Dopo trent'anni, tre italiane si giocheranno tre finali europee.
Roma, Fiorentina, Inter: alzi la mano chi ci avrebbe scommesso un solo centesimo. A distanza di trent’anni esatti dall’ultima volta, tre squadre italiane giocheranno in tre diverse finali europee. La Roma in Europa League contro il Sevilla – che ha eliminato una buona, pur sempre nei suoi limiti, Juventus –, la Fiorentina contro il West Ham e l’Inter contro il Manchester City. Roma, Fiorentina e Inter, tre squadre diversissime tra loro e su cui torneremo singolarmente, ma tre squadre accomunate, fuor di retorica, da un elemento profondamente italiano: il cuore. Non semplicemente il sentimento ma il cuore, quindi ciò che il popolo ebraico chiamerebbe lev: lo spirito, il coraggio che dà forza alla mente e alle gambe, ed è questa stessa mente e queste stesse gambe.
O come direbbe Majakovskij il cuore come tamburo dell’esistenza.
C’è tanto cuore in questa Roma. Sgorga un animo puro, deciso e determinante, in quel quasi pianto di José Mourinho sotto il settore dei tifosi giallorossi a Leverkusen. Ansia, fatica, ma anche tanto orgoglio per un risultato storico. Alla BayArena il Bayer ha fatto la partita che ci si aspettava. Ha attaccato, ha preso una traversa e sfiorato il gol (in una o due occasioni però, non di più) concludendo la sfida con più di trenta tiri verso lo specchio di Rui Patricio. Dall’altra parte la Roma ha scritto un nuovo capitolo del Santo Catenaccio, che ormai non è più neanche un Santo ma un Dio Catenaccio: un unico Dio in un monoteismo che ieri sera non ammetteva altro, neanche il contropiede.
Risultato? “Una partita epica” e 0-0, e altra finale per la Roma di Mourinho. La seconda in due anni, roba da fantascienza se pensate alla – maledetta – storia recente dei giallorossi, sempre a un passo dal traguardo e sempre di là dal raggiungerlo. Giusto per capirci: con Mourinho in due anni la Roma ha ottenuto lo stesso numero di finali europee conquistate nei precedenti 94 anni di storia. E il merito, come confessato dai giocatori giallorossi a fine partita, è innanzitutto di José: “lui è diverso in tutto”, per citare il capitano Pellegrini.
Lo abbiamo scritto a più riprese e lo ripetiamo di nuovo. A Roma, sponda Roma, solo José Mourinho poteva trasformare la sfiga in destino, la foga in volontà di potenza. I calciatori in uomini, soprattutto: “sono il capitano di una squadra fatta di uomini veri”, ha continuato ieri sera lo stesso Pellegrini, mai così cattivo e centrato in carriera. È un altro tipo e un vecchio modo di giocare a pallone. Con buona pace dei Cassano e degli Adani, che ieri quasi sembrava tifare il bel calscio del Leverkusen – squadra dal fraseggio elaborato e dalla evanescente concretezza.
In finale la Roma troverà il Sevilla, sorta di metonimia per l’Europa League. Una squadra che quest’anno sembrava morta e che invece è stata risollevata dall’antimoderno (per sua stessa ammissione) José Luis Mendilibar. È arrivato in Andalusia a fine marzo, e ha portato il Sevilla in finale di Europa League battendo due squadroni come Manchester United e Juventus. Come Allegri, ma a suo modo, è un profeta del calcio semplice. E dire che ieri il suo la Juventus l’ha pure fatto. Ma può una squadra di Allegri fare gol (0-1, Vlahovic) e subirlo dopo appena sei minuti? Questa Juventus, evidentemente, sì. Ed è difficile capire che futuro abbia l’allenatore livornese in un club che deve ricostruirsi.
La Vecchia Signora rischia di chiudere così in disfatta una delle peggiori stagioni di sempre. Non tanto a livello di titoli (zero) ma di risposte sul campo nei momenti clou. E pure di progressi, che si sono visti più nei risultati – durante il corso dell’anno – o nei singoli giocatori piuttosto che nel gioco di squadra, nella volontà di tornare quella Juventus dominante e spietata dell’Allegri 1. Il tutto con una penalizzazione pendente che rischia di far saltare il banco, e con esso le coppe. Tanto per intenderci: uno come Rabiot, che per Chiellini (Sky Sport) è «l’unico da tenere a tutti i costi», potrebbe aver giocato l’ultima partita europea in bianconero.
Nell’inferno rosso del Sanchez Pizjuan (una lode ai tifosi andalusi, al di là di tutto) il Sevilla ha segnato prima l’1-1, poi il 2-1, con due vecchie conoscenze della Serie A: l’ex Milan Suso, come detto, e poi Lamela con un gran gol di testa. L’ingresso del Papu Gomez sul finale ha aggiunto quel tocco di nostalgia e risolino di sottofondo che non manca mai anche al gran galà del football. Tutti e tre hanno vissuto un periodo decisamente meno felice per il nostro calcio, che ora li sfiderà per scippargli quella coppa che sembra appartenere quasi di diritto e di dovere a questo club.
Nel frattempo alla Juventus si apriranno processi, ma tutti con verdetti sospesi almeno fino a quando la giustizia sportiva non darà il suo, di verdetto. Una “stagione folcloristica”, l’ha definita Massimiliano Allegri. Ma il problema, adesso, è pure la prossima. Da dove riparte questa Juventus? Da chi riparte? Da quale progetto tecnico e da quale classifica? Cercheremo di capirlo presto. Grande confusione è sotto il cielo bianconero, alimentata da una gestione dilettantesca della giustizia sportiva.
Eppure la sensazione è quasi che tutto ciò abbia rappresentato un alibi per i bianconeri; che a caos sia stato aggiunto caos, fino a non poter più distinguere nulla.
E che ieri il caos avrebbe potuto partorire almeno una piccola stessa danzante, una finale euopea: si è giocato sui dettagli, sulle occasioni (mancate), sugli equilibri. La partita è stata nel complesso una partita di alto livello, ben più dell’altra semifinale. Una partita da 50-50 conclusa ai supplementari laddove, come a chiudere una stagione presto da archiviare per la Juventus, la bilancia ha deciso di pendere dal lato avversario: forse è anche giusto, nell’ottica dei 180 minuti. Qualche anno fa, però, queste partite la Juve riusciva sempre a trascinarle dalla sua parte. Ed è una simile consapevolezza, forse, a fare ancora più male.
Infine, due parole sulla Fiorentina di Italiano, che di cuore ne ha anche troppo. Spieghiamoci: alle volte sembra come se la Fiorentina, per lo strabordante entusiasmo della proposta di gioco, ampia e contemporanea nei suoi orizzonti, perda di vista il fattore terra-terra, quello che serve per mantenere ad esempio con più lucidità la situazione di vantaggio. L’1-1 poteva complicare non poco le cose, ma la Viola ieri era troppo superiore al Basilea. E allora: doppietta Gonzalez, gol Barak. Il cuore, ma anche la qualità e l’identità di gioco, è il tamburo della Fiorentina.
Dopo una stagione travagliata, tante critiche (anche interne, che rischiavano di far sprofondare la Fiorentina nel suo tipico masochismo) la stagione si chiuderà con due finali, compresa quella in Coppa Italia, a dimostrazione di una squadra che ha testa e carattere. E che sogna un titolo che, in Europa, manca dal 1961. Di fronte ad Italiano e i suoi ci sarà l’antitesi David Moyes: il pragmatismo fatto allenatore. Stringiamoci forte, e vogliamoci tanto bene. Ci sarà da soffrire e nessuna delle nostre partirà favorita. Eppure, soffre solo chi ha tanto cuore.