Editoriali
04 Ottobre 2024

Non chiamateli ultras

A chi e cosa serve l'associazione ultras-mafia.

Alla luce di quanto sta avvenendo nelle curve di Inter e Milan, soprattutto per come viene raccontato dalla stampa, possiamo ancora parlare di ultras? Non stiamo assistendo, ed è questa la domanda che pongo, ad un fenomeno di semplificazione tra associazione a delinquere e tifo? Altra domanda: questa semplificazione, che a tutti gli effetti è una strategia di comunicazione che veicolerà successivi comportamenti, da cosa è mossa e a cosa vuole arrivare? A quale strategia di repressione mira questa facile associazione tra criminalità e mondo ultras?

In breve, senza mitizzare la figura dell’ultras come ultimo romantico, ma seguendo gli spunti di chi quella cultura l’ha studiata ai suoi albori – ovvero Valerio Marchi – possiamo usare questo termine per ogni persona che a petto nudo e con un megafono “comanda” una curva? Se esiste ancora una sottocultura ultras viva e vegeta – come sostiene chi scrive, così come tutta le redazione di Contrasti – che si trova anche nell’Eccellenza più provinciale, come è possibile parlarne solo nel momento della sua degradazione?

Ancora di più, perché si parla di cultura ultras solo nel momento della sua condanna? E infine, stiamo davvero parlando di cultura ultras o altro?

Partiamo da un dato. Quando il grande pubblico e il suo linguaggio entrano in contatto con termini e mondi sottoculturali, si creano solitamente due atteggiamenti distinti e specifici. Da una parte la sottocultura si sente colpita nel vivo, e si chiede come sia possibile che chi abbia agito sempre al margine e fuori dai radar possa diventare un soggetto così visibile e decifrabile da chiunque. Come è possibile che, chi non hai mai sentito parlare di qualcosa/qualcuno, ora possa esprimere un giudizio di valore e merito?

Questo ci si chiede nel mondo del margine (e ciò vale anche per altre contro/sottoculture come quella punk, skinhead e mood ma anche, per uscire dai certi stereotipi, Scientology). Dall’altra parte, quella del discorso pubblico che veicola il messaggio, si compie un’operazione di semplificazione in virtù della necessità della sua stessa divulgazione. Tuttavia, divulgare e conoscere sono due cose diverse.



Nella vicenda di Milano (trasversalmente Inter e Milan) dobbiamo soffermarci sul linguaggio, andare a capire i motivi del discorso. Una delle prime cose che salta all’occhio, se ovviamente non applichiamo il filtro del moralismo en passant, è il linguaggio. Un dato/fatto credo abbastanza chiaro è che nell’affaire delle curve milanesi – e prima ancora in quello della Juventus – non stiamo parlando del fenomeno ultras. Stiamo parlando di una “normale” associazione a delinquere di stampo più o meno mafioso che nulla ha a che fare con il mondo (direi ontologico) della curva. 

In questo discorso di semplificazione della curva e del modello ultras bisogna quindi iniziare a distinguere tra ciò che è un elemento culturale, come lo definiva Valerio Marchi, e ciò che è associazione a delinquere. Crimine nella sua purezza e non atto criminalizzato. Se poi vogliamo sprofondare nella tana del bianconiglio dopo essere stati – fatemi usare tutti i miei amati americanismi – redpillati e sostenere che in Italia l’associazione a delinquere è un fatto culturale, allora abbracciamo la cospirazione e facciamoci brillare. Ognuno è libero di cospirare.

La tecnica del facile associazionismo, in nome di una divulgazione di massa equa e democratica, in realtà come ogni forma di linguaggio pedagogico – nel senso che educa – risponde alla strategia che un governo (o classe dirigente dominante) decide di adottare per instradare i suoi cittadini.

Quindi, ancora una volta, questo sillogismo violenza-ultras=associazionismo mafioso a cosa serve e a chi serve? Soprattutto in che realtà viene calata? Ovvero perché qui ed ora. Stiamo assistendo, DDL 1606 alla mano, ad una recente azione e narrazione securitaria che ha preso tutto il discorso italiano. In questa svolta securitaria, anche se in maniera indiretta, rientra lo stadio e la sua gente dal momento che un decreto che prevede anche pene severe contro la resistenza passiva è un decreto contro il dissenso, e la (sotto)cultura ultras è la cultura del dissenso.

Dal testo per eccellenza sugli studi di questa cultura, ‘Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa’ di Valerio Marchi (1994): «il primo di questi canoni [quelli che accomunano ultras e hooligan NDA] è il senso di delusione: dall’hooligan all’ultrà, quel che si registra è una caduta verticale del livello di aspettative sulla natura “aperta” della società dell’affluenza e sulle capacità emancipatrici della pratica politica, a cui si aggiunge una sempre maggior difficoltà a capire le complesse trasformazioni del modello postindustriale, dal mutamento delle tecnologie e dei rapporti di forza tra classi alla sovrapproduzione di informazioni e di comunicazioni massmediale». (144-145)



Torniamo adesso al nostro campo ed iniziamo a ragionare sulla narrazione comune degli ultimi anni. Lo stadio non è un posto sicuro/non è un luogo per famiglie in quanto è frequentato da criminali. Quante volte avrete sentito questa frase, un ritornello più che altro, magari pronunciata da un parente allarmista durante il pranzo della domenica dopo che avete annunciato a tutti che non mangerete il Tiramisù di mamma perché dovete correre allo stadio? – il tutto contravvenendo ai dati tra l’altro, che mostrano negli ultimi decenni un calo drastico degli incidenti dentro gli stadi.

Ecco, quel “criminale” in realtà è un pregiudizio morale che nulla ha a che fare con la criminalità organizzata, eppure equipara nella mente di chi non conosce – che poi è colui che divulga – l’assonanza tra criminalità da reato, quella che stiamo vedendo a Milano, e la criminalità di chi urina per strada dietro ad un cassonetto, o accende un fumogeno. Equiparazione, semplificazione e appiattimento. Come ha scritto Valerio Marchi lungo tutta la sua analisi delle sottoculture da ‘Teppa a SMV. La sindrome di Andy Capp‘ passando per ‘Il derby del bambino morto’, l’ultrà in qualità di sottocultura rientra all’interno dello schema del Folk Devil, ne rappresenta l’incarnazione.

Anzi, oserei dire, la necessità. Il Folk Devil, in quanto stereotipo è un fenomeno trasversale, transculturale in grado di superare le restrizioni del tempo in quanto essere mitologico.

«Il folk devil è una persona o un gruppo di persone che vengono rappresentati nel folklore o nei media come outsider e devianti, e ai quali vengono attribuite colpe per crimini o altri tipi di problemi sociali. La caccia ai folk devils spesso si intensifica in un movimento di massa che viene chiamato panico morale. Quando un panico morale è in pieno svolgimento, i folk devils diventano oggetto di campagne di ostilità poco organizzate ma diffuse attraverso pettegolezzi e la diffusione di leggende metropolitane. A volte i mass media partecipano o cercano di creare nuovi folk devils nel tentativo di promuovere la controversia. A volte la campagna contro il folk devil influenza la politica e la legislazione di una nazione» (Wiki UK).

Questa teorizzazione si deve in particolare ad un testo del 1972 del sociologo inglese Stenley Cohen dal titolo ‘Folk Devils and Moral Panics The creation of the Mods and Rockers’ tradotto in italiano come “Demoni popolari e panico morale. Media, devianza e sottoculture giovanili”. Vorrei sottolineare il passaggio «A volte i mass media partecipano o cercano di creare nuovi folk devils nel tentativo di promuovere la controversia. A volte la campagna contro il folk devil influenza la politica e la legislazione di una nazione».



Quindi se noi vogliamo creare un regime securitario e ripulire tutto, dobbiamo prima di tutto creare panico morale. Una volta fatto questo, ovvero una volta che una questione complessa, stratificata e istituzionalmente ramificata, come quella dell’associazionismo di stampo mafioso viene semplificata e divulgata, ecco che allora il folk devil appare con un megafono in mano ad incitare la curva. Equiparare “mafia” a tifo significa mettere sullo stesso piano una cosa che tutti odiano, perché è brutta e cattiva, con una cosa che in realtà non c’entra nulla. Che anzi, per codice e ‘valori’ (che si condividano o meno), vede nella pratica mafiosa un tradimento e una negazione stessa dell’essere ultras.

Se uccideremo, o meglio, auto censureremo la cultura dello stadio, lo faremo perché non siamo mafiosi e quindi in nome del rispetto della legge e della legalità lasceremo ripulire gli stadi perché è ovvio – a detta dei giornali – che le curve sono le nuove cosche. Come detto, il discorso sul folk devil è strumentale e strumentalizzato. In questo caso, pertanto, ci potremmo chiedere se lo si vuole usare per eliminare le ultime forme di dissenso all’interno (anche) dello stadio o se effettivamente si vuole iniziare una politica di contrasto alle mafie e alle sue infiltrazioni in appalti e gestioni di servizi (per le quali l’utilizzo dello spauracchio ultras tuttavia non servirebbe).

A tutto questo non si può rispondere in maniera dicotomica, sì/no, bianco/nero, giusto/sbagliato in quanto si prende un fenomeno concreto, l’infiltrazione mafiosa all’interno della curva, se ne confonde la causa con l’effetto – la “mafia entra nello stadio perché allo stadio ci sono i criminali” e non invece “i criminali hanno visto nello stadio un nuovo fenomeno di business perché nel mondo capitalista tutto è un mercato”, soprattutto nelle grandi piazze – e poi si chiedono risposte immediate, risposte per le quali servirebbero prospettive e ricerche non preterintenzionali.

Quindi alla prima domanda di cui sopra, quella sulla cancellazione di un mondo ribelle e sottoculturale, non risponderò con sì/no però potrei azzardare un “molto probabilmente”. Molto probabilmente stiamo uccidendo il dissenso, mascherandolo da lotta alla criminalità attraverso la figura dello spauracchio ultras, identificato come un criminale e magari anche mafioso. Ma, ancora una volta, siamo sicuri che stiamo parlando della stessa cosa?


FONTI

V. Marchi, Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio, DeriveApprodi, Roma, 2005

V. Marchi, Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa, Hellnation, Roma, 2015 [I edizione, Koinè, Roma, 1994]

V. Marchi, SMV. La sindrome di Andy Capp, Red Star Press, Roma, 2021 [I edizione, NdA Press, 2003]

Prima di giudicare il tifo organizzato dovremmo comprenderlo, un articolo di Luca Pisapia


Ti potrebbe interessare

Salvate i Padovani dall’Euganeo
Ultra
La Redazione
06 Ottobre 2024

Salvate i Padovani dall’Euganeo

Una battaglia decisiva, uno stadio disumano.
Gabriele Sandri, storia di un omicidio
Tifo
Alessandro Imperiali
11 Novembre 2020

Gabriele Sandri, storia di un omicidio

Tredici anni fa veniva ucciso un cittadino italiano.
Dinamo Dresda, la marcia dell’est
Tifo
Michelangelo Freda
04 Settembre 2024

Dinamo Dresda, la marcia dell’est

Viaggio in una delle tifoserie più calde di Germania.
Marsiglia vs Nizza, il derby del Mediterraneo
Ultra
Jacopo Benefico
24 Aprile 2024

Marsiglia vs Nizza, il derby del Mediterraneo

Storia di due città che si odiano da sempre.
Omonoia Nicosia, la squadra del popolo
Tifo
Davide Iori
28 Ottobre 2022

Omonoia Nicosia, la squadra del popolo

Dopo l'Apoel, contro il regime greco.