Riflessioni (socio)politiche sulla nuova maglia degli azzurri.
Non mi soffermerò sul design perché quello è uno Zeitgeist, uno spirito del tempo che, appunto, va letto all’interno della cornice della moda intesa come fashion. Quindi, posso solo dire che la nuova maglia dell’Italia è un modello Adidas stile Roma o altri club, minimale con una texture leggermente movimentata – sono finiti i tempi della maglia in stile Matrix dell’Inter (guarda caso battuta dalle vorticose linee dell’Atletico) e tricolore che si staglia perfettamente – che coincidenza – sulle famose three stripes del marchio tedesco.
Quello che mi preoccupa è il retro della maglia dove campeggia la frase “l’Italia chiamò”. Me ne occupo in quanto mi sembra un’allucinazione, un baratro storico, una retrotopia in stile Bauman che ad oggi ha, tuttavia, un suo senso compiutamente insensato. Se per utopia si intende il progetto verso il futuro, la proiezione in una dimensione futuribile che è utopica in quanto auspicabile e soprattutto non conoscibile al momento, per retrotopia si intende, invece, una proiezione in avanti con presupposti ampiamente conosciuti e legati passato, alla storia. Proiezioni future, insomma, a partire dal retro/retrò di ciò che abbiamo passato, vissuto e visto. È il concetto per cui qualcosa deve ritornare – in futuro – ai suoi antichi splendori. Come per dire, facciamo una determinata nazione di nuovo grande. In inglese suona meglio.
La nostra retrotopia non è solo calcistica, ma emerge tuttavia proprio dal nostro calcio “nazionale”. Come detto, sul colletto della nuova maglia dell’Italia, infatti, è ricamata la frase “L’Italia chiamò” estratto ed omaggio all’inno di Mameli. Ebbene mi domando cosa, chi, chiamò l’Italia? E poi, chiamare a cosa? Perché? Tutte domande a cui ovviamente un colletto-oracolo non può rispondere.
Lo statement – perché di questo si tratta – che i 22 porteranno sul loro collo rappresenta una domanda al passato che vuole indagare un presente su cui non ha nessuna presa creando un’esplosione di senso più che un corto circuito. Se non semantizzata questa “chiamata” rischia di diventare il nuovo mantra della domenica, magari sulle ali dell’entusiasmo di un buon Europeo. Un mantra che se non decostruito potrebbe anche trasformarsi nel nostro modo di risponderci su WhatsApp o anche salutarci quando andiamo di fretta “scusa, l’Italia chiamò”, per non parlare dei mille gruppi chat dal nome “L’Italia chiamò” per organizzare la cena con gli ex compagni del liceo.
Decostruiamo anche velocemente, per favore, decostruiamo prima che ci costruiscano addosso.
Dunque, chi chiamò l’Italia? Premetto subito che questa decostruzione politica non è politica. Per lo meno, non lo è nella maniera in cui la intendono i politici e la politica stessa.
Partiamo dall’idea di Stato Nazione, quello in cui le parole di quell’inno avevano un senso, quello che poco prima della “chiamata” diceva “siam pronti alla morte” e che finisce con un collettivo “SIIIII”. Ecco, quello Stato Nazione sta scomparendo (idealmente siamo al [lungo] canto del cigno). Sappiamo che i confini geografici non esistono e che le divisioni nazionali fanno parte di una scalarità in cui il potere – quello che esiste dalla notte dei tempi per cui il più forte soggioga il più debole, ma che non ha nulla a che fare con la natura – viene declinato nelle nostre vite.
Quindi non è una mia convinzione, bensì quella di una teoria critica urbana alquanto avveduta, che non esista una città o una nazione a priori. Come sostiene il geografo Neil Brenner, infatti, lo spazio urbano non è costituito da leggi trans-storiche, razionalità burocratica ed efficienza economica, bensì dalle politiche e dalla socialità che si svolgono al suo interno. Il luogo rappresenta “solo” una continua ricostruzione nonché il mezzo e il risultato di relazioni di potere e relazioni sociali storicamente contingenti.
Lo Stato Nazione esiste per convenzione e per un brutale patto civile hobbesiano per cui noi rinunciamo ad una serie di rivendicazioni e giustizie private in nome di un sovra ente che garantisce, pace, giustizia e prosperità. Quindi non è l’Italia che ti chiama, in quanto non esiste senza le persone che la vivono e ne danno forma sociale. Non esiste senza le persone, in ultima analisi, che ne decretano il potere. Il potere su di loro. Che poi quelle persone si chiamino “italiani” è solo una conseguenza contingente. Che poi gli “italiani” non siano stati “fatti” dopo l’Italia questa è una cosa che rimane tra noi – come ipotetica massa nazionale- e Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio.
Dunque l’Italia di Spalletti chiama a raccolta tutti i suoi con(non)nazionali, tutti quelli che protegge e che sono pronti alla morte. Ecco, non proprio tutti. Di certo l’Italia non chiama Ilaria Salis che magari quella bandiera la vede – al contrario – sventolare dalla sua cella ungherese. Non chiamò l’Egitto per dirgli che aveva ucciso Giulio Regeni (anzi adesso l’Egitto è tornato di moda in chiave revisionista cospirazionista antisionista così come negli anni 70 quando si scriveva sui muri italiani “viva Nasser sterminatore dei luridi ebrei” (guardate la copertina del testo di Alfonso Di Nola “Antisemitismo in Italia 1962/1972” pubblicato da Vallecchi nel 1973).
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Un’altra persona che l’Italia non chiamerà – intendo proprio al telefono – sarai tu. Te ne accorgerai quando – spero solo in vecchiaia – dovrai fare una vista specialistica con il sistema sanitario nazionale che, essendo sovraccarico, farà la cosiddetta “presa in carico”. Ovvero tra tre o cinque mesi, quando e se ci sarà posto, ti chiameranno loro, ti chiamerà l’Italia per dirti “adesso possiamo prenderci cura di te”. Solo che non chiamerà in tempo e tu sarai andato in una clinica privata a spendere un affitto per farti controllare un rene.
Non ti chiamerà perché probabilmente la linea sarà intasata da tutta una serie di evasori fiscali, condonati e abusivi che invece vengono cercati e sollecitati anche con notifiche sul cellulare. Chiama a raccolta, questi “schiavi di Roma” che per anni hanno letto quella schiavitù come il giogo di Roma Ladrona che colpisce l’operaio e la casalinga di Voghera (citazione decontestualizzata seppur azzeccata di Umberto Eco ). Ecco noi cantiamo, e le scriviamo anche, parole vuote che non hanno più senso, fanno quasi tenerezza. Come se oggi a Natale qualcuno chiedesse al nipotino di 5 anni di recitare una poesia di Pascoli in piedi su una sedia di paglia.
Parole vuote che servono per rinfocolare uno stereotipo di unità nazionale retrotopico e nostalgico che nulla ha a che vedere – proprio nel senso della vista – con quello che succede, non dico oggi, ma da almeno 25 anni. Non parlo di seconde generazioni perché forse magari convocano Kayode e quindi siamo a posto. “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Dunque l’ultima leva militare obbligatoria è stata quella del 1985, quindi, all’incirca dal 2003 nessun diciottenne è stato più chiamato alle armi. No, così per dire, per sottolineare che continuiamo a fare sfoggio di sacrificio militare anche in campo, per la nazione. Comunque ultimante, su vecchi Guerin Sportivo, ho letto troppi articoli di quel gran giornalista che era Oliviero Beha e gli ho saccheggiato lo stile perché tanto non riusciamo a inventare nulla.
Adesso vado, che l’Italia mi chiama a pranzo.