Calcio
09 Maggio 2025

Se Lamine Yamal fosse nato in Italia non se ne sarebbero accorti

A proposito di una dichiarazione (folle) di Julio Velasco.

Julio Velasco critica il conservatorismo italiano verso i giovani. La verità, però, è più brutale: i veri fenomeni come Lamine Yamal non hanno bisogno di aiuti. Impongono la loro presenza. È il nostro calcio che, da troppo tempo, non riconosce più questi giocatori al momento opportuno, preferendogli altro.

«Lamine Yamal, in Italia, non giocherebbe. Qui c’è sfiducia e sospetto nei giovani (non sono mai pronti), oltre che una certa esterofilia. Credo che vada cambiata questa mentalità, dare più fiducia ai giovani, anche nella Serie A e nella Nazionale, per abbassare costi e aumentare l’entusiasmo, perché i giovani portano un sacco di entusiasmo». Firmato Julio Velasco, uno dei più grandi allenatori di sempre — anche se non nel calcio.

Pronunciata a margine della presentazione delle Nazionali di Volley, questa frase ha rapidamente attraversato i social, i media sportivi e i salotti televisivi come una scossa elettrica. In un’Italia che fatica a lanciare i propri giovani talenti, che si guarda continuamente allo specchio senza sapere se detestarsi o giustificarsi, le parole di Velasco suonano come una sentenza definitiva. Eppure, proprio perché sono nette, proprio perché provengono da una figura di enorme autorità morale, vale la pena fermarsi a chiedersi: è davvero così semplice? È vero che Lamine Yamal, se fosse nato a Bari o a Torino, sarebbe oggi costretto alla panchina, dietro qualche straniero mediocre, o relegato in Serie C?

La tentazione di rispondere di sì è forte. Infatti, raccontarsi come un Paese incapace di credere nei giovani è ormai parte del nostro racconto nazionale, una litania stanca che accompagna ogni disfatta e ogni talento perduto. Eppure, come spesso accade con le verità facili, il rischio è quello di scambiare una diagnosi parziale per una sentenza totale. Velasco coglie il problema culturale — la sfiducia, il sospetto — ma semplifica un sistema molto più complesso, in cui lanciarsi o meno dipende da fattori profondi: strutture, investimenti, visione, coraggio, ma anche puro talento.

Forse, quindi, la domanda giusta non è: Lamine Yamal in Italia giocherebbe? La domanda giusta è: l’Italia saprebbe riconoscere e proteggere un Lamine Yamal?

Se Yamal fosse soltanto una storia di talento precoce, sarebbe facile inserirlo nella lunga lista dei prodigi esplosi troppo presto. Il calcio europeo ne è pieno: nomi dimenticati, schegge di classe bruciate dall’hype. Lamine Yamal, però, non è soltanto il più giovane esordiente della storia del Barcellona, non è solo il più giovane marcatore della Liga. È, prima di tutto, il prodotto di un’idea.

Nato nel luglio 2007, figlio di madre della Guinea Equatoriale e di padre marocchino, Yamal è cresciuto nella Masia, l’accademia del Barça che più di ogni altra scuola calcistica al mondo ha fatto della fiducia nei giovani la sua religione. In un sistema dove il talento è osservato, educato e protetto fin dall’infanzia, Lamine non ha dovuto dimostrare di meritare fiducia, ha ricevuto fiducia per definizione, come parte integrante del suo percorso.

Prima che fosse pronto a segnare contro l’Athletic Bilbao o a illuminare il Camp Nou, era pronto a sbagliare, a crescere, a fallire e riprovare. Le sue caratteristiche non sono solo quelle di un talento istintivo: controllo orientato, scelta del tempo, gestione delle pause, ecc. ecc. In campo, Lamine Yamal gioca come se avesse dieci anni di esperienza in più. Non è semplicemente più veloce o più tecnico: è più intelligente. In un calcio che divora i suoi bambini, l’intelligenza – più ancora della qualità tecnica – è ciò che separa i predestinati dagli effimeri.



Parlare di Lamine Yamal significa quindi parlare di un talento fuori scala. Uno che sarebbe emerso ovunque, certo, ma che a Barcellona ha trovato un ecosistema disposto a credere in lui prima ancora che il mondo si accorgesse della sua esistenza. La domanda, allora, è questa: se fosse nato a Milano o a Napoli, avrebbe trovato la stessa strada davanti a sé? Qui il discorso si complica.

In Italia, la retorica della sfiducia nei giovani è diventata quasi un dogma intoccabile. Ogni volta che una nazionale giovanile esce ai primi turni, ogni volta che un talento fatica a trovare spazio in Serie A, si grida al tradimento culturale: «Abbiamo paura dei giovani!». Velasco si inserisce in questa linea di pensiero, portandola alle estreme conseguenze: se anche un Lamine Yamal fosse italiano, insinua, finirebbe soffocato dal sospetto e dalla prudenza. Le cose però, a ben vedere, sono più complicate.

L’Italia non è mai stata — né oggi, né ieri — un Paese completamente ostile ai giovani. Da Francesco Totti a Gianluigi Donnarumma, passando per Andrea Pirlo, Sandro Nesta, Paolo Maldini, Antonio Cassano, Ventola, Silvio Piola e Gianni Rivera ecc. ecc. la storia recente e meno recente è piena di esempi di ragazzi lanciati giovanissimi in Serie A, in ruoli cruciali. No, non solo nelle piccole squadre di provincia, spesso nei grandi club, sotto la pressione dei risultati.

Certo, negli ultimi anni questa fiducia sembra essersi rarefatta. Il sistema italiano ha smesso di costruire percorsi chiari di crescita: il vivaio viene visto più come un bacino di riserve low-cost, plusvalenze, pedine di scambio, mangime per le Seconde Squadre, che come un patrimonio tecnico.

Eppure, anche oggi, alcuni Club — l’Atalanta di Gasperini, l’Empoli dei miracoli silenziosi, il Lecce di Corvino, per esempio — dimostrano come il problema non sia insormontabile: dove esiste un progetto serio, il giovane viene valorizzato. Quello che manca non è solo il coraggio di lanciare un 17enne.

Manca, semmai, il talento assoluto che giustifichi quel coraggio senza bisogno di lunghe riflessioni. Lamine Yamal non gioca perché, prima Xavi e oggi Flick, osano, gioca perché è impossibile tenerlo fuori. È il talento che costringe il sistema ad adattarsi, non viceversa. In Italia, oggi, quel talento dominante, quel talento che travolge ogni tentazione di sospetto, semplicemente non c’è, oppure lo si scarta per uno che, alla stessa età, è fisicamente più sviluppato oppure caldamente raccomandato, anche se Madre Natura gli ha montato i piedi al contrario e un cervello ab-normal.



Quando si parla di giovani e fiducia, il rischio è di cadere in un equivoco di fondo: più ragazzi si lanciano, più campioni si creano. La realtà, purtroppo, è diversa. Il talento non si produce per decreto. Non basta dare minuti a un diciassettenne per trasformarlo in un fenomeno. Se bastasse il coraggio, il mondo sarebbe pieno di Messi, di Mbappé, di Lamine Yamal. Invece, il calcio d’élite è spietatamente selettivo: sempre meno eletti e una massa di buoni maratoneti.

L’Italia, da anni, confonde i piani. Vede in ogni prospetto interessante un potenziale fuoriclasse. Racconta con toni epici ogni gol segnato da un Under 17. Trasforma la normalità in eccezionalità. Così, ogni volta che un ragazzo debutta in Serie A o fa un paio di gol in Primavera, si costruisce attorno a lui un’aura da salvatore della patria. È un racconto che nasce dalla fame: la fame di ritrovare i giorni gloriosi, la fame di avere un nuovo Totti, un nuovo Baggio, un nuovo Del Piero. È un racconto che tradisce la realtà.

La verità brutale è che oggi il sistema italiano produce buoni giocatori, a volte ottimi, ma mai eccezionali. La mediocrità organizzata — fatta di buoni curriculum, di carriere ordinate, di gestione prudente, fisici imponenti — ha preso il posto dell’estro incontrollabile, del talento anarchico, del genio precoce, cui spesso si preferiscono centimetri, chili, tattica o procuratori.

Lamine Yamal è un alieno non perché è giovane, è un alieno perché, già dai 16 anni, vede il gioco in un modo che il 99% dei professionisti adulti non riesce nemmeno a immaginare. Questa qualità non si insegna, non si pianifica, non si programma. Ci nasci. Si scopre. Si educa. Si accompagna. Purtroppo in Italia, ormai da anni, molto probabilmente (se) nasce non viene vista, non si aspetta, non si aiuta a crescere. Perché questa qualità, da qualche parte, è certamente nata anche in Italia, banalmente per un fatto statistico, ma gli è stato preferito altro. Alla fine, l’errore della frase di Julio Velasco non sta solo nella critica — in parte legittima — al conservatorismo del calcio italiano. Sta nell’aver confuso l’effetto con la causa.

Non è la mancanza di coraggio che tiene fuori i fuoriclasse in Italia. È l’incapacità di individuare veri fuoriclasse che rende il sistema chiuso, pauroso, autocentrato. Lamine Yamal non è un simbolo della cultura catalana più progressista o del Barcellona più visionario. È, prima di tutto, un evento naturale: qualcosa che accade raramente, che sfonda qualunque schema, che ride in faccia alle prudenze e ai sospetti. Un talento che sarebbe emerso a Parigi, a Dortmund, a Milano come a Buenos Aires o Belgrado. Un talento che avrebbe forzato la mano di chiunque, anche del più cauto degli allenatori italiani.

Il problema, in Italia, non è che il nostro calcio tiene in panchina i nuovi Yamal. Il problema, molto più semplice e doloroso, è che i nuovi Yamal non li sappiamo individuare al momento giusto, non li sappiamo educare, accompagnare e quindi, spesso, gli preferiamo altro. Finché non accetteremo questa realtà — dura, spietata, ma fattuale — continueremo a raccontare a noi stessi la favola di un Camarda qualsiasi come se fosse il nostro biglietto per il futuro. Quando invece, per costruire davvero un futuro, servirebbe una cosa sola: saper riconoscere il talento al momento giusto ed educarlo, accompagnarlo. Yamal giocherebbe anche in Italia, non c’è dubbio su questo. Il problema è che, se fosse nato in Italia, probabilmente, non se ne sarebbero accorti e lui sarebbe andato a imparare all’estero, rientrando forse in Nazionale come oriundo.

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