Recensioni
29 Settembre 2024

La gioia fa parecchio rumore

Recensione tardiva per un libro che non ha mode.

L’estate – in termini di vacanze – è ormai volta al termine. L’inizio del campionato e poi quello delle coppe ha dato a tutti gli effetti il colpo di spugna ai sogni di spiagge calabre, vacanze greche, experience da vain life e altre cose instagrammabili. L’estate – cioè la vacanza – è il periodo in cui riesco a leggere le cose che mi piacciono davvero, quelle che mi sono tenuto tutto l’anno in attesa di quei giorni in cui un asciugamano sostituisce una sedia e un albero una scrivania. Adesso però reinizia tutto, non avrò (forse) più tempo quindi mi sono riproposto, dall’alto del mio discutibilissimo quanto soggettivismo gusto personale, di dare i consigli per i libri da leggere (come se fossimo ancora) in vacanza.

Ovviamente parliamo di libri sul calcio. Dove per calcio si intende cultura ed educazione sentimentale di base.

Un libro che mi ha colpito particolarmente, e che ho letto esattamente quando le mie “auto” ferie[1] volgevano ai tempi supplementari, è stato “La gioia fa parecchio rumore” di Sandro Bonvissuto edito da Einaudi nel 2020. Non sono un lettore che sta particolarmente sul “pezzo”, e se volete infatti qui c’è una recensione scritta da Stefano Ciavatta per Rivista 11 nel momento in cui andava scritta, cioè quando il libro è uscito 4 anni fa. Come dicevo non sono sul “pezzo” nel senso che non vivo appollaiato sul ramo del timing. Non so quando escono le cose, ma so quando “entrano”. Ed in questo caso è stato un giorno di fine agosto alla Feltrinelli di Viale Giulio Cesare a Roma.

In quell’osasi climatizzata, la copertina di Bonvissuto mi è apparsa con tutta la potenza visiva che effettivamente ho poi scoperto trasudare dal suo romanzo. Nella classica copertina bianca Einaudi, infatti, si staglia un bellissimo Paulo Roberto Falcao che con il pugno al cielo salta nella sua iconica esultanza. Non è una foto bensì un’illustrazione dell’artista Andrea Serio (che a proposito di calcio ha fatto anche due bellissime copertine per Linus su Diego Armando Maradona e Gigi Riva), un’opera realizzata a pastelli che, come notava Ciavatta “è pastosa, dolce, [e] prova a togliere i canini alla nostalgia in cui affoga il libro”.

In questo libro, definito come la descrizione del processo di educazione amorosa di un piccolo tifoso giallorosso, c’è un racconto e un raccontarsi diverso. Nell’autobiografia dell’adolescenza dell’autore (dai 9 ai 14, dalla Roma che sta per retrocedere alla finale contro il Liverpool) il racconto non è né aneddotico né volutamente acculturato. Mi vene da dire “no al calcio moderno” e “no allo storytelling moderno” che prova a venderci e raccontare il calcio a noi, proprio a noi che lo viviamo dal momento in cui siamo venuti alla luce.



Quella di Bonvissuto, ripeto qui vige il mio gusto personale, (mi) sembra un’auto etnografia in cui il ripercorrere determinati eventi sembra quasi un atto necessario per consapevolizzare nell’oggi il perché e il per come del tifo – o per meglio dire, l’amore per la Roma. È un raccontare diverso e non si tratta di paragoni per dire chi è meglio o chi è peggio, chi è prima e chi è dopo. Nel racconto di Bonvissuto la Roma è tutto ma non come squadra, calciatori, statistiche e attinenza con la realtà. La Roma è l’aria che si respira, che l’autore respira al Quadraro e nella sua famiglia dove nessun parente è chiamato per nome né tanto meno è definito da qualcosa di esterno come il lavoro.

Tutti sono definiti da quanto dipendono dalla Roma e dal loro grado di romanismo che ovviamente vede in testa il Nonno perché lui ha visto Campo Testaccio. Sul divano a “guardare” la radio si ritrovano generazioni di amanti della Roma consapevoli che non è una sfida a chi la ama di più perché, come dirà in un capitolo lo zio al giovane autore, il bello di essere della Roma è che c’è sempre uno più romanista di te. La descrizione di questa “umanità” è diversa da quella di uno che ritengo il massimo fantasista della letteratura calcistica (casomani fosse un genere) ovvero Ovaldo Soriano.

In Bonvissuto non ci sono gli incredibili personaggi della terra del fuoco, con la pelle cotta dal sole e la bocca impastata dal vento come il Mister Peregrino Fernandez. Non ci sono neanche quei personaggi crudi e spietati di John King così come non c’è posto per il ricordo esatto alla Tim Park nel suo Questa pazza fede (sul suo anno con i tifosi dell’Hellas Verona), non ci sono neanche le bellissime ma escatologiche visioni del Nick Hornby di Febbre a 90.



Qui in in realtà non c’è niente e nessuno. Se non la Roma, l’unica cosa ad essere nominata costantemente. Tutti gli altri sono anonimi (giusto il personaggio di Barabba viene delineato ma lui è un outsider sia del tifo che della vita). Falcao è semplicemente Lui, Di Bartolomei è il capitano e Rocca è quel terzino a cui avevano dato il soprannome della moto che suo zio aveva a mezzi con un amico (una Kawasaki per l’appunto). Questo fattore anonimato mi ha colpito molto perché, pur parlando di una storia biografica, Bonvissuto, così come altri grandi romanisti che ho avuto la fortuna di conoscere e che hanno vissuto il periodo d’oro della Roma degli anni 80, ti lascia un posto vicino a lui.

Basta che non ti levi mai la sciarpa giallorossa e che attacchi le figurine delle altre squadre tutte al contrario. Fanculo alla coerenza tassonomica. Mentre leggevo questo romanzo risentivo i rumori di quella Rometta periferica che spero resista al giubileo gentrificante. Quella Rometta piccola e imperiale che dentro un bar costruiva il suo mondo. La cosa che forse ho amato di più del viaggio con Bonvissuto (devo confessare che ho finito il libro in 4 giorni e per me è un record) è che (mi) ha dato esattamente quell’idea di appartenenza incondizionata che è forse uno dei sentimenti che più si bramano.

Bonvissuto scrive con il candore di un bambino che l’amore (per la Roma) non ha nomi (non è di Francesco, Bruno o Daniele), non ha luoghi (per amore si va in ogni luogo senza prestare attenzione come l’episodio della trasferta a Pisa), non ha momenti di pausa, non ha delusioni. Amare, quando riesce, è qualcosa che viene in maniera naturale o che risveglia in noi qualcosa di innato per cui ci troviamo a fare tutta una serie di azioni senza sapere il perché. Non voglio aggiungere altro sul libro perché lo dovete leggere e amare da soli. Però vorrei chiudere con una citazione che mi è piaciuta al punto da sottolinearla e fare un’orecchia alla pagina che, come chi è stato piegato all’amore, non tornerà più come prima:

“Andare allo stadio era recitare un copione teatrale, rispettavamo dei riti. E se da piccolo papà mi dava sempre la mano lungo tutta la strada, doveva continuare a darmela per sempre. Eravamo megalomani e romantici. Eravamo romanisti”. (p.172)


[1] Auto ferie nel senso che il precariato non ha datori di lavoro quindi il lavoratore può decidere in maniera autonoma il suo concetto di vacanza anche se, avendo interiorizzato il capitalismo, 10 giorni sembrano sempre troppi.


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