Osvaldo Soriano racconta i sogni, il calcio e il conflitto.
Osvaldo Soriano ha trascorso la sua vita tirando pietre giornalistiche e letterarie nelle finestre dei potenti, con la determinazione di un bambino e senza mai perdere il sorriso. I suoi libri sono stati letti dai ragazzini di Buenos Aires e da Fidel Castro, Gabriel Garcia Marquez, Salman Rushdie e Diego Maradona. Un cancro ai polmoni gli ha troncato la vita a soli 54 anni, non consentendogli di portare a termine il suo nuovo romanzo su Carlos Gardel. Era il 29 gennaio 1997. Ad oltre un quarto di secolo dalla morte, el Gordo continua a vivere nella memoria dei tantissimi che lo hanno letto con piacere, trepidazione e ammirazione. Tra le numerose perle letterarie che ci ha lasciato Soriano non mancano i riferimenti alla guerra anglo-argentina, scoppiata nell’aprile ’82, per il controllo delle Isole Falkland, di cui quest’anno cade il quarantennale.
L’antologia “I Racconti degli anni felici” comprende L’Autunno del ’53 (già pubblicato nella raccolta “Pensare con i piedi”, 1993) in cui lo scrittore di Mar del Plata descrive la spedizione di un gruppo di ragazzi che, nei primi anni ’50, rispondendo alla richiesta di azione patriottica affidatagli direttamente dal generale Perón, partirono da Neuquén con un autobus sgangherato per affrontare gli inglesi in una partita di pallone alle Isole Falkland. I britannici si erano impegnati, nel caso di vittoria argentina, ad accettare che le isole si sarebbero chiamate per sempre Malvinas su tutte le carte del mondo.
«La nostra sarebbe stata, credevamo, una missione tale da restare per sempre nei libri di Storia e noi andavamo, allegri e cantando orgogliosi, tra montagne e boschi da cartolina. Era il lontano autunno del 1953, avevo dieci anni».
Osvaldo Soriano
A scuola, durante la ricreazione, si giocava alla guerra, immaginando le battaglie dei film in bianco e nero con buoni, brutti e cattivi, eroi e traditori, pavidi e indomiti, delatori e fedeli. «L’Argentina non aveva mai combattuto contro nessuno – ricorda l’autore di Triste, solitario y final – e non sapevamo cosa fosse una guerra». In quel tempo si disputava la Copa Infantil Evita che la squadra di Soriano conquistò battendo in finale i ragazzi di Buenos Aires.
Il viaggio verso le Falkland divenne una piccola odissea. L’autobus era così vecchio da non poter sostenere il peso dei ventisette passeggeri, con aggiunta di valigie e taniche di gasolio portate come scorta per evitare imprevisti durante la traversata nel deserto. Nel primo sedile c’era il professor Seghetti, il preside della scuola, con attorno funzionari provinciali e nazionali, intento a far cantare ai ragazzi l’inno argentino e a far ripassare la lezione di storia sulle Malvinas. Sul tetto casse di acqua potabile, scatolette e carne salata per attraversare montagne, laghi e deserti ed arrivare all’Atlantico, prima dell’ultimo tratto in barca verso le isole tanto rimpiante. Scorrono tra le righe del racconto di Soriano uomini a cavallo pronti a tirare l’autobus fuori dall’acqua. Tra gli autisti c’era l’italiano Luigi che, tra le gialle dune del Chubut, doveva fare miracoli per evitare il precipizio a causa di una gomma che scoppiava ogni tre ore.
L’altro autista era un cileno di bassa statura che si orientava con una carta dell’esercito del 1910, comprensibile solo a lui. Una grandinata sciolse la mappa e fece perdere la gran parte delle provviste. Il paesaggio che scorre tra le righe del racconto è anche quello della Cordillera, con fiumi così ingrossati da fare un “rumore tale che ci pareva di essere alle porte dell’inferno”. Giorni a preparare asado e a riparare il radiatore del mezzo, bucato da una pietra.
«Non ricordavamo perché le isole ci appartenessero né in che modo le avessimo perdute. La sola cosa che ci interessava era vincere la partita con gli inglesi e che la notizia della nostra vittoria facesse il giro del mondo», sottolinea Soriano tra le pagine del racconto.
Si era convinti che le Malvinas appartenessero all’Argentina perché più vicine al Paese sudamericano che all’Inghilterra. Il gaucho Rivero, l’ultimo coraggioso che aveva difeso quei posti, era finito prigioniero, per contrabbando, in un carcere di Londra. In attesa di scendere in campo contro gli inglesi, c’era nei ragazzi la fierezza di essere stati scelti da Peròn che, in vespa e vestito di bianco, aveva consegnato la Coppa da loro vinta a Buenos Aires. Erano i primi argentini a mettere piede a Port Stanley. Adesso contava l’orgoglio e la speranza di essere i trionfatori delle Malvinas.
Tra venti e tempeste, con poco carburante e pochissimo cibo, spaventati dai puma e presi a sputi dai guanachi, la truppa sgangherata si muoveva con un autobus che strada facendo aveva perduto la capote, i paraurti e tutte le valigie sistemate sul tetto. Il mezzo finì in un’interminabile distesa di salnitro, a causa di un colpo di sonno dell’autista italiano che fece impantanare la comitiva. Tra un’allucinazione e l’altra, il preside si convinse di essere Perón e i funzionari i ministri. Luigi si definì la reincarnazione di Benito Mussolini. L’orizzonte era vuoto e il sole martellante. Nel racconto spunta anche un intruso, vestito di nero, con un neo peloso sulla fronte e un libro dalla copertina scura sotto il braccio. William Jones, si chiamava, veniva dalle Malvinas e parlava uno spagnolo stentato ma un ottimo inglese.
Si presentò come apostolo di Gesù Cristo in quei luoghi.
La strada per Port Stanley era stata smarrita. In attesa di ritrovarla, gli argentini avevano vinto due partite con i cileni di Puerto Natales che sta più o meno dove finisce il mondo. Se gli inglesi avessero saputo della loro inettitudine non avrebbero mai restituito le Malvinas. La partita anglo-argentina non si disputò. Jones si diede a predicare il Vangelo per tutta la Patagonia per poi spostarsi a Corrientes dove ebbe un figlio da una donna che parlava guaraní. Venne sepolto in un cimitero inglese di Buenos Aires.
Suo figlio cadde nella battaglia di Mount Tumbledown, combattuta il 13 giugno ’82 tra le guardie scozzesi e i marines argentini per la conquista della capitale delle Falkland. Il giovane soldato Jones venne sepolto nel cimitero argentino di Port Stanley. Quello scontro segnò l’inizio della fine delle ostilità. Nello stesso giorno, l’Argentina diMenotti venne sconfitta dal Belgio nella partita d’esordio del Mundial di Spagna. «Se non ci fossimo persi nel deserto, in quell’autunno memorabile del ’53, – scrive Soriano nell’epilogo del suo racconto – forse non sarebbe successo quello che successe nel 1982».
Calciatori argentini nel conflitto delle Falkland
Passando dalla letteratura alla storia è doveroso soffermarsi su quanti persero la vita, quattro decenni fa, nella guerra delle Isole Falkland. Molti di loro sono sepolti nel Cimitero di Darwin, situato in una zona fredda e deserta, battuta spesso da un vento gelido, a non molta distanza dal Polo Sud. Dormono su quella collina gli argentini caduti in poco più di settanta giorni di guerra. Attorno alle lapidi arrivano ancora oggi, periodicamente, gruppi di famiglie e veterani argentini per un minuto di silenzio, sventolando una bandiera bianca recante la scritta “Territorio Argentino” sul profilo delle isole contese. Tra questi Luis Alberto Escobedo, gestore di un’associazione di reducied ex calciatore del Vélez Sarsfield e Belgrano: quando l’hanno chiamato alle armi militava nel settore giovanile del Los Andes.
Dopo l’affondamento dell’incrociatore leggero General Belgrano, silurato da un sottomarino inglese il 2 maggio ‘82 (la più grave disfatta argentina di quel conflitto), alla Bombonera il Boca Juniors pareggiava 1-1 contro l’Estudiantes, con reti di Robero Mouzo e pari ospite di Gottardi. Si pensò di far disputare alle Malvinas un Superclásico tra Boca e River per risollevare il morale del soldati argentini al fronte. Il calcio non si fermò.
Quando Puerto Argentino tornò a chiamarsi Port Stanley, la junta militar al potere, guidata dal generale Leopoldo Galtieri, trasformò propagandisticamente quella disfatta in “tenace resistenza”.
Tra i giovani che evitarono quell’inferno ci fu Jorge Burruchaga, il giocatore che quattro anni dopo avrebbe deciso con un suo gol la finale mondiale contro la Germania Ovest a Città del Messico. Scampò alla mattanza delle Malvinas per l’abbraccio della sorte, agevolato dal fatto di essere stato ingaggiato dall’Independiente. Partirono per il fronte, invece, Omar De Felippe (un titolo in Ecuador da allenatore dell’Emelec) e Gustavo De Luca, poi capocannoniere in Cile. Un altro calciatore diventato soldato è stato Javier Dolard, attaccante nelle giovanili del Boca.
Molti ragazzi della leva calcistica della classe ’62 ebbero la vita segnata dal conflitto, e dopo la guerra delle Falkland in tanti non riuscirono a ritrovare la strada calcistca. Tra questi Héctor Rebasti, portiere del San Lorenzo, che al fronte, per vincere la paura, cominciò a bere senza sosta. Come il capitano nordista di un film di Sergio Leone nei pressi del ponte di Langstone. Sfinito dall’alcol, una sera Rebasti si addormentò sognando che le sorti della guerra si decidessero in una partita di calcio dove lui parava tutto facendo vincere i suoi. Come nel racconto di Osvaldo Soriano. Quando Maradona affossò all’Azteca l’Inghilterra, nei quarti di finale di Messico ’86, Rebasti pianse come un bambino.
Un altro reduce del conflitto anglo-argentino è l’attaccante Héctor Cuceli, compagno di squadra di Rebasti, che per molti anni si porterà dietro la scena dei suoi compagni saltati per aria. È diventato meccanico e ha chiamato sua figlia Malvina come segno di riconoscenza verso la vita. Juan Colombo era una promessa del Chaco (terza divisione). Dopo la guerra passò all’Estudiantes e vinse il titolo Nacional nel 1983. «Il calcio mi ha salvato la vita, aiutandomi a curare il trauma della guerra», dirà. Anche il portiere Claudio Petruzzi, promessa del Rosario Central, finì in guerra, arruolato nel corpo medico. Ritrovò la sua strada al di fuori del futbol, diventando un docente universitario.
Julio Vázquez ricevette invece la cartolina precetto per ricongiungersi all’esercito mentre i suoi genitori erano in Plaza de Mayo a manifestare. Scese in campo nella sfida tra Centro Español e Central Ballester. Al termine, si lavò e, senza salutare nessuno, lasciò lo spogliatoio piangendo. Lo attendeva il fronte infuocato delle Falkland. “Il requiem del sogno del dopoguerra”, come lo avrebbe chiamato, un anno dopo, Roger Waters nell’album pinkfloydiano The final cut.