Una deriva etica ed estetica del calcio liquido.
Se la Serie A avesse acquistato, in quanto a recupero di tradizione e passione popolari, l’ampiezza di vedute che ha raggiunto, per esempio, in ambito pubblicitario e tecnologico, questo pezzo andrebbe annoverato tra gli esercizi retorici. Allo stato attuale, però, dato che abbiamo voluto dare più credito al progresso tecnico, così preoccupati di avere sempre una “vision” [1] convincente da proporre, questo pezzo, per quanto di velleitaria provocazione – consapevole, cioè, di essere destinato a non muovere di una virgola lo stato delle cose – è indirizzato a chi si sente sempre più confuso di fronte all’andazzo del presente giuoco e che, dopo aver letto, comprenderà quanto sia ragionevole non saper più da che parte sbattere la testa o, per dirla evangelicamente, posare il capo.
Lorsignori poggiano dunque il sedere, lo adagiano comodamente sul divano, dopo una lunga giornata di lavoro. In un attimo il televisore, con un gesto perlopiù automatico della mano, si sintonizza sulla prima partita disponibile. «Ma quale?» si chiedono gli spettatori, dal momento che lo spezzatino televisivo si è fatto ormai così liquido e pastoso da rendere ostica la distinzione delle carni, ovvero delle gare in corso, e in sostanza ricordare chi-gioca-quando non solo è diventato impossibile, ma spesso, diciamolo, indesiderabile: l’importante, pare, è il fatto stesso che si giochi [2].
Che l’evento in sé si sia man mano ridotto all’osso, l’attesa menomata, l’eros e il pathos andati in aceto, è lapalissiano al punto che il tifoso di una squadra davvero non ne può potere più. Emblema ne è per altro il calendario, un tempo guida fedelissima di ogni appassionato, divenuto oggi, tra campionato e coppe, una mappa che ha perso i suoi significati proprio per il sovrapporsi incessante di segni diventati illeggibili e perciò stesso inutili [3]. E di questo, del resto, si è già ampiamente parlato.
Ma il dubbio iniziale – quale partita sto vedendo? – ha un ulteriore, subdolo perché.
Sempre più frequente è infatti che le formazioni scendano in campo con una maglia diversa da quelle di riferimento, la “prima” e la “seconda”, preferendo la cosiddetta “terza divisa”, anche e soprattutto nello stadio di casa; un’uniforme spesso così lontana dai colori e dai motivi caratteristici del club che il sostenitore, vedendo uscire i propri beniamini dagli spogliatoi, prova un attimo di scompenso nel non riconoscere le squadre; si chiede se sia giunto alla partita sbagliata, o se la birra del baracchino non gli stia giocando un brutto scherzo alle retine.
Lorsignori dunque strabuzzano gli occhi. Il canale di cui sopra mette in mostra una gara cromaticamente anonima ma sempre lodata oltre ogni misura dai telecronisti di turno. La compagine che attacca verso destra, dunque, veste un giallino spento e sgraziato, che ricorda una parodia carnevalesca. E sembra quasi voler avvertire gentilmente gli avversari della propria presenza in campo: guardate che ci siamo anche noi, tra poco vi attacchiamo dalla fascia destra, ma non preoccupatevi, faremo con calma!
L’altra, invece, esibisce un pastrocchio in due tonalità, che sul sito del rivenditore ufficiale viene definito «un audace design che cattura lo spirito moderno e la tradizione del club», certo non mancando di sottolinearne i tessuti ecologici (non sia mai che inquinino!), ma lasciando interdetto chiunque voglia sapere dove sarebbero di preciso, in quell’accrocco, lo spirito e la tradizione decantati. In quel di San Siro, insomma, che i nerazzurri siano i ragazzi dell’Inter e i rossoneri quelli del Milan, oggi, non è più così immediato.
Chi sono loro? E chi siamo noi? Si finisce per chiederselo veramente, magari nello spazio di un secondo, dubitando di una delle poche cose di cui eravamo certi.
Che piaccia o meno, il calcio – ma si potrebbe a ragione parlare dello sport in genere, soprattutto di quello di squadra – ha a che fare con l’identità: un’idea che, per quanto oggi discussa, ci permette di individuare ciò che ci rende simili a noi stessi e, al contempo, ciò che ci differenzia dagli altri. Così per come nasce, lo sport con il pallone è distintivo, divisivo, agonista. Crea un ‘noi’ e un ‘loro’: nella separazione delle squadre in un undici contro undici, nella divisione tra settori gradinati, persino nelle rette e nei semicerchi di gesso bianco che cesellano il prato di gioco, un rettangolo a sua volta separato dal mondo che, trepidante, lo osserva sugli spalti.
Tutto ha una sua funzione e un significato in base alla differenza, e persino la porta dell’estremo difensore, i falli, la rete, il fuorigioco, si giostrano su un di qua e un di là relativamente ai quali pochi centimetri possono costare una stagione. Da questo punto di vista, la maglia è forse la più decisiva (e visiva) delle polarità presenti. Noi siamo noi innanzitutto per i colori che portiamo addosso, quelli cosiddetti sociali [4], che molto spesso rimandano alle sfumature di un’insegna cittadina, ad uno stemma comunale o comunque alla storia intima della squadra e della sua fondazione.
Non è, questa, una crociata contro il design, sia chiaro, né si vuole criticare le belle iniziative commemorative, come l’ultima del Milan per i 125 anni del club. A far storcere il naso è invece l’abitudine sempre più diffusa di mandare in campo le squadre di casa con pigiamini improbabili, del tutto estranei alla loro storia gloriosa e spesso senza che vi sia alcuna congruenza cromatica rispetto alle maglie degli avversari (problema che, nella maggior parte dei casi, si risolverebbe usando quella di riserva). Questa pratica irragionevole di utilizzare divise terze compromette l’immediato riconoscimento del tifoso, che fatica a ritrovare la casacca celebrata nei cori della sua curva. Le tenute fluo, insomma, finiscono per tradire quel legame anche senza volerlo.
È la pura esigenza del business che inquina il carattere di uno sport antico e popolare sempre più lontano dalle proprie origini, a proposito del quale ci si può realmente chiedere quante generazioni passeranno prima che diventi irriconoscibile. La strategia è collaudata: creare nuovi desideri sciocchi, mettere in vetrina magliette dalla dubbia estetica per renderne più appetibile l’acquisto [5], svolgendo nel frattempo il duplice ruolo di offrire sul mercato pezzi da collezione e, soprattutto, segnalare all’utenza il cambio di stagione in modo più netto e palpabile.
Il nostro amato sport, però, non si risolve in un cambio d’abito e non può essere ridotto ad una passerella da settimana della moda, nel corso della quale mettere in mostra la propria resistenza all’imbarazzo. Si rimane convinti che nessuno vada allo stadio per vedersi rappresentare da tinte arlecchinesche e umorali, ben lontane da quelle che da bambino gli avevano fatto per prime luccicare gli occhi. Quando si pensa ai campioni che si affrontano palla al piede, del resto, l’immaginazione corre subito alle giostre medievali: cavalieri lucenti in armature cromate, che coloravano i propri scudi per riconoscersi nella mischia, per celebrare le virtù di chi veniva sconfitto o per esaltare il proprio valore nel caso di una vittoria gloriosa.
Ma quale epica si può celare dietro un condottiero che cambia arme ad ogni duello?
Nel contesto della battaglia simbolica rappresentata dal calcio, le terze maglie indeboliscono quel legame viscerale tra squadra e tifosi. Il Milan in verde bottiglia, il Napoli in camouflage militare, il fluorescente dell’Inter: tutti effetti pittoreschi più o meno stravaganti, capaci di fare letteralmente la pelle alla tradizione di un club come si fa coi maiali dopo che li si hanno sbudellati.
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D’altro canto non siamo pulzelle d’Orleans, nessuno si illude che questa non sia una lotta contro i mulini a vento, una vox clamantis in deserto. È ovvio che la contemporaneità sia schiacciata sull’economico e che il calcio contemporaneo, proprio in quanto contemporaneo, ruoti attorno alle medesime logiche. Non è difficile immaginare, con un po’ di distopia, che il fatto stesso di riusare la medesima maglia per due gare di fila sarà presto derubricato ad usanza da categorie minori e dilettantistiche. A questo punto, si potrebbe dire, perché non cambiare texture ad ogni incontro, presentare la quarta, la quinta, la ventesima maglia per stagione?
Che si torni alla prima divisa stabile, salvo come opzione di emergenza, parrà forse solo un sogno nostalgico. Ma si lasci almeno lo spazio per lo sdegno e per il disprezzo nei confronti dell’ennesima azione messa in atto per logorare l’appassionato e disaffezionarlo, a favore del consumatore, che tanto più è ibrido e disancorato, tanto più consuma [6]. In fondo, se il calcio si riduce a prodotto da scaffale e le casacche a costumi interscambiabili da parata, ogni partita non può che valere l’altra. Il tifoso romantico si fa da parte. Il nerd in bulimia calcistica continua a contare gli expected goals. Lorsignori, telecomando in mano, non sanno che cosa pensare.
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[1] Parola abusata fino a renderla intollerabile, specie se tradotta in inglese, al punto che essa rappresenta ormai un segnale inequivocabile di pericolo: quanto più il nostro interlocutore la usa per condire le sue affermazioni, tanto più, nella migliore delle ipotesi, rischiamo di essere sedotti dalla fuffa; o, in quella peggiore, di venire presto silurati da tergo. Ah, che male! Che vision!
[2] Al diavolo l’avversario da affrontare, al diavolo il come affrontarlo. È questo, in sostanza, il menù perfetto per il tifoso del tanto decantato “bel calcio” (alle volte tutt’altro che bello), incomprensibile per chi invece sente di dover compartecipare delle sorti di qualcuno – lo sport come partigianeria e campanilismo – attirando la iella sul rivale e accaparrando per la propria parte la benevolenza degli dèi.
[3] Ma si pensi anche ai frequentissimi cambi di data e orario a stagione in corso, le sovrapposizioni e le amichevoli, le gare rinviate di tanto in tanto a pochi minuti dal fischio d’inizio per le più disparate (e disperate) ragioni.
[4] Altra parola sintomatica: la societas è un’alleanza, il socius è il compagno, sociare equivale ad unire, certo in contrapposizione ad un altro che mi è estraneo e spesso ostile.
[5] E che tuttavia – così Andrea Saronni su Avvenire – rimane una voce minoritaria nei capitoli di spesa dei fan, i quali continuano a preferire la “prima” maglia.
[6] Cfr. P.P. Pasolini, Scritti corsari: «A un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività». Ma vedasi anche E. Fromm, Avere o essere: «Per riassumere: consumare è una forma dell’avere, forse quella di maggior momento per l’odierna società industriale opulenta. Il consumo ha caratteristiche ambivalenti: placa l’ansia, perché ciò che uno ha non può essergli ripreso; ma impone anche che il consumatore consumi sempre di più, dal momento che il consumo precedente ben presto perde il proprio carattere gratificante. I consumatori moderni possono etichettare se stessi con questa formula: io sono = ciò che ho e ciò che consumo».