo, conquistato con due giornate d’anticipo.
Il 5 maggio 1990, ultimo atto della First Division, diventa così l’ultimo giorno del Liverpool campione d’Inghilterra. Una passeggiata di salute a Coventry, 1-6 il tennistico punteggio finale (alla penultima c’era stata invece la vittoria sul Derby County per 1-0). Kevin Galacher illude i padroni di casa, poi c’è la sventagliata di palloni nella porta del povero Steve Ogrizovic. Barnes conquista la seconda piazza della classifica marcatori con una tripletta, due ne fa “l’ebreo” Rosenthal e si diletta un poco pure Rush. Game, set and match.
Sarà quella la fine di un’era. Kenny Dalglish chiude un ciclo vincente e, forse intuendo che le acque finanziarie del club sarebbero di lì a poco peggiorate, si dimette nella stagione successiva (pur in cima alla classifica, a febbraio). Meglio lasciare quando si è al top. La stessa filosofia di Margareth Thatcher che pochi mesi prima, a novembre, aveva rassegnato le dimissioni da primo ministro del Regno Unito: the Iron Lady aveva lasciato la guida d’Oltremanica dopo 11 anni e mezzo di rigore e disciplina, di austerità e potere. Per la Gran Bretagna, e il Liverpool, era l’inizio di una nuova era.
L’ultimo giorno del Liverpool campione d’Inghilterra sta però per finire. Ci siamo quasi, ma questa volta ci ha pensato un’ombra nera che si aggira sull’Europa – e sul mondo – ad aumentare l’attesa: il coronavirus è al momento la minaccia presente, un nemico invisibile che va combattuto e sconfitto. Sta penetrando a tutta forza anche nel mondo del calcio, e ha già bloccato la Premier così come gli altri campionati europei. Ma, quando verrà debellato, sarà tempo di festeggiare (sperando avvenga sul campo, e non per assegnazione in un freddo ufficio della Football Association).
Dopo trent’anni sarà di nuovo il tempo per un ultimo giorno di gloria. Non più quella di Bill Shankly e Bob Paisley, Kenny Dalglish e Gerard Houllier, non più Rafa Benitez. Quello è il passato. Ora è il turno di Jurgen Klopp, il condottiero venuto dalla Foresta Nera, che ha già regalato una Coppa dei Campioni (fatecela chiamare ancora così, vi prego) e che porterà in dote alla riva rossa del Mersey la prima Premier League della sua storia. Ci emozioniamo ancora? Ebbene sì, noi non supereremo mai questa fase.