“Papà, mi porti a giocare?”. Scorci di infanzia e spensieratezza popolano il lontano ricordo del rapporto padre-figlio. Figli che, in innocenti evasioni fanciullesche, imitano i gesti dei loro campioni del cuore, sognando, un giorno lontano, di ripercorrere le loro orme e avere un posto nella gloria.
Padri che condividono le proprie passioni, accontentando i figli pur di rendere la loro infanzia più felice e formativa possibile. Crescere nello sport, con lo sport, nel rispetto dei compagni e degli avversari. Ancora, padri che vedono nei propri figli il talento e l’attitudine necessari per puntare in alto, che con sacrifici danno il supporto economico e mentale per facilitare la crescita del figlio. Con il sogno che il figlio abbia un futuro il più radioso, glorioso e agiato possibile. Padri che sperano che il proprio figlio arrivi laddove loro non sono mai neanche lontanamente riusciti ad avvicinarsi.
Ma, in fondo, cos’è che avvolge il sogno di un padre nel vedere il proprio figlio conquistare la fama sportiva se non un velo di speranza mista a fragile illusione? Nessun dovere da rispettare se non l’impegno, la voglia di provarci. Nessun rischio di disonore, nessun obbligo di arrivare per forza.
«Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se ne rende degno». (Fëdor Dostoevskij)
E se invece il padre fosse uno sportivo famoso, di successo, che ha fatto la storia del proprio sport? E se il figlio, mosso dalla stessa passione del padre, sognasse un giorno di emulare le sue gesta o di fare ancora meglio? Cos’è, questo desiderio? La benzina che fa superare ogni ostacolo o un tacito e logorante complesso di inferiorità? Forse l’unica risposta plausibile è: “dipende dai casi”.
Nella storia dello sport ci sono diversi esempi di figli che hanno cercato e cercano tuttora di emulare le grandi gesta dei propri padri. Alcuni ci sono riusciti, splendendo di luce propria. Altri sono riusciti addirittura a fare meglio. Altri ancora, pur affermandosi ad alti livelli, sono stati offuscati dalla stella genitoriale. Altri, infine, hanno fallito, finendo per cadere nel dimenticatoio. È il peso dell’eredità: motore che porta al successo o pesante fardello?
Ci sono storie in cui la stella del padre è semplicemente troppo splendente, non emulabile. JohanCruijff, l’uomo simbolo della rivoluzione del calcio totale, uno dei 5 giocatori più forti della storia del calcio. Dilungarsi sulla sua figura sarebbe superfluo, almeno in questo articolo. Il figlio, Jordi, ha giocato come centrocampista a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, iniziando la propria carriera nel fortissimo Barcellona allenato dal padre. Sia nel Barcellona che nel Manchester United Jordi non è mai riuscito a incidere veramente (anche per via di diversi infortuni). Buon centrocampista dallo spiccato senso tattico e dall’ottimo tiro dalla distanza, ma nulla più.
Gli anni migliori nell’Alaves dei miracoli che giunse ad un passo dalla conquista della Coppa Uefa. Proprio Jordi Cruijff segnò allo scadere dei tempi regolamentari il gol che permise il prolungamento ai supplementari della finale contro il Liverpool. Ma il Liverpool vinse. L’estremo tentativo di Jordi di conquistare un titolo europeo dopo le 3 leggendarie Coppe dei Campioni vinte dal padre sembra essere l’immagine di una carriera che, per quanto volenterosa, discreta e sfortunata, non poteva neanche sfiorare la leggenda di Johan. Il peso dell’eredità, nel suo caso, è stato semplicemente insostenibile.
Non sempre, però, la dinastia è un peso. Giorgio Cagnotto è uno dei migliori tuffatori italiani di sempre, vincitore di diverse medaglie in Europei, Mondiali e Olimpiadi nel corso degli anni ‘70. La figlia, Tania, è la tuffatrice italiana più forte di tutti i tempi. Le loro carriere sono simili: tante medaglie in campo internazionale e avversari per loro troppo più forti. Klaus Di Biasi, il miglior tuffatore italiano della storia, per Giorgio. Le imbattibili rivali cinesi, per Tania.
Ad accomunare padre e figlia c’è anche una solida mentalità: allenamenti massacranti, voglia di migliorarsi, per non accontentarsi mai, per spingere il limite sempre più in là. È Giorgio che ha allenato Tania negli anni, forgiandole il carattere. Per non mollare, per reagire dopo la medaglia olimpica – il sogno della vita -, sfuggita per 20 centesimi di punto nel 2012: ecco allora che la conquista arriva nel 2016. Il peso dell’eredità, qui, è granitica condivisione. È la scintilla che si crea dallo sfregamento di due pietre preziose.
Ma la condivisione diretta e quotidiana non è l’unico viatico al successo. L’affermazione di un figlio può nascere dal ricordo di ciò che il padre è stato. Un padre andato via troppo presto, praticando ciò che amava più della sua stessa vita. La voglia di ripercorrerne le orme, per onorarne la memoria. Graham Hill è stato un pilota formidabile, vincitore di due mondiali di Formula 1 nel 1962 e nel 1968 e finora unico nella storia a conquistare la “Triple Crown” (vittorie di Campionato del Mondo di Formula 1, 500 Miglia di Indianapolis e 24 Ore di Le Mans). Un tragico incidente aereo lo portò via nel 1975, a soli 46 anni.
Il figlio Damon gareggiò in Formula 1 per tutto l’arco degli anni ’90. Due personalità differenti, Graham e Damon. Il padre era talentuosissimo, istrionico, un artista del volante, un attore che buca lo schermo. Il figlio è più sobrio, dimesso, meno talentuoso. Nell’ambiente delle corse era percepito come insofferente per le rivalità (su tutte quella con Schumacher) e inadeguato per vincere un Mondiale nonostante disponesse della fortissima Williams della metà degli anni ’90.
Ma Damon aveva una grinta fuori dal comune, e un fortissimo desiderio, covato e tenuto nascosto nei meandri del cuore per anni, spingeva sul suo acceleratore: vincere il Campionato del Mondo per dedicarlo al padre. E Damon ce la fece: il Mondiale del 1996 fu suo. Non è l’unico caso in Formula 1 di figlio d’arte che vince un titolo mondiale. Jacques Villeneuve e Nico Rosberg, pur meno talentuosi dei padri, sono riusciti nell’impresa. Il peso dell’eredità, qui, è continua fonte d’ispirazione.
Naturalezza, questione di genetica, normale evoluzione, lasciare che il tempo faccia il suo corso e che il talento emerga inevitabilmente. Sandro Mazzola, il fantasista della Grande Inter di Herrera, uno dei più grandi calciatori italiani di tutti i tempi, da una parte; Valentino Mazzola, il trascinatore del Grande Torino, uno dei più forti numeri 10 della storia del calcio, dall’altra. Entrambi hanno fatto parte di due squadre leggendarie. Tra i due, tantissime cose in comune: il talento puro, l’intelligenza tattica, l’ammirevole abnegazione nei ripiegamenti difensivi. Sembrano indivisibili.
Valentino portava il piccolo Sandro con sé agli allenamenti e alle partite. La domenica l’ingresso in campo mano nella mano. Neanche la separazione tra Valentino e la madre di Sandro era riuscita ad allontanarli. Poi, la tragedia di Superga. Pian piano Sandro prese coscienza del fatto che la lontananza del padre non era dovuta, come tante altre volte, ad una trasferta. Il distacco era definitivo. L’inevitabile dolore lasciò presto spazio alla crescita, fisica e caratteriale.
L’assenza che forgia l’animo. La passione per il calcio portò Sandro ad entrare nelle giovanili dell’Inter. Da qui, anni di “serpertine” e di grandi successi in campo. E un cerchio che inaspettatamente si chiuse a pochi anni dall’inizio della carriera. Finale della Coppa dei Campioni del 1964, Inter-Real Madrid. Mazzola contro Di Stefano, per molti l’alter ego spagnolo di suo padre. Doppietta di Mazzola, l’Inter vinse 3-1. A fine partita, Puskas, altra leggenda, andò incontro a Sandro, dicendogli:
“Ragazzo, io ho giocato contro tuo padre: sei degno di lui”.
Ma non sempre il padre è esempio di grandi successi. Può anche accadere che ciò che il padre sarebbe potuto essere e non è mai stato spinga il figlio a dare il massimo, a non dare nulla per scontato. Perché il talento, senza adeguati sacrifici, rimane solo un effimero piacere. Roberto Vieri è stata una forte mezzala a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, un regista offensivo di pura classe e invenzione. Testimone di un calcio “antico”, meno rapido e muscolare. Come tanti altri protagonisti di quel tempo, aveva poca voglia di correre e un poco spiccato senso della disciplina.
Un potenziale campione che dopo anni di “furore” alla Sampdoria non è riuscito a imporsi nella Juventus, la cui dirigenza lo cede dopo un anno poco soddisfacente. In pratica, il classico mancato salto di qualità. Il figlio Christian è stato il più forte centravanti italiano a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Una carriera scandita a suon di gol tra Italia, Spagna e Francia e da protagonista in top club come Juventus, Atletico Madrid e Inter. Meno talentuoso del padre, ma affamato di gloria. In casa Vieri, il passaggio di testimone è di quelli da contrappasso: da un padre virtuoso del pallone a un figlio che compensa con rabbia e volontà la penuria tecnica. Di lui il padre disse:
“Ha quello che non ho mai avuto io. Quel qualcosa che forse poteva farmi diventare Maradona. Coraggio. Carattere. Voglia di farcela a tutti i costi. Non beve, non mangia mai niente fuori pasto, non fa tardi la sera. Testa a posto. Quello che ha oggi se l’è guadagnato tutto. L’ha voluto e se l’è guadagnato”.
Il peso dell’eredità, qui, è la motivazione che induce a far del proprio meglio e sempre meglio.
Ma la motivazione, per quanto piena e feroce, non sempre è garanzia di grandi risultati. Giovanni Simeone è un giovane, con ancora tanti anni di carriera davanti, ma dall’alone di critiche e scetticismo che lo avvolge sembra quasi che sia sul viale del tramonto. Simeone è esploso da giovanissimo, trovava la via del gol con facilità al Genoa. Basti ricordare la doppietta alla Juventus nel 2016 e la tripletta in Fiorentina-Napoli nel 2018. Il tutto condito dalla voglia di rincorrere ogni pallone a tutta velocità. All’apparenza, un diamante grezzo potenzialmente devastante.
Eppure, sembra già in parabola discendente. Nella scorsa stagione, nella sciagurata Fiorentina che ha rischiato di retrocedere, Simeone veniva soprannominato “Il sanguinario” per via della sua bulimia in fase realizzativa. In questa stagione, al Cagliari, flebili segnali di risveglio sotto porta, ma ben poco rispetto alle premesse di qualche anno fa. Giovanni Simeone è al momento una incognita che stona con la certezza che era stato suo padre da calciatore.
Diego Simeone, El Cholo, colonna dei centrocampi di Inter e Lazio, mediano roccioso e di inconfondibile efficacia. È un peccato, perché la grinta e l’applicazione di Giovanni meriterebbero maggiori risultati, ma sembra difficile intravedere in lui margini di crescita. E il peso dell’eredità, qui, si sta rivelando un fardello davvero pesante.
In ogni caso, la storia del Cholito non è ancora stata scritta del tutto. E la motivazione può fare miracoli, trasformando i momenti negativi in nuove rinascite, anche nella turbolenta e discontinua parte di carriera di un giovane di belle speranze. Ne sa qualcosaFederico Chiesa, a tratti osannato per la sua capacità di mettere in mostra facilità di corsa e dribbling sulla fascia, a tratti criticato per prestazioni sottotono e screzi con la società viola. Al momento Federico non è una certezza di continuità, e in tanti dibattono sulle sue reali qualità: potenziale fenomeno o sopravvalutato?
«Mio padre [Enrico] mi ha dato fin da subito tanti consigli utili per crescere come uomo e come giocatore. Però adesso a scendere in campo sono io, Federico Chiesa, non il figlio di».
In parecchi lo considerano tecnicamente inferiore al padre Enrico, uno dei più prolifici e indubbiamente talentuosi attaccanti degli anni ’90. Comunque, Chiesa è reduce da una doppietta siglata nell’ultima giornata di Serie A e certamente, se riuscirà ad abbinare alla rapidità e alla mentalità vincente migliori qualità tecniche nello stretto e una maggiore efficacia sotto porta, Federico potrà diventare determinante quanto il padre, se non di più. Prendere esempio dalle qualità del padre per migliorarsi e completarsi (e per non esserne l’ombra).
Infine, ci sono storie che devono essere ancora scritte. Daniel Maldini che ha da poco esordito con la maglia del Milan che fu di suo padre Paolo e di suo nonno Cesare. Mick Schumacher che è da poco membro della Ferrari Driver Academy, nella scuderia che rese il padre leggenda. Per loro il peso dell’eredità non è ancora misurabile, ma è solo questione di tempo.