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20 Marzo 2024

Nino Ciccarelli e la Milano del teppista

Nulla da insegnare, tutto da trasmettere.

“Se si vive una volta sola vivo col cuore in gola. Posso cambiare questa storia qua”. Sono quasi passati vent’anni da quando i Club Dogo intonarono per la prima volta Una volta sola. Sono passati quarant’anni da quando i Viking dell’Inter calcano le gradinate di San Siro e d’Italia. Quattro decadi sono una buona occasione per fare un punto della situazione? Per sedersi, non sugli allori, e capire cosa si è stati e cosa si sarà. Vivere così, incapaci di conoscere sosta, con il corpo che presenta il conto e mostra tutti i segni del tempo e dei nemici.

L’asfalto è meritocratico, resti in piedi solo se conosci il suo sapore. Senza cuore. La Milano del Teppista (Altaforte Edizioni; 180 pp.; 20,00€) è il ritorno di Nino Ciccarelli che da vero Oldboy sembra uscito dalla cellulosa di Sin City. La sua aurea è quella di Marv interpretato da Mickey Rourke. Cerotti ovunque per tenere insieme un’esistenza in frantumi, ma incapace di spezzarsi. Pompa il sangue nelle vene nelle notti meneghine tra gli amori, i figli, un’altra trasferta da preparare e l’ennesima tarantella che chiama a rapporto.

La penna – dopo che Giorgio Specchia, ormai quasi tre lustri fa, aveva redatto Il Teppista. Trent’anni maledetti a Milano – è quella del decano del giornalismo sportivo italiano Stefano Olivari. Olivari ha scritto per tutti (da la Repubblica a Mediaset passando per l’Ansa, Tuttosport e il Guerin Sportivo), ma in primis per Indro Montanelli a ‘La Voce’. I suoi vocaboli raccontano, dagli anni ’90, l’Inter, l’ombra del Castello Sforzesco, la generazione cresciuta a pane e Chuck Jura, i paninari e i polpastrelli da Mozart di Dražen Petrović. Basta questo per una miscela esplosiva.

“Io conosco la differenza fra il male e il bene, anche quando facevo il male, mio e degli altri: per questo non cerco scuse”.

L’ultras duro e puro inorridirà davanti a un uomo che mette, per la seconda volta, nero su bianco il suo vissuto. Perché quello che succede dietro la curva, rimane dietro la curva. Un po’ come se a Edward Bunker avessero chiesto di rimanere solo un criminale e basta. Nessuna redenzione. Incalliti si può esserlo sempre, ma gli abissi e l’espiazione passano innanzitutto dal racconto e dallo scrivere. Mr. Blue era convinto di una cosa «chi non legge resta uno stupido. Anche se nella vita sa destreggiarsi, il fatto di non ingerire regolarmente parole scritte lo condanna ineluttabilmente all’ignoranza, indipendentemente dai suoi averi e dalle sue attività».



Per questo non resta che chiudere il capitolo e sedersi al tavolo del Teppista. Ma Milano non è Gotham City. Può tramutarsi nell’incubo di vite dissolute, può trasformarsi nelle quattordici foglie d’edera – una per ogni anno di carcere – tatuate sul braccio di Nino per segnare la rinascita. Anche se non è ancora tempo per l’ultima messa. Come quando a Barcellona, alle porte del triplete interista, il protagonista evita la cella e osserva il rettangolo verde del Camp Nou. «Nino guarda Mourinho dall’alto e ride: con la sua fortuna solita a quest’ora poteva essere in carcere con l’Inter eliminata. Deve essere proprio l’anno buono». Sì, il 2010 non è il 2024 con in dote l’Atletico Madrid, sarà proprio la volta buona.

Leggendo ci guardiamo le mani e sentiamo le nocche che si spaccano assieme a quelle di Ciccarelli. Il sangue in bocca. Quanto sangue possiamo bere prima di svenire? In uno scontro tutto quello che conta è rimanere lucidi, rallentare il tempo mentre l’adrenalina lo dilata a sua immagine e somiglianza. Come contro i napoletani in quella maledetta via Novara. Con pezzi di vetro conficcati ovunque e Daniele Belardinelli, per tutti Dede, che ha visto spezzati i suoi giorni dentro il rituale della battaglia. Dove tutti hanno cercato criminali o giustificazioni – più i primi che le seconde – senza pensare o voler intendere i rituali della tribù del tifo.

Quando la morte diventa un tabù ogni suo volto deve sparire dalla circolazione. Eppure è lì. Guardala negli occhi non puoi abbassare le palpebre. Devi restare impassibile, mentre tutto scorre, ma nulla passa realmente. Come quando Paolo Coliva, l’Armiere per tutti, ha lasciato questo mondo l’estate del 1994. Leggende metropolitane incapaci di essere scalfite che rivivono nei diciassettenni vestiti casual pronti a sfidare sé stessi per portare la propria città in ogni dove.

Campanilismo, estremo, in uno Strapaese che ormai ha dimenticato l’identità. Perché anche questa è identità.

Colori e quartieri. Paesi e voce. Una gabbia di ferro con le ali che diventa, ogni volta che il sorteggio chiama, una polveriera dove tanti diventano uno. Dove uno diventa la sublimazione di mille mani al cielo che intonano lo stesso unico coro. Sorride nell’ennesima notte senza sonno Nino Ciccarelli, non ha nulla da insegnare, ma tutto da trasmettere. Il cemento di Milano è professore di presenza che non può essere a metà e dentro Senza cuore troviamo il filo del rasoio, il contrario di quello di Occam, con cui tagliare la verità sintetica dei giorni nostri. Giorni strani, per citare Battiato, dove “il cielo a volte, invece, ha qualche cosa d’infernale”, ma non questa volta nell’affrancamento di un uomo divenuto giudice del proprio io.

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