Due artisti uniti da una data e un luogo simbolo: la Spagna del 1964.
Allo scoccare della mezzanotte dell’Anno del Signore 1964, qualcuno deve aver deciso che il genio e la creatività sarebbero dovuti concentrarsi quasi del tutto in un preciso luogo del nostro pianeta. E si sarebbero dovuti esprimere attraverso due differenti forme. Lo sport e il cinema. Tutto accade in Spagna.
Il posto giusto per un giovane regista italiano, nato in una famiglia che vive di pane e cinema, il quale è stanco dei soliti kolossal e sta progettando qualcosa di nuovo. Di innovativo non nel genere, ma nello stile. Qualcosa da fare invidia alle grandi major hollywodiane. Sergio Leone. L’altro protagonista ha 29 anni, è gallego, gioca divinamente a calcio ed è al top della sua carriera. Ha un palmares da fare impallidire gli avversari, coronato da un Pallone d’Oro. É uomo simbolo nell’Inter pigliatutto di Helenio Herrera. E con il 10 sulle spalle vuole guidare la sua selezione al titolo di Campione d’Europa. Si chiama Luis Suarez.
Luisito è il terzo figlio di un macellaio di Monte Alto, un barrio a picco sul mare di La Coruna. Come i suoi fratelli, ha una sola passione: il calcio. É la classica storia novecentesca. Ambiente umile, quello della Spagna franchista post guerra civile, il pallone come unico sfogo, le sfide con gli amici per calle Hercules, casa di Luis. Il ragazzino ha gamba e corsa e, soprattutto, ha una visione non comune per la sua età. Più che segnare o dribblare mezza squadra, preferisce mandare in porta i compagni. C’è un problema: difetta un po’ nel fisico. Ci pensa il papà.
Niente palestra, bastano le bistecche della macelleria a renderlo forte come i suoi coetanei. Suarez poco a poco costruisce il suo fisico e, dopo il classico passaggio nella squadretta di quartiere, è già pronto per il team della sua città, il Deportivo. A 19 anni disputa 17 partite e segna 3 gol. Per un giocatore “normale” ci vorrebbe una seconda stagione, quella della conferma, prima del grande salto. Ma Sandro Puppo, allenatore italiano giramondo del Barcelona non se lo vuole far scappare. Nell’estate 1954 Suarez passa ai blaugrana, per iniziare la scalata al mito.
Sergio Leone è il figlio di un’attrice e di un regista dell’epoca pioneristica del cinema tricolore. Romano di Trastevere, cresce in un ambiente dove puoi scegliere due strade. O ti innamori di cellulosa, cineprese e set sin da bambino o li odi a tal punto da cancellarli dalla tua mente. Il giovane Sergio opta per la prima, senza nemmeno pensarci troppo. Per lui esiste una sola passione. Il cinema americano. Gli attori di Hollywood come miti inarrivabili, i primi film in sonoro, la voglia matta di sedersi in platea e gustarsi la settima arte. Come periodo storico è fortunato e sfortunato allo stesso tempo.
Fortunato, perchè il cinema sta diventando una pietra miliare del tempo libero. Sfortunato, perchè il regime di Mussolini è poco propenso, per usare un eufemismo, al celebrare la cultura straniera e dunque fa largo uso di censura, a vantaggio dell’industria nazionale, ancora molto arretrata. Quando finalmente la guerra finisce, però, si apre una nuova epoca, per l’Italia e il suo cinema. Quella di De Sica e Rossellini e Leone non vede l’ora di essere di casa a Cinecittà. Inizia come comparsa in un capolavoro del neorealismo come “Ladri di Biciclette”, poi passa a fare l’aiuto regista per il padre. Siamo negli anni cinquanta e c’è un genere a Roma che va per la maggiore: porta in riva al Tevere le star americane e riempie le sale dei cinematografi. Il “peplum”.
La carriera del ragazzo di Monte Alto cambia nel 1958. Sulla panchina azulgrana siede un argentino, figlio di un anarchico andaluso, che ha giocato una vita in Francia ed ha già vinto due Liga con l’Atletico Madrid. É il mister che darà una accelerata, quella decisiva, verso il firmamento calcistico di Suarez: Helenio Herrera. Alla sua prima stagione, con una squadra che presenta un quartetto come Kubala, Kocsis, Czibor e Suarez vince il campionato e la Coppa del Generalissimo, variante in salsa franchista della coppa nazionale.
É vero che il Barça, solo con quei quattro tra centrocampo e attacco è una potenza, ma è forse meglio ricordare chi erano gli sfidanti. Anzi, lo sfidante. Il Grande Real. Di Stefano, Kopa, Rial, Gento e Puskas. Cinque Coppe Campioni in cinque anni e tanti campionati. Serve altro, per dare l’idea dell’impresa dei catalani? E intanto, poco a poco, il Mago mette da parte Kubala per consegnare le chiavi della squadra a Luisito. Il gallego ha tutto: velocità di pensiero, precisione, altruismo. Quel giocatore – capolavoro diventa il perno del Barça, con cui vince un’altra Liga. E si prende un soprannome che dice molto sul suo modo di giocare a calcio: “l’Architetto”.
Più o meno negli stessi anni, un trentenne Leone sostituisce Mario Bonnard alla direzione de “Gli ultimi giorni di Pompei”. Quando la pellicola esce, però, il suo nome non figura e allora i produttori decidono di affidargli le redini di un altro peplum: “Il colosso di Rodi”, storia d’amore ambientata al tempo degli eroi, sullo sfondo dell’isola greca. Il film non va male, ma Sergio intuisce che non è quella la sua strada. Ci vorrebbe qualcos’altro e allora, gli viene in mente un’idea. Non bisogna creare un nuovo genere, bisogna creare un “sottogenere”.
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