Ci sono, nelle carriere dei tennisti, avversari, campi, tornei, che sono maledetti o benevoli; che evidenziano le lacune o, al contrario, esaltano le bravure. Ci sono quindi situazioni che mutano la realtà, o meglio la sospendono. Nel mondo forse, ma nel tennis sicuramente, esiste un dio con un senso dell’ironia non banale che, appunto, interrompe il flusso noioso degli eventi e lo impreziosisce con un lampo divino. Marat Safin non ha nulla di terreno e, nel corso della sua carriera, la mano di Dio si è posata due volte sulla sua testa.
Due occasioni importantissime per chi vuole ritagliarsi un posto nell’Olimpo degli dèi del tennis: in Australia, a Melbourne, e in America, a New York, città dove si svolgono i due tornei più importanti del pianeta sulla superficie veloce, il cemento.
Non è da considerare prodigioso il fatto che Marat abbia vinto due tornei dello Slam – il suo era un talento sterminato – quanto il fatto che lo abbia fatto entrambe le volte contro i beniamini di casa. Quando vince gli Us Open, poco più che ventenne, Safin ha dall’altra parte della rete Pete Sampras, l’ultimo tennista novecentesco che questo sport ricordi: rovescio a una mano e sempre all’arrembaggio a rete. Attacchi in controtempo, varietà al servizio, volée in allungo che cadono sulla riga: poesia per chi è rimasto legato a quei tempi di gioco.
Safin distrugge Sampras in tre set: 6-4, 6-3, 6-3. L’americano, una volta fuori dal suo incubo, dirà che durante la partita non sapeva dove tirare, che Safin gli riprendeva ogni palla e sentiva di esser trafitto da ogni lato. Passare Sampras non era uno scherzo. Succedeva, certo, tutti potevano infilare un colpo azzeccato, ma farlo con continuità, strappargli il servizio tre volte consecutive, in casa sua, era considerata un’impresa impossibile, chiedere ad Agassi per credere.
«Questo fenomeno ha giocato un tennis che non conoscevo, mi ha sommerso, ha fatto quel che voleva di me, come non immaginavo, come non pensavo possibile».
Pete Sampras su Marat Safin
Nella seconda occasione siamo nella terra dei canguri, luogo di conquista dei grandi commercianti olandesi ed europei tout court, che da carcere a cielo aperto per i reietti della società occidentale si è trasformata in dispensatore di famiglie da riviste per casalinghe. L’Australia ha un doppio volto e nel gennaio del 2005, alla finale degli Australian Open, Giano era interpretato da Lleyton Hewitt, arrivato fin lì con il favore del pubblico dopo essere stato numero uno del mondo per 90 settimane (e aver raggiunto la vetta a poco più che vent’anni).
Egli è deciso a chiudere quella finale per aggiudicarsi il suo terzo slam dopo Wimbledon e Us Open, ma per il biondo coriaceo non ci sarà scampo dopo l’illusione del primo set. Perderà di fronte a 4 milioni di telespettatori.
Sampras e Hewitt hanno questo in comune, aver incontrato l’uomo sbagliato al momento sbagliato, in casa loro. Ma questo fatto storico può essere osservato da un altro punto di vista: è possibile che Safin si entusiasmasse di fronte al baratro della sconfitta annunciata e, libero da ogni pressione, riuscisse a tirar fuori il suo tennis migliore? La mano di dio, forse, al di fuori della partita di calcio Argentina – Inghilterra non esiste. Esiste, in questo caso, la mente di Safin che si liberava quando su di lui le aspettative erano pari o vicine allo zero.
Ma di queste due partite si è parlato anche troppo. Il Safin uomo è quello che veramente attrae chi si avvicina alla sua figura. Irrequieto, spavaldo, sicuro e acuto, intelligente al punto da zittire i giornalisti rigirandogli contro le loro stesse domande impertinenti: anche perché questi ultimi, sempre in cerca di scoop e mele marce da biasimare, punzecchiavano Marat sempre sulle stesse cose. Il terreno di scontro che preferivano era tutto incentrato sul rapporto di Safin con la vita fuori dal campo.
Le donne, i locali, la mondanità. Quando in conferenza stampa gli ricordano quanto col suo talento avrebbe potuto vincere molto di più e che avrebbe potuto essere l’unico a contendere il trono a Federer e poi a Nadal, Safin fa notare che, al contrario, se non avesse fatto quel tipo di vita probabilmente sarebbe stato così depresso da non riuscire neppure ad entrare in campo. Silenzio in sala, si può percepire anche a distanza di anni il vuoto lasciato dalle affermazioni del russo.
Classe 1980, russo tataro, musulmano, almeno così rivendicherà in un primo momento. La famiglia di Marat gestisce lo Spartak Tennis Club dove lui e la sorella cominceranno a tirare le prime palle. Le condizioni economiche favoriscono l’allontanamento del russo dalla casa paterna quando un imprenditore svizzero – “un amico di un amico che voleva fare business”, così la racconta Marat – investe 300.000 dollari sulla sua formazione. Vola in Spagna, ha 14 anni. Il tennis spagnolo lo definisce ma la matrice russa, l’esplosività e l’impeto non li perde.
Diventa infatti uno spagnolo di formazione atipica, il suo gioco è completo sia da fondo che a rete, terreno sconosciuto ai borbonici. Il servizio viaggia a velocità supersoniche e il suo punto di forza è il rovescio bimane con cui riesce a cambiare direzione alla palla fino all’ultimo istante precedente all’impatto. Scala in fretta le classifiche, la carriera sarà segnata da alti e bassi, a 19 anni vince il suo primo torneo a Boston, un anno dopo gli Us Open. Predestinato per i giornalisti, fiumi di inchiostro lo incoronano dominatore del futuro, ma Safin rimane fedele a se stesso e nella vita, oltre a giocare a tennis, vuole vivere ciò che accade fuori dal campo.
Da qui le serate in discoteca durante i tornei, le donne, tante, che lo accompagnano alle finali Slam, dove i registi televisivi si industriano in inquadrature dalla durata generosa sulle scollature delle Safinette, così chiamate in seguito dai tabloid. È il suo allenamento, uscire la notte e chiudere le serrande dei locali. Le sconfitte e le vittorie che deludono ed esaltano. Non ci sta a farsi rinchiudere nelle bolle di una non vita, nelle hall degli alberghi a giocare a carte fino alle dieci per poi filare a letto. Safin, la vita, vuole viverla. A chi gli farà notare che le donne forse lo hanno allontanato dai massimi livelli del tennis, risponde così:
«Se sei famoso, ricco e frequenti un bell’ambiente, non è difficile conoscere una bella ragazza. Ne parlano come se le donne mi avessero rovinato, ma anche quando ero numero uno del mondo venivano a suonare alla porta. Eppure vincevo lo stesso».
Alla mondanità si affiancano gli infortuni, c’è chi li assocerà ai suoi allenamenti scalcagnati, alla sua vita fuori dagli schemi, fatto sta che la carriera prende una piega discendente dopo la vittoria a New York. Risorgerà a Melbourne, libero da ogni tipo di pressione, appunto. I giudizi dei moralisti li lasciamo ai moralisti. A noi basta riguardare in rete un tiebreak con Federer durato mezz’ora sul sintetico di Houston, i colpi di genio a New York, o anche le racchette distrutte sul campo.
Durante la sua carriera ha guadagnato più di 14 milioni di dollari e ha vinto una quindicina di titoli in tutto. Qualcuno è stato in grado di chiedergli come avrebbe fatto a guadagnarsi da vivere dopo aver lasciato i campi, senza l’intenzione di tornarci da allenatore. Domanda sbagliata posta all’uomo sbagliato, che infatti risponde con la semplicità disarmante di chi non se l’aspetta: «Ho abbastanza denaro. Ci sono approcci differenti. Alcuni hanno bisogno di 10 milioni di dollari, altri di 10 miliardi. A me basta molto meno».
Le interviste concesse sono poche, si contano sulle dita delle mani, i social fino a poco tempo fa non li usava. Al contrario il russo ama viaggiare e spingersi nelle terre desolate, sentire il contatto con la natura, misurarsi come uomo, documentarsi da solo. Non ha una famiglia e non vuole averla, non ha un cane. Marat sgretola tutti i riempitivi della nostra vita, li uccide con una frase, come quella che disse a un fortunato giornalista di Sport.rsu a cui rilasciò una lunga intervista:
“Cosa faccio? Niente, non faccio niente. Io vivo”.
E ancora: «Molte persone devono fare qualcosa per ricordarsi di essere vivi, ma lo fanno per non pensare. Solo pochi sono in grado di stare soli con se stessi per cinque minuti. Chiudi una persona in casa per un giorno intero, portagli via il telefono e il computer e guarda cosa succede. Io non ho di questi problemi, non ho bisogno di lavorare ed essere occupato per sentirmi normale».
Sembra impossibile andargli contro. Ma in questo delirio di sicurezza personale e verità assolute tagliate con la mannaia di uno scannatore di bufali, Marat rivela tutta la sua natura di uomo parziale nei giudizi, manicheo, reazionario al punto da essere un’ottima sponda elettorale per il governo di Putin, che lo fa eleggere per ben due mandati, prima che lo stesso Marat decida di mollare la baracca della Duma per poter fare le esibizioni in campo e non avere impegni.
In questa parentesi politica voterà due delle leggi più discusse dell’amministrazione Putin, entrambe nel 2013: la prima è stata rinominata legge Anti-Gay, e sanziona chi espone i minori a contenuti di carattere omossesuale; lo scopo è quello di indirizzare i giovani, de facto, all’orientamento eterosessuale. La seconda riguarda invece le adozioni dei bambini russi da parte delle famiglie americane, negate in seguito alla morte di un ragazzo russo adottato da una famiglia americana.
Contraddittorio con se stesso, dirà di non essere più musulmano:
«Non esiste la religione, è stata creata artificialmente e tutti possono intuirne il motivo»
e, relativamente alle ultime vicissitudini legate alla pandemia, si lascerà sedurre dalle teorie complottiste riferendosi a certe confidenze che Bill Gates avrebbe fatto a Nadal e Federer sullo sviluppo mondiale del virus prima ancora che la notizia uscisse sui media. Insisterà su questo punto rivitalizzando teorie per cui la campagna di vaccinazione altro non sarà che l’occasione adatta a installare in ogni individuo dei microchip che monitoreranno ogni nostro movimento.
Complesso, impervio e assimilabile alle sagome dei generali dei romanzi russi, quelli che non hanno tempo per i dubbi e da ogni loro decisione deriva il destino di migliaia di persone, Marat Safin non può essere restituito con le parole. Forse può essere tratteggiato, immaginato, ma resterà sempre inaccessibile, altro da noi. Sarà incompreso, ma è questo il destino dei geni.
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