Ma non chiedetegli il perché.
In una lunga intervista rilasciata al Foglio, Paolo Scaroni, presidente del Milan, ha parlato del campionato e più in generale del calcio italiano. Dicendo, almeno inizialmente, quello che in molti pensano ma pochi hanno il coraggio di dire: «La nostra Serie A è diventata una Serie B se comparata con gli altri grandi campionati europei. Ci hanno superato tutti, o quasi, negli ultimi vent’anni». E ancora: «il risultato netto è che il prodotto che offriamo è scarso, senza i Messi e Mbappé, semplicemente perché non possiamo permetterceli. E se continuiamo così, ci allontaneremo sempre di più dall’eccellenza del calcio». Altro che giochismo, risultatismo, tattica e idee: lo diciamo ormai da anni, il problema del nostro calcio, che pian piano ci ha fatto scivolare nella “periferia calcistica d’Europa“, è di sistema, strutturale. Economico, politico, dirigenziale.
Scaroni parla anche del “drammatico problema infrastrutturale” in Italia, con riferimento agli stadi – nell’ultimo decennio in Europa ne sono stati costruiti 150, di cui solo tre in Italia (lo stesso numero realizzato nella sola Londra).
E qui pian piano, quando dalla diagnosi si passa alla prognosi, scivoliamo in netto disaccordo con il presidente del Milan, il quale cita a più riprese lo “spettacolo” come ingrediente fondamentale del pallone. Come se fosse la mancanza di “spettacolo” del campionato italiano ad averlo fatto sprofondare al livello tecnico probabilmente più basso di sempre, e non invece un sistema di governance inefficiente, senza visione e senza idee, incapace tanto di investire sui settori giovanili e sulle strutture di base quanto di inaugurare riforme credibili (pensiamo all’under 23, sposata da una sola squadra).
Vertici sportivi aggrappati a una politica nazionale anch’essa inerte o in perenne ritardo, e a controproducenti misure tampone come il “Decreto crescita” che, con la scusa di portare in Italia i campioni tagliando i costi sull’ingaggio, ha dato l’ennesimo segnale di retroguardia ideologica nella più classica delle scorciatoie italiane.
«Se vogliamo vendere il nostro prodotto in Cina e negli Stati Uniti, dobbiamo migliorarlo, uscire dalla dimensione un po’ paesana del nostro calcio, e cambiare gli orari di alcune partite: se il match clou lo programmiamo alle nove di sera, a Pechino non lo guardano – continua Scaroni – Noi stiamo perdendo terreno anche rispetto alla Spagna e alla Germania. Dai diritti tv esteri la Liga incassa 897 milioni a stagione, noi poco meno di 200. Poi ci chiediamo perché da dodici anni non vinciamo una Champions League e non arriva da noi il fenomeno».
Il numero uno del Milan qui mette tutto nello stesso frullatore, come se poi in Italia non si giocasse a 10 orari differenti (peggio di tutta Europa), come se in Liga i big match non fossero in serale o come se in Premier si disputassero le partite di notte/mattina (l’ultima giornata del campionato inglese ci ha dato l’ennesima lezione: tutti i match in contemporanea, alla solita ora di sempre, e tanti saluti ai cinesi che avrebbero dovuto collegarsi a mezzanotte per vederle). Per non parlare della Germania.
Il punto non è questo, l’estrema liberalizzazione del modello calcio fino a farlo diventare uno spettacolo completamente prono alle esigenze del mercato indo-cinese-americano.
Per carità divina. È la solita litania dei grandi imprenditori che si lamentano dei vincoli della burocrazia (certamente in Italia gravosi e insostenibili) ma che si limitano ad analisi faziose, interessate e miopi. In Italia si dovrebbe partire dal problema tecnico – quello per cui non siamo più in grado di produrre talenti – investendo in un grande piano infrastrutturale sul calcio di base come fatto in Germania (e non solo); e poi passare al problema economico, per il quale le nostre società faticano a competere con le migliori al mondo. Anche qui però il discorso è lungo e complesso, e se togliamo le inglesi + il PSG non ci sono club che operano “fuori” dal mercato.
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Le stesse spagnole sono negli ultimi anni in grave difficoltà economica, il Barcellona a costante rischio fallimento ma anche il Real Madrid, che negli ultimi cinque anni è addirittura in attivo sul mercato trasferimenti, mentre in Germania il Bayern segue e persegue il suo modello virtuoso. Altrove però, a differenza dell’Italia, ci sono idee e si inaugurano riforme: lo ha fatto Tebas per il calcio spagnolo, con un progetto di sviluppo complessivo della Liga che gli ha attirato l’ira degli stessi top club come Real e Barcellona (con cui è addirittura in causa); e lo ha fatto la federazione tedesca nel momento di massima crisi (dopo gli europei del 2000), raccogliendo poi quanto seminato.
Solo qui tutto tace, e anzi siamo pronti a svendere quel pochissimo di tradizione che ci rimane per accontentare i nostri nuovi padroni cinesi e americani. Se è questo il modo per far tornare grande la Serie A, stiamo freschi. A questo punto ribattezziamola Super League e giochiamola alle 9 di mattina: forse qualcuno ci casca.
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