Anche Mourinho ha dovuto piegarsi al peso della Storia.
È durata 146 minuti Sevilla vs Roma. È iniziata a maggio ed è finita a giugno, un’ironia temporale che cela una verità calcistica: quella di ieri sera è stata una finale vera, «maschia» come l’ha definita José Mourinho nel post-partita. Il portoghese non aveva mai perso nell’ultimo atto di una competizione europea, ma ha dovuto piegarsi – fa quasi strano a scriverlo – davanti alla Tradizione di chi invece ha sempre vinto sul più bello: il Siviglia, appunto. La squadra di Mendilibar è partita quasi timorosa, poco sciolta e rannicchiata.
Sembrava piccola rispetto alla Roma, che ha approcciato l’incontro con autorità e cattiveria, ma anche con grande qualità. Dalla sua parte, la squadra di Mourinho aveva un popolo che l’allenatore di Setúbal aveva sapientemente infuocato nel corso di questa Europa League. Così, appunto con autorità e cattiveria, Mancini recuperava un pallone roccioso a centrocampo con l’aiuto di Cristante, per poi servire in profondità Paulino Dybala. Giunti al 34′ l’argentino, a tu per tu con Bounou, stappava una finale portandola sui binari capitolini.
La Roma, pur con qualche lieve sofferenza nel finale di primo tempo, chiudeva i primi 45 + 7 minuti di recupero meritatamente in vantaggio. Poi, qualcosa è cambiato.
Qui l’esegesi procede a tentoni. Si ferma, riflette, non comprende. Forse a ragione: qualcosa è cambiato, certo, ma non solo grazie agli ingressi di Suso e Lamela, né per l’eccessiva barricata dei giallorossi in avvio di ripresa. La Sud, piuttosto, ha smesso di cantare. Il popolo si è spento, o meglio lo hanno fatto i suoi gruppi. Qualcosa è capitato e, mentre ad esempio i Boys ritiravano la propria pezza, i gruppi iniziavano a non alzare più quegli stessi cori che avevano letteralmente trascinato la squadra nel primo tempo e per tutta la stagione. Logiche (difficilmente comprensibili) da ultras. Erano i minuti cruciali, quelli in cui reggere l’urto dello (atteso e prevedibile) ritorno degli andalusi. E invece, silenzio. Spinti dalla Biris Norte, il Siviglia pareggiava la finale con un cross mortifero di Navas (che aveva vinto la prima Europa League col Siviglia nel 2006) e un’autorete sfortunata e goffa di Mancini.
L’1-1 poteva facilmente tradursi in psicodramma, ma la Roma è rimasta viva. Ha ricominciato a giocare, pur privata di alcuni interpreti fondamentali – Dybala, ma si sapeva, e poi Pellegrini ed Abraham, malino anche ieri, sul finale. Matic, stoico, ha finito coi crampi, e Mourinho stesso nelle parole a fine partita a sconfitta acclarata è parso meno lucido del solito. Gli occhi spiritati di Mou, sudato fino all’inverosimile, parlavano di un dolore vero, autentico, e della voglia quindi di riscatto che nasce da sconfitte del genere. Davvero questo allenatore a Roma è diventato una guida. Ama il suo popolo, che lo ama senza compromessi.
E che al termine della tremenda serie dei rigori (che si è materializzata nei due errori giallorossi, con Ibanez e Mancini, ma che considerati i rispettivi tiratori e portieri non poteva andare diversamente) lo ha acclamato come un Re. La battaglia è persa, la guerra neanche per sogno. E pensare che Rui Patricio lo aveva parato l’ultimo rigore, ma Taylor (autore di alcune cagate, come si è espresso Mourinho nella conferenza post-partita) ha comandato la ripetizione del penalty. Un arbitraggio che, e non solo per l’episodio incriminato del rigore non concesso (quello per fallo di mano di Fernando su cross di Matic) non è mai stato all’altezza di una partita del genere, anzi.
Così Montiel, un giocatore qualunque, ha chiuso la sua stagione con due rigori decisivi in due finali pesantissime: quella del Mondiale (con l’Argentina) e quella di Europa League (col Sevilla appunto). La Tradizione ha vinto, ma Mourinho era quasi riuscito nell’impresa di tenerle testa. Meglio: di riscriverne le leggi divine che regolano la vita di quaggiù e quella di lassù, dalla carne ad Eupalla.
«L’ho detto ai ragazzi prima della partita: o torniamo con la Coppa o siamo morti. Siamo morti». Non è ancora questa, però, la morte. Ecco perché i tifosi della Roma a fine partita hanno applaudito e consolato i giocatori in maglia giallorossa, su tutti Bove e Dybala, disperati. Ma in quell’applauso c’era qualcos’altro: il saluto a un allenatore che vuole rimanere, ma solo a certe condizioni. Per riscrivere quelle leggi di Eupalla che di lui fanno un Pericle calcistico.